Mi capita di sentire spesso frasi del genere “non parlava volentieri della guerra”, “non mi ha mai raccontato niente della guerra”. Potrei dirlo anche io perché a casa ho avvertito spesso la reticenza del reduce.
Ma un pizzico qua e un pizzico là, nel corso degli anni qualche idea me la sono fatta e i ricordi di famiglia sembrano capaci più degli altri di portarsi appresso consapevolezze acquisite con l’esperienza altrui.
Così oggi, attraverso un ricordo non mio, so che verso la fine degli anni trenta la guerra era nell’aria. Un mio padre attorno ai vent’anni (mi sembra incredibile un padre così giovane, un figlio così vecchio!) scelse una facoltà universitaria che gli consentisse di finire presto perché, a tirarla in lungo, era difficile prevedere come e quando arrivare alla laurea.
Tramite Mario Pasi, medico comunista poi partigiano, rastrellato, torturato e ucciso, mio padre era molto vicino al P.C.I. (mi disse che non sapeva se fosse già iscritto o meno e mi spiegò che all’epoca non si trattava di una tessera che si potesse ottenere in sezione). Dunque era molto politicizzato e possedeva strumenti di consapevolezza. Condivideva però con tutti l’incombenza del futuro, previsto ma non esattamente leggibile: scoppierà la guerra, non si sa bene quando, non si sa bene come: solo in pochi avranno il potere di determinarlo.
Ma se oggi è possibile identificare con esattezza la catena di eventi che portarono a quella guerra, non altrettanto è possibile farlo con la catena delle intenzioni dei pochi che dietro gli eventi stettero: è difficile ricostruire il gioco tra consapevolezze delle conseguenze delle proprie azioni, previsioni sulle risposte del nemico (e dell’alleato), livelli di scommessa e avidità di vittoria.
La guerra è forse soprattutto un gioco (insensato) di pochi sulla pelle di tutt* e l’odore della insensatezza permea la guerra, come quando in Albania al sottotenente degli Alpini Carlo Scotoni, comunista ma soprattutto ragionevole, fu chiesto di far crollare con i colpi di un mortaio leggero un ponte veneziano in pietra che aveva sfidato i secoli.
Tornando di pochi mesi indietro, nei giorni attorno all’adunata di piazza Venezia, credo che all’epoca troppe teste avessero in mente che le plutocrazie democratiche (e il comunismo e l’ebraismo e la contaminazione razziale e la massoneria …) minacciassero lo sviluppo e la ricchezza italiche; ma credo anche che questo non sarebbe stato sufficiente a abbracciare la guerra. Il regime e Mussolini in particolare sentiva il polso della pubblica opinione direttamente tramite la polizia e nel ’40 le informative dicevano che la gente non era entusiasta di fronte alla prospettiva di iniziare una guerra e tanto meno a fianco dell’alleato tedesco. Lo stesso Mussolini sul momento della decisione non fu così determinato: ondeggiò, accarezzò l’idea di svolgere una -per lui proficua- funzione di mediazione, procrastinò, si decise solo quando credette di avere il colmo delle garanzie di guadagno a fronte di una debolezza militare italiana che conosceva benissimo. A quel punto la massa si sarebbe dovuta piegare.
Così, esclusi i fanatici e gli informati, penso si possa immaginare che la gente vivesse pensandoci il meno possibile alla guerra, con l’attenzione rivolta alla quotidianità, ai progetti di vite semplici, a ritagliarsi un pezzetto di felicità o a sfangare i problemi di ogni giorno.
Infatti, un’altra cosa che mi sembra di avere imparato è l’inevitabilità della guerra a partire dalla condizione delle persone comuni.
Perché la storia rotola sopra le teste e la guerra sembrò arrivare all’improvviso; ma le scelte che lì portarono erano avvenute anno per anno, mese per mese e giorno per giorno. Ciascuna di esse sembrava inevitabile, fatale o persino desiderabile: il protagonismo nazionalistico, le missioni civilizzatrici, i pezzi di mondo che vengono aperti al (nostro) progresso, l’industria che produce non erano forse tutte cose augurabili?
Così ho potuto immaginare l’impotenza di massa e così temo di vederla oggi.
Solo dopo, nel buio dei rifugi antiaerei o in coda per il pane o terrorizzati da un esercito straniero, solo nella sconfitta più totale e irrevocabile, a partire da borbottii sommessi, prima solo lamentosi e poi irosi e –finalmente- ribelli, è stato possibile tornare agli eventi passati e rimetterli in fila, dando ad essi un senso comprensibile, scoprendo anche le proprie irresponsabilità.
Il corale ripudio della guerra riecheggiato nella Costituzione italiana non è dunque solo frutto di una scelta ideale: è il portato diretto dell’esperienza meditata di più generazioni.
Le fanfare che sento oggi sono come sempre trionfanti, anche quando iniziano come insinuanti clarinetti: il tema si sviluppa lirico, commosso, poi avviene una frattura. Dopo il sentimento energizzante, dopo lo sdegno per l’aggressore e la commozione per l’aggredito, arrivano le caricature della ragionevolezza, della logica, del pensiero e così a braccetto raggiungono la decisione lapidaria: “Se vuoi la pace, prepara la guerra” e alcuni arrivano a metterci un “purtroppo”. Un purtroppo che deve essere esorcizzato subito per non fare il gioco del nemico e perché in fin dei conti è inutile piangere sul latte versato.
Questo per chi è probabilmente in buona fede, spesso presuntuoso di sè e dei propri argomenti. E non consola che a questo dramma dell’irresponsabilità non sia sfuggito nemmeno chi decise che “è il momento di affacciarsi a piazza Venezia a annunciare le decisioni irrevocabili” senza sapere ciò che avrebbero determinato e dove lo avrebbero condotto, dal momento che chi vuole la guerra non può farsi scudo della sua natura aleatoria.
Il cortocircuito che fa riscoprire a tante persone di buon senso l’infame massima latina dovrebbe essere disinnescato. E’ possibile informarsi meglio, valutare la portata delle cose, la sproporzione tra le forze contingenti, e soprattutto le cause tra cui, non ultima, andrebbe riconosciuta l’origine della soddisfazione interiore che ci si procura schierandosi con il Bene. L’esplorazione di questo oscuro desiderio spetta a ciascuno: sollievo dalla paura e dall’impotenza? esaltazione di potenza e di rivincita? Ritrovamento di una autorità benevola? Qualsivoglia sia la molla che scatena le endorfine nelle teste essa comunque procede dalla grande alienazione che fa mettere se stessi e le proprie opinioni davanti a tutto, che fa rifiutare il confronto con la complessità della realtà e che fa sentire gli altri indistinguibili da sè stessi.
C’è un’altra strada che consente di aprire il cervello assieme al cuore e di farlo assieme agli altri, nel rispetto reciproco ed essa è la ribellione. L’otto settembre della dominazione.
Ribellarsi è necessario per evitare il sacrificio degli altri e di sè. Chi si sottrae allo schieramento diventa il nemico interno: da subito è un traditore e, a guerra persa, diventerà la causa della sconfitta, avrà infangato l’Onore. Ma per chi ha accettato la semplificante rassicurazione dello schieramento è immediato scivolare nello spossessamento di sè.
Non succede a chi si ribella. Ribellarsi è giusto, è necessario e non è procrastinabile. Farlo significa fuoriuscire da una condizione comune di spossessamento, contendere il controllo delle scelte ma non per farsene carico meglio di altri senza metterle in discussione. L’attuale corsa alla guerra è resa possibile da un sequestro di potere, di informazione, di sapere: da una dominazione che ha saputo prendere l’iniziativa della lotta di classe e instaurare in Europa un sistema autocratico di governance. Un percorso contro cui occorre battersi e che non è già scritto fino in fondo, come sa chi prepara nuovi strumenti per la repressione del dissenso rafforzando il bastione tra dominanti e dominati.
La generazione di mio padre riuscì a ribellarsi tardi,noi non dobbiamo perdere tempo.
Giancarlo Scotoni