Il primo ministro francese François Bayrou ha annunciato in conferenza stampa che l’8 settembre si presenterà all’Assemblea nazionale e chiederà la fiducia ai deputati. Sostenuto, sempre più timidamente, dagli eletti che fanno capo a Macron e dai Repubblicani, che rappresentano quanto rimane della destra tradizionale, non dispone dei numeri per essere confermato al suo posto. La Costituzione francese non impone che un governo abbia la fiducia al momento dell’insediamento e questo ha consentito al Presidente della Repubblica di rifiutarsi di riconoscere l’esito del voto politico del luglio di un anno fa e dare l’incarico a Lucie Castets, proposta dal Nuovo Fronte Popolare, la coalizione di sinistra che si era affermata come prima forza in Parlamento.
François Bayrou appartiene alla tradizione democristiana che in Francia, dopo la seconda guerra mondiale, era incarnata dal Movimento Repubblicano Popolare. L’MRP non ha retto alla trasformazione costituzionale imposta dal gollismo e ha perso gran parte della propria forza elettorale cedendola prevalentemente alla destra. A reggere la fiaccola del centrismo di impronta religiosa fu per molti anni Jean Lecanuet che tentò, senza successo, di presentarsi alle elezioni rompendo il tendenziale bipolarismo. Bayrou, di Lecanuet, è in qualche modo l’erede. La tradizione democristiana ha cercato di sopravvivere tra tentativi di costruzione di un terzo polo e allineamenti alla destra.
L’arrivo di Macron, principale progetto di riorganizzazione del sistema politico francese emarginando la sinistra da un lato e l’estrema destra dall’altro, ha avuto un momento di successo approfittando della crisi della socialdemocrazia accelerata dalla presidenza Hollande e della radicalizzazione della destra attorno al partito della famiglia Le Pen. Poteva essere una buona occasione per il rientro in campo della tradizione incarnata da Bayrou, dato che il Presidente della Repubblica si è dimostrato incapace di dare un minimo di solidità ideologica al suo movimento. Ma il compito si è dimostrato troppo arduo anche per lui e si è trovato ad essere il primo ministro impopolarissimo di un Presidente della Repubblica altrettanto impopolare.
Il tema politico attorno al quale Bayrou ha giocato le sue (probabilmente ultime) carte è la situazione in cui si trova il bilancio dello Stato francese. L’indebitamento è fortemente cresciuto negli ultimi anni e questo ha portato il primo ministro a proporre una drastica cura di tagli superiore ai 40 miliardi di euro. Benché ancora il progetto di bilancio non si sia materializzato, le proposte più significative avanzate nei mesi scorsi hanno creato un forte malcontento. Particolarmente fastidiosa è stata l’idea di cancellare due giorni festivi ma a questa si sono aggiunti tagli che hanno preso di mira più o meno tutti i settori popolari.
Il primo ministro in carica ha lanciato parole allarmate sul rischio di sovraindebitamento, lasciando intendere il rischio dell’arrivo del Fondo Monetario Internazionale (per ora non ha evocato la trojka) per imporre dall’esterno una drastica cura di austerità. Che il problema del debito sia reale è riconosciuto più o meno da tutti ma radicalmente diversa è l’analisi delle cause e da questa la ricetta per affrontarlo.
Bayrou si è prodotto nella classica lamentazione delle classi dominanti sul popolo che vuole vivere al di sopra dei propri mezzi e che non lavora abbastanza. Per questo ha invocato più produttività e meno spesa pubblica. Ha anche cercato di far risalire il percorso di accrescimento del debito all’ultimo ventennio per oscurare la responsabilità diretta della gestione di Macron. A sinistra si risponde che in realtà non sono state le spese statali ad aumentare, creando il debito, bensì le continue riduzioni fiscali a favore dei ricchi e delle imprese ad avere prodotto un significativo buco di bilancio.
Il malcontento popolare che si è accumulato negli anni della Presidenza di Macron ha cominciato ad esprimersi in forme che sarebbero inusuali se non ci fosse già stata la vicenda dei Gilet Gialli. A partire da una serie di profili social, in particolare su Telegram, si è coagulato il movimento del “blocchiamo tutto”. In modo informale si è fissata la data del 10 settembre come quella del confronto esplicito tra “popolo” ed “élite”, che dovrebbe concretizzarsi in varie forme e non solo in quella delle manifestazioni di strada. Si tratterebbe di un più generale boicottaggio che dovrebbe far sentire tutta la dimensione della protesta, in forme che renderebbero meno facile la repressione orchestrata dal Ministro degli Interni.
È stato rilevato che tra i promotori prevalevano ambienti cosiddetti “sovranisti” piuttosto affini all’estrema destra, ma la vaghezza degli obbiettivi ha fatto sì che ad essa si potessero associare anche temi propri della sinistra. La parola d’ordine “blocchiamo tutto” è così diventata una sorta di “significante vuoto”, per usare la terminologia del teorico del populismo di sinistra Ernesto Laclau, nel quale ognuno ha potuto mettere ciò che voleva. Una “catena di equivalenze”, nella quale poi prevale quella più sentita, senza che questa sia stabilita da qualcuno a tavolino.
La sinistra politica ha deciso di assumere un atteggiamento favorevole nei confronti di questo movimento, una volta che la sua estensione ha attenuato l’influenza dei promotori, anche se con gradazioni di entusiasmo diverse. Schierato nell’aperto sostegno Jean-Luc Melenchon che ha impegnato la sua France Insoumise a supportare le iniziative previste per il 10 settembre. Favorevoli ma più prudenti le altre formazioni di sinistra come gli Ecologisti e i Comunisti. Anche il segretario socialista Olivier Faure, da poco confermato a seguito di un congresso piuttosto complicato, ha espresso un giudizio favorevole anche se non ha promesso una partecipazione diretta alle mobilitazioni di strada.
La vicenda di “Blocchiamo tutto” segnala una tendenza, non nuova, all’emergere di movimenti di protesta senza una vera direzione politica, né piattaforme organiche e nemmeno una vera e propria strategia. Elementi che nel caso dei Gilet Gialli hanno creato un vero e proprio momento di panico nell’establishment ma che poi, un po’ per la repressione e un po’ per l’assenza di prospettiva, hanno portato all’esaurimento del movimento.
Tornando a Bayrou la mossa sembra destinata ad anticipare la protesta, il che ne rappresenterebbe già un successo, ma creando una situazione piuttosto complicata per tutti. Macron avrebbe la possibilità di sciogliere nuovamente l’Assemblea nazionale e convocare nuove elezioni politiche. Con quali chance di migliorare i rapporti di forza a suo favore nel prossimo Parlamento? Al momento poche. L’estrema destra del Rassemblement National non sembra particolarmente colpita dalla condanna all’ineleggibilità di Marine La Pen. La strategia perseguita è stata opposta a quella di Melenchon. Cercare di rendersi accettabili all’establishment sfumando alcune punte ideologiche del retroterra apertamente fascista ed evitando di farsi rappresentare come una forza politica irresponsabile. Sono stati sottolineati i contatti tra il giovane Bardella e l’ex presidente Sarkozy.
A sinistra il quadro è parecchio complicato. Si stanno tessendo infinite trame per cercare di arrivare ad una candidatura unitaria alle Presidenziali del 2027, ma a queste si sottraggono diversi soggetti fondamentali. Melenchon gioca in proprio e punta ad una radicalizzazione del conflitto politico e sociale. In questa strategia rientra anche la polemica accesa contro gli ex partner del Nuovo Fronte Popolare. Ha anche corretto la sua posizione sulla guerra in Ucraina criticando Zelensky e recuperando l’allargamento della NATO ad est come causa prima del conflitto. Posizione non del tutto coerente con le votazioni dei suoi al Parlamento europeo. Su questa correzione hanno polemizzato i socialisti, per i quali il sostegno militare a Kiev è la prova di esistenza dell’Unione Europea.
I comunisti pensano di doversi mantenere le mani libere in vista di una possibile presentazione autonoma nel 2027 ma guardano con particolare attenzione alle amministrative dell’anno prossimo, dato che dispongono ancora di un discreto patrimonio di eletti e di sindaci, seppure solo in comuni piccoli e medi. France Insoumise ha già dichiarato che intende presentarsi autonomamente anche laddove ci sono amministrazioni di sinistra in carica.
Al lato destro della sinistra si colloca Raphael Glucksmann, capolista socialista alle elezioni europee, ma guida di un suo piccolo partito, Place Publique, col quale può muoversi in solitudine. Per ora ad una ipotesi di raggruppamento unitario lavorano ecologisti, socialisti, ex di France Insoumise, ma con idee piuttosto vaghe su come scegliere un proprio candidato e questo mentre Melenchon è già in campagna elettorale da mesi. La France Insoumise rifiuta l’idea di una coalizione e punta ad imporsi sul resto della sinistra in termini di rapporti di forza sanciti da una indubbia capacità di iniziativa che costringe tutti gli altri a rincorrere.
Le dimissioni di Bayrou portano però ad una accelerazione il cui esito è difficile prevedere. Sembra che il campo di Macron provi a giocare la carta del “noi o il caos” che potrebbe materializzarsi anche in un acutizzarsi dei timori di un tracollo finanziario del Paese in termini di Borsa, valutazioni delle agenzie di rating e tutto quanto il mondo economico e finanziario può mettere in campo per orientare l’esito della crisi. Ci riuscì De Gaulle nel 1965, anche se la frase che spesso gli viene attribuita, “moi ou le chaos” non l’ha mai pronunciata. Ma questo era, in sostanza, la sintesi del suo discorso.
Nel senso comune della grande maggioranza dei francesi, la politica di Macron potrebbe essere sintetizzata piuttosto in “moi, le chaos”, dato che le sue scelte hanno aggravato la situazione politica e sociale della Francia, per non parlare di una politica estera che è risultata, contemporaneamente, vanagloriosa ed inconcludente. Volendo avanzare delle ipotesi, per quello che valgono, il Presidente francese potrebbe tentare di giocare la carta della vittoria del Rassemblement National, col quale potrebbe convivere molto più felicemente che con un governo di sinistra, sperando che questo si sgonfi alla prova del potere. Uno scenario che era già circolato lo scorso anno.
La sinistra si troverebbe fuori gioco per le sue divisioni non facili da ricomporre nuovamente in poche settimane e con l’estrema destra, verso la quale Macron si è progressivamente spostato nel corso della sua guida della Francia (si veda in particolare il ruolo svolto dal suo Ministro dell’Interno, Bruno Retailleau), una soluzione di compromesso si troverebbe. Una parte importante del padronato, della finanza e dei media che questi controllano, ha già deciso, in Francia come altrove, di puntare sull’estrema destra. In fondo, come si disse in altri tempi: “meglio Hitler del Fronte Popolare”.
Franco Ferrari