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Maastricht, Caporetto della Sinistra

di Roberto
Musacchio

L’accordo raggiunto al Consiglio Europeo sarà una cosa o un’altra a seconda che si esca dal patto di stabilità e da Maastricht o no.

Proprio perché questa è la realtà è bene tornare ad occuparsi di Maastricht.

È ormai evidente che c’è una caporetto nella storia della sinistra europea e si chiama Maastricht.

In realtà una sorta di “guai ai vinti” con cui si certificava la sconfitta del “socialismo reale” e la nascita dell'”Europa reale”.

Non c’era nulla di non detto. Basta rileggere la sintesi della dichiarazione con cui Guido Carli accompagnava la firma dell’Italia.

Dice Carli:
“E’ stupefacente constatare l’indifferenza con la quale in Italia è stata accolta la ratifica del Trattato di Maastricht, rispetto al clamore e al fervore interpretativo che si è potuto registrare in Francia, nel Regno Unito, in Germania, in Danimarca, nella stessa Spagna. La cosa è tanto più difficile da comprendere se si considera che per l’Italia, più che per tutti gli altri paesi della Comunità, il Trattato rappresenta un mutamento sostanziale, profondo, direi di carattere “costituzionale”.

L’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione della modalità di composizione della spesa, una redistribuzione della responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli eni locali, il ripudio del principio di gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della “scala mobile”… la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e nell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionisti non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di questi ultimi.

Ebbene un cambiamento giuridico di questa portata con queste conseguenze, è passato pressoché sotto silenzio, senza conquistare le prime pagine dei giornali.”

Se il livello di consapevolezza cui furono indotti i cittadini era assolutamente inadeguato e le forze politiche si “adeguarono” con il Pds che votò a favore limitandosi a presentare odg di auspici, i verdi astenuti lamentando scarsa democrazia e i radicali fuori dell’aula per rispetto a Spinelli ma lasciando un testimone a votare a favore, fu Lucio Magri, a nome del Prc, come più volte ricordato, a esprimere un no che aveva la stessa consapevolezza del si di Carli.

Intervenendo Magri dice:
“I deputati del gruppo di rifondazione comunista voteranno contro il disegno di legge di ratifica del trattato di Maastricht. In questa scelta siamo, qui ed ora, molto isolati, una esigua minoranza a fronte di uno schieramento quasi unanime.

Ancora qualche mese fa la nostra sarebbe apparsa una scelta di pura testimonianza, rilevante solo per chi la compie. Ma ora non è più così, anche se nel Parlamento, che su questo tema è avaro non solo di presenze ma anche di pensiero e di analisi non retoriche, si stenta a prenderne atto. Maastricht è infatti diventato all’improvviso un problema aperto. La Danimarca ha detto «no» al trattato; in Francia metà del paese ha fatto altrettanto; in Inghilterra la maggioranza degli elettori, se potesse esprimere il proprio parere, direbbe di no ed anche il parlamento, in questi giorni, traballa; in Germania l’opposizione è estesa, così come in Spagna.

D’altro canto, proprio nel momento in cui si decide di accelerare l’unità europea partendo dalla moneta unica e dalle banche centrali, esplode la crisi dello SME: le banche centrali vanno ognuna per la propria strada e le loro scelte vengono aspramente contestate. Solo l’arroganza del potere, che si coniuga al luogo comune e determina la stupidità come prezzo necessario, e solo l’opportunismo che ciò genera negli oppositori benpensanti possono dunque spiegare il fatto che le nuove evidenze degli accadimenti non abbiano prodotto, qui e nel paese, quanto meno una riflessione nuova, un’articolazione reale di atteggiamenti. A noi, al contrario, questi fatti impongono e permettono di chiarire meglio le ragioni razionali del nostro «no» e di considerarlo l’inizio di una battaglia che diventerà rapidamente incisiva e che può conquistare forze nuove.

Quali sono dunque, in sintesi, le ragioni del nostro «no»? Innanzi tutto, il rifiuto di una Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione con i primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino.

Ma è questo che sta accadendo, già nel modo in cui il trattato è stato discusso e definito — un accordo cioè tra Governi rispetto al quale i parlamenti nazionali possono solo dire «sì» o «no» —, ma ancora di più nella struttura di potere reale che l’accordo produce. I veri centri promotori e regolatori del processo di unificazione sono e saranno il consiglio delle banche centrali e l’integrazione delle strutture militari. E, se mai,del tutto parzialmente, resta in campo una sede politica che può avere influenza su di loro, tale sede è quella del concerto dei Governi.

A questo punto, dunque, si ratifica e si conclude un processo che durava da anni, che è un processo di trasferimento di potere non solo dallo Stato nazionale al livello sovranazionale, ma, attraverso questo, dalle istituzioni direttamente legittimate dalla sovranità popolare ad istituzioni politiche auto nome o a puri poteri di fatto. Il ruolo di comparsa in cui è sempre più relegato il Parlamento europeo, proprio in quello che dovrebbe essere il passaggio dalla Comunità economica all’unione politica, simboleggia questa realtà rovesciata. E mi pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato augurandosi che si possa presto completarlo con istituzioni politiche democratiche: Maastricht va esattamente nella direzione contraria.

La seconda ragione del nostro voto non è meno importante, ma anzi lo è ancora più ed è soprattutto più trascurata. Il trattato non fissa solo delle regole e dei soggetti abilitati ad applicarle; fissa anche, direttamente e indirettamente, un indirizzo. L’indirizzo è definito in estrema sintesi così: il funzionamento pieno di una economia di mercato, ma non nel senso — badate — ovvio e banale del riconoscimento del mercato, bensì nel senso di una radicale e sistematica riduzione di ciò che sussiste di non mercantile, cioè di tutti quegli strumenti attraverso i quali le democrazie europee nell’epoca keynesiana, cioè dopo gli anni trenta e soprattutto dopo il 1945, avevano appreso a governare gli eccessi del gioco cieco del mercato.

Così è esplicitamente [e rigorosamente stabilito che le banche centrali non possono finanziare il debito pubblico; che è vietato stabilire prezzi e tariffe privilegiate per imprese o amministrazioni pubbliche; infine, che si istituisce una moneta unica emessa da una banca centrale indipendente dalle istanze democratiche, così come lo erano prima della grande depressione o come lo è oggi la banca tedesca, di cui pure si critica l’ottusità deflazionistica. Ciò che si crea non è dunque solo un potere concentrato, ma un potere usabile in molte direzioni: è, nel contempo, una certa struttura ed una sua direzione di marcia.

Un discorso analogo, anche se meno pregnante, si potrebbe fare sull’unificazione militare. Anche qui, non c’è alcuna unificazione di progetti politico-economici, di politica estera, ma solo la creazione di un apparato che, per sua natura e composizione materiale, è rivolto a garantire possibilità di intervento per arginare crisi che nascono alla periferia dell’Europa e che non si sa come prevenire.

Non meno conta, però, l’indirizzo che si definisce in modo indiretto. Ad esempio, con la perdita dell’autonomia monetaria restano allo Stato nazionale gli strumenti della politica di bilancio, ma solo in parte ed apparentemente, perché le politiche fiscali non unificate sono vincolate, anzi, dalla circolazione libera dei capitali a farsi concorrenza nel senso di essere più permissive per attirare risorse. Vincoli monetari e vincoli fiscali si sommano così nell’imporre la via obbligata del contenimento strutturale e non congiunturale della spesa pubblica, degli investimenti sociali o comunque a lungo termine.

Tutto ciò ovviamente non è del tutto nuovo. Ieri il Presidente Amato ha riconosciuto con insolita franchezza che l’Italia vive ormai in un regime di sovranità limitata, e non solo l’Italia, se è vero, com’è evidente, che anche paesi come l’Inghilterra, che non hanno un grande disavanzo pubblico, o come la Svezia ormai sentono il peso di un potere esterno cui non riescono ad opporsi. Ma di questa sovranità limitata Maastricht è una sorta di ratifica, di legittimazione definitiva, e il prossimo prestito che l’Italia otterrà dalla Comunità comincerà a definire già il primo protocollo delle sue clausole. Non è allora esagerato dire che disoccupazione e taglio dello Stato sociale sono inerenti al contenuto del trattato; il prezzo scontato della linea di politica economica in esso implicita ma molto rigorosa.

Vengo così alla terza ed ultima ragione del nostro «no». Nella logica di questo tipo di unificazione europea (ecco il punto che si dimentica) è non solo prevedibile, ma fatale, la prospettiva dell’aggregazione selettiva delle aree forti e dell’emarginazione ed esclusione delle periferie e semiperiferie. Non è vero, e soprattutto non è vero in questa fase, che il gioco di mercato, la supremazia dei parametri finanziari, la priorità del cambio tendano a promuovere un allargamento della base produttiva. Anzi, è evidente proprio il contrario: in assenza di politiche attive di sviluppo, le aree più deboli, financo all’interno dello stesso paese, regrediscono.

E così, mentre si solidifica un centro forte che tende ad attrarre ed integrare regioni limitrofe anche fuori dalla Comunità, si emarginano interi paesi più deboli.

La linea di confine — lo sottolineo — tra i due processi attraversa nel profondo la realtà italiana, il nord e il sud. Cosicché, se da un lato è probabile che l’Italia nel suo insieme non sia in grado di rispettare gli esorbitanti vincoli posti da Maastricht per il 1997, e sarà dunque costretta ad una rincorsa insieme affannosa e perdente, dall’altro lato in questa prospettiva dell’Europa a due velocità troviamo una chiave di lettura ed un moltiplicatore travolgente delle spinte secessioniste nell’Italia, nel prossimo futuro.

Maastricht non promette allora l’unità dell’Europa, ma in compenso promuove la divisione dell’Italia e, più in generale, una moltiplicazione, che già si registra ovunque, di spinte, passioni, interessi localistici e di subculture nazionali. Non è un passo imperfetto e parziale verso l’unità europea, ma il rischio della sua crisi.

C’era e c’è un’altra strada? C’era, a mio parere, e c’è. È quella coraggiosa di una costituente politica europea che produca insieme istituzione e soggetti politici unitari e democratici. È quella, dall’altra parte, dell’unificazione delle politiche economiche effettive come strumento di sviluppo orientate sulla priorità dell’occupazione, del risanamento ambientale, dell’allargamento della base produttiva regionale. Ma per percorrerla occorrerebbe costruire una sinistra politica e sindacale, riconquistare un’autonomia culturale rispetto alla genericità retorica dell’europeismo degli ultimi anni.

Su questo terreno il ritardo è però grandissimo.

C’è, e opera, un soggetto politico culturale forte, organizzato nel capitale internazionale. Esso ha i suoi strumenti nella circolazione dei capitali, addirittura una lingua propria: l’inglese impoverito dei managers.

La sinistra invece, e in generale le forze politiche democratiche, come soggetto europeo quasi non esiste. L’Internazionale socialista è ormai un involucro in gran parte vuoto. L’Internazionale comunista non c’è più, quella verde non è decollata, un’Internazionale cattolica non è mai esistita. Ecco, a maggior ragione, occorre per questo trovare un punto di partenza da cui invertire una tendenza, da cui risalire una china che porta ad una unità dimidiata e ad un’unità dai contenuti che ho descritto.

Il problema, per noi, è allora proprio questo. Il «no» a Maastricht e la lotta contro le sue conseguenze nei prossimi anni saranno una battaglia che permetterà di cominciare a costruire un’Europa diversa, un Europa democratica nelle sue istituzioni, socialmente definita nei suoi traguardi e nei suoi obiettivi.

Le ragioni del nostro «no» sono dunque contestuali ad un «sì» per un’Europa diversa. E constatiamo con grande stupore come tanta parte della sinistra italiana, su questo terreno, non abbia saputo trovare quanto meno gli accenti di una diversità, di un’alternativa. Come si fa a volere un alternativa in Italia, con questa ammucchiata senza forma sui grandi temi delle prospettive dell’Europa?”

Ho voluto riportarlo per intero il discorso di Magri perché non c’è una virgola che non meriti di essere riletta oggi.

Col senno di poi, che era stato il senno di prima.

Tutta l’agenda politica, economica e sociale, ha proceduto nel segno di Maastricht.

Che era stato preparato con il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro e la conseguente messa a mercato del debito pubblico italiano favorendone il raddoppio e il differenziale strutturale nella curva del “costo del servizio del debito stesso” antesignano dello spread. Con la sostituzione della clava del debito rispetto a quella dell’inflazione, avendo disattivato la scala mobile. Questioni molto avvertite solo 10 anni prima dal Pci ai tempi dell’entrata nello Sme (il sistema monetario) sia in termini di conseguenze per i ceti lavoratori che per lo stesso sistema produttivo del Paese deprivato dello strumento svalutazione e per cui il Pci votò contro il dispositivo di accettazione dello Sme stesso.

E dopo Maastricht la sequenza è quella di cui parla Carli. Accordi concertativi che trasformano la natura del sindacato. Attacco al sistema pensionistico solidaristico. Attacco ai diritti nel mercato del lavoro. Privatizzazioni e liberalizzazioni.

Il tutto con un interfaccia di trasformazione del sistema politico per renderlo conseguente a questo nuovo impianto costituzionale. Il percorso fatto dal Pds dal voto favorevole a Maastricht ad oggi è assolutamente eloquente. Come le ampie convergenze in questo percorso delle varie componenti del bipolarismo forzato.

Rispetto a quanto Magri diceva c’è da tornare a interrogarsi su due nodi cruciali.

Sopravviverà e come l’Europa reale alle crisi che la scuotono, da quella finanziaria del 2008 alla pandemia in corso? A quale prezzo? Certo è che la costruzione della UE, la sua materialità medievale e iperliberista insieme, a fronte di ciò che accade appare incredibile.

La seconda, che ci chiama direttamente in causa, è cosa ne è stato di quella lotta per un’altra Europa che Magri evocava.

Resistenze ne abbiamo avute, anche in Italia, e ne abbiamo ancora.

Ma appare sempre più chiaro che Maastricht è il ginocchio sul collo che non fa respirare la democrazia e la Sinistra. È il macigno che va rimosso.

————

Dopo una estenuante “trattativa” c’è l’accordo al Consiglio Europeo .


Come è?


1) Lo schema di mettere insieme Recovery e bilancio ha consentito di avere a disposizione una “gamma” di do ut des tra sussidi, prestiti, sconti. Un “mercato” per far affermare la logica win win.

2) Il rapporto tra governance comunitaria e intergovernativismo è stato conflittuale ma ha retto. La UE si fonda su questo che consente di bypassare le forme classiche democratiche. Dopo la crisi del 2008 si è rafforzato con il fiscal compact fatto in forma intergovernativa. Con le crisi gli Stati sopportano il peso più forte. L’aspetto comunitario (e lo stesso bilancio) è sacrificato. D’altronde finché c’è Maastricht il comunitarismo è ingessato.

3) A differenza del 2008 e vista la profondità della crisi pandemica le borghesie hanno scelto di non ripetere l’esperimento sadico della Grecia ma di cecare di tenere a galla tutto il possibile.

4) Si ripropone però uno schema che ha fallito. Privato, aziende, mercato. Competitività e “innovazione”. Bilancio. Queste cose non reggono la crisi e sono il contrario di ciò che ha fatto il modello europeo e cioè pubblico, lavoro e welfare. Che è ciò che ha retto la pandemia.

5) Quello che arriva è comunque poco e farraginoso rispetto alla portata della crisi.

6) La riattivazione del Patto di stabilità e Maastricht sono una spada di Damocle. Se riparte il Patto gli “aiuti” si trasformano in un cappio. Il tema delle “condizionalità” è in realtà il problema che Patto di stabilità e Maastricht sono incompatibili con la ripresa e il cambiamento.

7) Conte ha usato il contesto diverso dal 2008 per avere un ruolo di trattativa. A differenza di quanto successo storicamente con le governance “uliviste” ha giocato in proprio. Ma in questo proprio ci stanno le pessime scelte sulla ripartenza che guardano al vecchio modello e al vecchio sviluppo.

8) L'”ulivismo” e il partito del Mes non avrebbero fatto neanche questo. Prendere il Mes per facilitare la trattativa era sbagliato e una sorta di resa preventiva, di consegna al peggio dell’esistente. Purtroppo il problema rimane. Sarebbe bene sciogliere il Mes e recuperare quei soldi per il bilancio comunitario. E il nuovo è ben altro e oltre dell’accordo.

9) Il nuovo richiede di rompere i dogmi di Maastricht a partire dal Patto di stabilità che non
deve essere riattivato. E poi bisogna partire dalla vera cosa drammatica che è il lavoro. Serve mettere al centro non bilancio e mercato ma lavoro e pubblico, dalla sanità all’ambiente. E la democrazia.

10) Che l’Italia usi i soldi per cemento e aziende private è inaccettabile. Il piano per l’utilizzo va costruito su pubblico, lavoro, sanità, scuola e ambiente.

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