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Qualche domanda alla UE (e anche ai nostri politici dell’opposizione)

di Pier Giorgio
Ardeni

Nelle ultime settimane si è tornati a parlare di Ucraina e la situazione di Gaza, tristemente, è passata in secondo piano, come se là tutto fosse stato risolto, mentre ancora vediamo migliaia di persone sopravvivere in condizioni a dir poco penose.

Ma anche sull’Ucraina, come lo è stata per Gaza, la risposta dell’Unione europea e dei principali Paesi europei è stata quanto meno contraddittoria.

Per molto tempo si è sostenuto che il sostegno all’Ucraina e l’invio di armi e aiuti andava fatto perché era inaccettabile che la Russia avesse invaso un Paese sovrano e che decidesse addirittura di annetterne dei territori. Nel nome del diritto internazionale, si è detto, tutto questo non poteva restare impunito. Le sanzioni contro la Russia, l’esclusione della Russia dal Consiglio europeo, il boicottaggio dei suoi atleti e delle sue squadre dalle manifestazioni sportive, le sanzioni economiche, erano la giusta risposta, il minimo che si potesse fare.

La prima domanda che viene quindi da fare alla UE e a chi ne ha sostenuto le posizioni è: perché tanto rispetto del diritto internazionale non lo si esige da Israele che dal 1948 non ottempera alle risoluzioni dell’Onu? Perché, se Putin è stato inquisito dalla Corte penale internazionale ciò non deve valere per Netanyahu? E se i separatisti del Donbas sono in torto, perché mai i separatisti del Kosovo sono stati accontentati? Quello che l’esercito ucraino, appoggiato da milizie filo-naziste, ha fatto in Donbas in otto anni di guerra civile non era per nulla paragonabile a ciò che avevano fatto gli uomini di Milosevic in Kosovo? E le stragi di serbi da chi erano state compiute? Perché due pesi e due misure?

La contrapposizione tra Occidente e Russia ha però cambiato tono. Oggi non si parla più della violazione dei confini, dell’invasione e neppure dell’eventuale annessione del Donbas, o della Crimea, già avvenuta. Oggi si dice che la Russia, spartitasi l’Ucraina, vorrà fare lo stesso magari in Moldova e poi aggredire l’Europa, un Paese baltico o la Polonia. Quale sarebbe l’evidenza di ciò? Se guardiamo alla spesa militare, i dati ci dicono che fino al 2021 gli USA avevano speso dieci volte tanto quanto i russi, mentre i Paesi Nato nel loro insieme hanno totalizzato quindici volte tanto quella stessa spesa della Russia. L’Ucraina oggi spende più di un terzo di quanto spende l’intera Russia. E poi, la Russia non spende certo come la “superpotenza” militare che si pretende che essa sia. Certo, è una potenza nucleare, certo ha un esercito più grande (ma quello ucraino non è tanto da meno), ma non ci sono gli elementi per ritenere che la Russia possa decidere di foraggiare una guerra contro l’Europa che la vedrebbe in condizioni di inferiorità. La Russia veniva descritta come una potenza militare dalla forza debole, con un apparato antiquato e strutture decadenti. Oggi la si descrive come un mostro militare pronto ad aggredire.

Di fronte all’iniziativa del presidente Trump, finalizzata a garantirsi un “amico” sul versante russo per concentrarsi su altro, disposta persino a concedere a Putin lo smembramento dell’Ucraina pur di liberarsi dell’onere di dover sostenere una guerra che non lo interessa, l’Europa tentenna. Un obiettivo Trump lo ha raggiunto, suo malgrado: quello di rompere i rapporti economici che andavano tessendosi tra europei e russi, a favore degli Stati Uniti (che ci vendono gas, petrolio e armamenti). E noi stiamo pagando l’interruzione di quei rapporti a duro prezzo.

Invece, l’Europa agita lo spauracchio di una guerra – contro una potenza nucleare – per una folle corsa al riarmo che non ha giustificazioni se non quella di dare ossigeno alle sue industrie ora in affanno (ma fosse solo quello). La prospettiva, poi, di aprire una “corsia preferenziale” per far entrare l’Ucraina rapidamente nella UE andrebbe contro le sue stesse procedure di ammissione nei confronti di un Paese i cui standard giuridici e legislativi appaiono ben lontani da quelli dell’Acquis, come è stato richiesto a tutti i Paesi che ne sono divenuti membri. Inoltre, l’idea di far entrare un Paese come l’Ucraina, ancora ben lontano dalle medie europee in termini di Pil e salari, si rivelerebbe solo come un altro tentativo di “dumping sociale”, in questo caso ben più gravoso visto il divario tra i dati ucraini e quelli europei, con un contributo netto tutto a vantaggio degli ucraini e a svantaggio degli europei. Piuttosto, servirebbe un piano di ricostruzione, l’adozione di standard di libero scambio (come quelli dell’Efta), di cui l’Ucraina potrebbe giovarsi.

Da ultimo, la vicenda dell’esproprio degli asset russi depositati in Europa, ha mostrato quanto stupido – è il caso di dire – il posizionamento dell’Europa possa essere. Sequestrare gli asset russi avrebbe dato un colpo al sistema di una portata di cui i dirigenti europei non sembravano davvero essersi accorti. Altro che “escalation finanziaria” come qualcuno, a sinistra, ha detto. Le istituzioni europee avrebbero perso quella credibilità che sui mercati finanziari è fondamentali: quale Stato, infatti, avrebbe mai consegnato i propri asset sovrani ad un’istituzione europea sapendo che potrebbero poi essere sequestrati? In questi anni molti Stati e molti fondi sovrani hanno trasferito in Europa le proprie risorse, contribuendo alla tenuta dell’euro. Se la Commissione europea avesse operato il sequestro, ciò avrebbe provocato il trasferimento immediato degli asset altrove. Non solo, ma a catena si sarebbe avuto un indebolimento dell’euro e un aumento dei tassi dei titoli denominati in euro, un disastro. Per non parlare degli asset europei depositati in Russia: forse che questa avrebbe lasciato fare? Quale effetto avrebbe ciò provocato? Gli unici a guadagnarci, guarda caso, sarebbero stati gli americani.

Ora, la Commissione europea pare aver capito che era meglio rinunciare a una tale mossa che avrebbe comportato un effetto valanga sull’euro, sulla credibilità dell’Europa e sull’economia dei vari paesi. Si è giunti quindi alla soluzione di sostituire il sequestro degli asset russi – che avrebbe “fruttato” 210 miliardi di euro – con un prestito in eurobond di 90 miliardi, del tutto finanziato dall’Unione e senza necessità di rimborso da parte dell’Ucraina, coperto con i “margini di bilancio” residui della stessa Unione. Con ciò è chiaro che la Commissione dovrà finanziare l’Ucraina solo con le risorse degli Stati membri, destinati così a sostenere sacrifici importanti nei loro bilanci. Una “mossa” che non era stata possibile ai tempi del default greco è possibile oggi. La guerra chiama risorse più di ogni altra cosa e, di fronte alla guerra, tutto si giustifica. Se questo, però, è il massimo che l’Unione può fare – 90 miliardi – significa che le condizioni di sostegno all’Ucraina sono diventate davvero impossibili. Non solo, ma la decisione europea è stata presa non più all’unanimità, dato che Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca si sono dichiarate contrarie.

Ora, ciò che appare sinceramente incomprensibile è il silenzio delle nostre opposizioni. Hanno lasciato che fosse Meloni a intestarsi la giusta battaglia contro il sequestro degli asset russi, quando andava da subito stigmatizzato. Hanno lasciato che la Meloni si intestasse la decisione di erogare un “sussidio” (un prestito destinato a non essere ripagato) all’Ucraina, invece di protestare come per altre questioni – la spesa sociale, ad esempio – non vi siano mai margini di bilancio. Perché?

Dov’era la sinistra quando la Nato si allargava, quando Putin affermava che non avrebbe consentito l’Ucraina nella Nato? Ubriaca dell’allargamento della UE – che “tanti benefici” avrebbe portato: agli altri, forse, non certo a noi, con il dumping sociale che ha provocato – ha dimenticato di ricordare che la Nato doveva avere un tempo una funzione difensiva, non offensiva (tanto meno verso la Russia, che si stava a noi avvicinando). Non si è agito per aprire alla Russia allora, non si fa nulla per fermare il conflitto oggi. Invece, le opposizioni sono accecate dal desiderio di vedere Putin alla sbarra, dimenticando tutto: la guerra civile in Donbas, l’ucrainizzazione del Paese (ora persino la rimozione delle statue di Bulgakov e Achmatova, due grandissimi scrittori non certo amati da Stalin, colpevoli di aver scritto in russo!), le milizie neo-naziste, per non parlare delle violazioni del diritto internazionale di Israele. E la critica viene additata come “putiniana” e “rossobruna”.

L’Ucraina è finita in un buco nero, vittima dei nazionalismi di una sua parte, anche se consistente, nonché della corruzione e di un sistema che non è mai divenuto trasparente, lontanissima dagli standard della rule of law. L’Europa si è fatta travolgere dalla propria hybris e ora va precipitando verso il pozzo senza fondo di una inutile e ingiustificata logica di guerra, dimentica che era contro quella stessa che era stata fondata e aveva trovato la forza per affermarsi. E, con essa, vanno precipitando nello stesso buco quelle opposizioni che vorrebbero fare “muro” contro la Meloni, se questa non sarà capace di togliere loro il terreno anche solo di organizzare un vero fronte “antifascista”. Il dissenso viene censurato, silenziato, negato. Il pensiero unico bellicista tutto pervade, al pensiero critico viene negata pure la possibilità di esprimersi e anche tra le presunte opposizioni alla ragione si è sostituito il muto assenso alla vertigine guerrafondaia. Così, però, si andrà solo verso il baratro. Non è sulla base di una logica di guerra che si può costruire un fronte antifascista.

Pier Giorgio Ardeni

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