Oggi ho visto nel corteo tante facce sorridenti è la prima strofa del ritornello di una canzone di lotta degli anni settanta. Canzone ovviamente datata ma con questa felice intuizione delle facce sorridenti.
Fuori da sentimentalismi e retorica: i sorrisi di cui si era circondat3 nella manifestazione del 4 ottobre avevano certo a che fare con l’emozione del reggersi eretti: una postura che fa parte integrante dell’essere umano e della sua dignità, come ben sanno coloro che si ingegnano a far piegare la schiena agli sfruttati, ai colonizzati e soprattutto ai ribelli, a chi non ci sta. Per cui vien da pensare che qualche nostra antica progenitrice, o progenitore, rendendosi conto che camminava sulle proprie gambe, per prima cosa sorrise, sebbene questo metta un poco in rotta di collisione con coloro che pensano che il primo atto fu quello di picchiare attorno con una clava.
Quante facce era possibile guardare standosene fermi a veder sfilare il corteo? In 180 minuti (il corteo ha impiegato tre ore a passare in via dell’Aventino, un viale a quattro ampie corsie) abbiamo 10800 secondi. Considerate le pause, diciamo due secondi a viso, fanno parecchie migliaia di facce e ciascuna portava una espressione che si poteva giudicare un sorriso.
Questo fatto della diversità, o individualità, è un tratto caratteristico di un movimento che per essere di lotta contiene anche degli elementi di liberazione e a queste potenzialità occorre fare riferimento.
E infatti quelli del corteo erano sorrisi in cui si scorgeva la possibilità di una nuova autoconsapevolezza. Erano in parte frutto del tentativo di mettere da parte le maschere sociali, come le smorfie che ci scambiamo pestandoci i piedi negli autobus sovraccarichi, in aula di fronte alle castronerie del professore o che ci scambiamo sul posto di lavoro quando dobbiamo ingoiare l’ennesimo rospo quotidiano. In qualche misura erano dei sorrisi incerti. E quelli delle donne -che erano numerosissime- rivelavano particolarmente questa tensione, essendo -i sorrisi- particolarmente cruciali nella gestione di figure sociali tanto investite da un conflitto permanente e durissimo. E in effetti quei sorrisi delle donne erano tra i più complessi e agìti e forse i più carichi di una consapevolezza. Proprio perché sembravano riflettere l’inadeguatezza e forse il superamento, in quelle circostanze, di un linguaggio che riflette l’andamento abituale del conflitto.
Il lucore dell’alba, insomma, quando si comincia a intravvedere una luce. Rispetto al buio è tantissimo, certo, ed è giusto rincuorarsi; ma al sorgere del sole manca ancora parecchio e quelle sono pur sempre le ore più fredde della notte.
Le mobilitazioni in corso ruotano indubitabilmente attorno a Gaza e alla Flottilla e mettono in luce una faglia nel dispositivo del dominio: il disprezzo per l’ambito di mediazione e contrattazione, l’esercizio diretto di un potere assoluto, la protervia verso le fonti istituzionali del proprio potere. Ma sono anche mobilitazioni in qualche modo facilitate da una distanza dal conflitto che prevede addirittura un viaggio per raggiungerlo. Sono in certo modo espressione di un volontarismo e dunque di un possibile isolamento. Non mostrano radici profonde e dirette con dimensioni agibili del conflitto a livello sociale a meno di non credere che sia possibile stabilire un nesso diretto tra un inceppamento nella macchina del consenso e lo sviluppo di un movimento, fosse anche di opinione. Queste sono delle constatazioni che non vogliono togliere nulla all’importanza del momento: le caratteristiche autocratiche che il dominio ha assunto non sono incidentali ma derivano da una difficoltà concreta a servirsi della macchina sociale per riprodurre profitto e dominio. Sintomi di una crisi, dunque, ma che non genererà un nuovo giorno da sola, neanche con un contorno di spettatori entusiasti.
Le grandi mobilitazioni sono state rese possibili anche dalla intelligenza politica con cui furono impostate le giornate di giugno contro la guerra e il riarmo: senza aver sperimentato la necessità e la praticabilità di una convergenza unitaria non sarebbero state possibili né la convergenza del 3 e lo sciopero generale dei sindacati a partire dalla CGIL né la dimensione rappresentativa del 4 ottobre, quasi universale all’interno dei suoi limiti e dunque –nei suoi limiti- molto potente. Ma questa consapevolezza è destinata a restare di pochi se il confronto tra le soggettività non trova un terreno di sviluppo e di crescita.
Insomma, trasferire quei sorrisi dalla manifestazione al conflitto in corso nella società e proiettarlo verso un processo di liberazione è un compito enorme e non solo un compito soggettivo, certamente, perché non si può pensare di intestarsi la storia. Ma solo soggettivamente si può lavorare a questa necessità e contribuire a colmare i vuoti tra i nodi della rete di intenzionalità che possiamo riconoscere “nostra”.
Uno degli aspetti che si presentano -almeno astrattamente- più percorribili sembra essere il nesso tra genocidio e guerra come sistema di produzione del dominio, e dunque il terreno del riarmo e dei suoi pesanti effetti sull’economia delle persone, sui livelli di welfare, sulle libertà civili, sull’ambiente e nella ridefinizione dei rapporti di genere. Tra le tante strade possibili in questo scontro, forse sono le più agibili e occorre percorrerle con la disponibilità a accettare la sorpresa di nuovi sorrisi.
Giancarlo Scotoni