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L’euro fa vent’anni. I nodi da sciogliere e il primato dei «rapporti di produzione»

di Luigi
Pandolfi

di Luigi Pandolfi –

Il compleanno dell’euro cade in un momento di estrema incertezza sul futuro dell’Europa, ma, nonostante l’ascesa un po’ ovunque dei cosiddetti «sovranisti», al momento non si avvertono segnali tangibili di una sua imminente ed ineluttabile crisi, né si assiste ad un ritrovato slancio delle posizioni più ostili al suo perdurare.
A quanto pare, anche tra i suoi più duri detrattori, si è fatta strada una certa prudenza nel giudicarne gli aspetti negativi, ovvero la sua la intrinseca insostenibilità.

L’ombrello europeo

C’è una spiegazione? Sì, risiede nella consapevolezza, per quanto taciuta, camuffata, che il mondo si sta incamminando verso una nuova fase di instabilità dal punto di vista economico e finanziario, dunque che un ombrello grande è sempre preferibile ad un ombrello piccolo quando la pioggia è battente.
Si obietterà: a parte il rifinanziamento delle banche, la Bce è entrata in campo tardivamente dopo la grande crisi del 2008, non come la Federal Reserve, e la sua politica «non convenzionale» (quantitative easing) ha risentito della stretta che nel frattempo è stata imposta ai bilanci statali. Politica monetaria espansiva a fronte di una politica di bilancio restrittiva (austerità). Di fatto, l’ombrello europeo è stato poco protettivo, almeno fino ad un certo punto. Non solo. Per alcuni Paesi, come la Grecia ma non solo, i «piani di salvataggio» hanno comportato sacrifici per i cittadini ben oltre il dovuto ed il necessario.
E’ vero, parliamo del limite principale dell’attuale modello di costruzione europea: la netta separazione tra autorità monetaria e governi (nazionali, in questo caso) da un lato, il primato della lotta all’inflazione dall’altro1. Ma non è un problema solo europeo (e solo dei Paesi europei che adottano l’euro), per quanto in Europa lo stesso si presenti con tratti più marcati, non solo per l’indipendenza assoluta dell’istituto di emissione, ma anche per la sua natura transnazionale. (1)8

Si fa presto a dire «sovranità monetaria»

Ecco, chi controlla il denaro? Ma soprattutto: è sufficiente avere una moneta con l’effige dei propri eroi nazionali per essere «sovrani», indipendenti? No, evidentemente. Perché una cosa è avere sulle banconote la faccia di Abramo Lincoln o di Mao Zedong, altra cosa è averci quella di Garibaldi. Nell’era della fiat money (moneta legale non coperta da riserve di altri materiali, come l’oro o l’argento) contano i fondamentali macroeconomici e la «posizione nel mondo» del paese che emette una data moneta. E’ da questi fattori che dipende il grado di «sovranità monetaria». Non per niente nel mondo ci sono monete che si fregiano del titolo di «valute di riserva» (dollaro USA, euro, yen, sterlina inglese, yuan cinese) e monete che, sebbene siano emesse da uno stato formalmente «sovrano», sono poco più che carta straccia.
Una considerazione molto importante se riferita a paesi inseriti pienamente nel commercio mondiale, magari dipendenti dall’estero per le materie prime, che all’estero si rivolgono per soddisfare il proprio fabbisogno finanzaiario, addirittura con elevati disavanzi delle partite correnti (importazioni che superano le esportazioni).
Importazioni, fabbisogno, debito: si sta più tranquilli con una moneta stabile e usata negli scambi internazionali o con una moneta debole e ballerina? Nel caso dell’Italia, a questa domanda non si può rispondere ricordando che fino al 2002 l’euro non c’era ed il Paese, per certi versi, stava meglio di adesso. E’ un confronto che non regge, perché non fanno i conti con i cambiamenti epocali avvenuti nel mondo negli ultimi trent’anni, dalla caduta del Muro di Berlino all’ascesa prepotente del colosso cinese. Ed anche con l’infausta, ma plausibilissima, eventualità che all’uscita del singolo Paese (in questo caso l’Italia) dall’unione monetaria corrisponda il permanervi di tutti gli altri, del resto dei Paesi che attualmente ne fanno parte.

La globalizzazione nella nuova fase

La globalizzazione ha mutato il suo segno, la sua natura, per così dire, «anarchica». Non solo libertà di movimento dei capitali, delle imprese (meno delle persone), ma competizione tra macroaree economiche globali all’interno delle quali giocano un ruolo fondamentale gli attori pubblici, le grandi potenze politiche, militari e commerciali del pianeta. Lo dimostra la guerra dei dazi tra gli Stati Uniti e e la Cina (che non ha tenuto fuori l’Europa), ma anche la «guerra delle monete», finora poco compresa ed analizzata. La spinta cinese all’internazionalizzazione dello yuan e la decisione di Mosca di emanciparsi dalla dipendenza dal dollaro negli scambi commerciali col resto del mondo (scegliendo l’euro) sono segni di una guerra sotterranea, mediaticamente meno clamorosa di quella dei dazi, destinata a cambiare radicalmente gli assetti dell’economia e del commercio mondiale, dopo la lunga transizione seguita alla fine del sistema dollaro-centrico che prese le mosse dagli accordi di Bretton Woods del 1944. Siamo solo all’inizio.
In questo quadro, dire «si stava meglio quando si stava peggio» (affermazione tutta da verificare), ovvero pensare che i paesi europei possano affrontare singolarmente queste sfide è un esercizio intellettuale evidentemente semplicistico. Un pensiero ardito se riferito a paesi della periferia, della quale fa parte anche l’Italia, alle prese con elevati fabbisogni finanziari di parte pubblica o consistenti deficit della bilancia commerciale. Nel primo caso, la ridenominazione del debito nella nuova divisa nazionale farebbe scappare gli investitori, con conseguente aumento del «servizio del debito» oltre ogni limite tollerabile (plausibile un esodo verso le obbligazioni tedesche, anche al costo di rendimenti negativi). Nessuno si sentirebbe più al sicuro fuori dall’ombrello protettivo della Bce (Outright Monetary Transactions), si porrebbe anche il problema di garantire il debito – e la stessa nuova moneta – con massicci accantonamenti di «valuta di riserva» (valute «major», accettate in tutto il mondo), ovvero di oro o altri metalli preziosi. Nel secondo caso, la debolezza della nuova divisa nazionale renderebbe molto più salato il conto dell’indebitamento con l’estero. Rischi concreti, che non troverebbero una compensazione nelle «opportunità» date dal nuovo cambio flessibile («svalutazione competitiva»). Moneta svalutata, costo del denaro più alto, rendimenti dei titoli di stato più elevati, austerità per riconquistare la «fiducia dei mercati». Un po’ quello che accadde nel 1992 quando l’Italia fu costretta ad uscire dallo SME e la lira fu svalutata del 20%. Le esportazioni andarono bene, ma il prezzo pagato dai lavoratori fu salatissimo.

La «grande frattura»

Quindi va tutto bene? Niente affatto. Ma proprio per questo, anziché discutere di improbabili abbandoni «unilaterali» della moneta unica (e di «piani B»), sarebbe il caso di ragionare seriamente su una riforma organica, strutturale, della sua architettura, che, come è facile convenire, è stata concepita sulla base di ben precise teorie economiche (quelle che, per convenzione, chiamiamo «dominanti», per lo più varianti del filone «monetarista»), in un momento particolare della storia europea, segnata dal crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi comunisti nei Paesi dell’est, da una sconfitta epocale del movimento operaio, nella sua variante sia comunista che socialdemocratica.
Semplificando, si può affermare che l’intera costruzione dell’euro sia stata influenzata da una visione dell’economia (e del suo funzionamento) nella quale tutto ruota intorno al tema centrale della stabilità dei prezzi (e della difesa del valore della moneta). Non c’è posto in essa, se non in via residuale, per un approccio alle questioni economiche e sociali che tenga conto dell’importanza delle politiche di bilancio e della funzione riequilibratrice dello Stato. Da un lato la Banca centrale che «manovra» la moneta, dall’altro i governi, le istituzioni democratiche, ingabbiate dentro un quadro normativo da cui discendono pesanti restrizioni alla loro capacità di corrispondere autonomamente ai bisogni reali della società. Una «grande frattura», le cui implicazioni, paradossalmente, sono quelle che lo stesso Mario Draghi ha sintetizzato recentemente in questa frase: «E’ comprensibile che ci siano politici che protestano quando le cose non vanno bene, ma è anche comprensibile che la Bce non li ascolti». Definitiva.

Cambiare si può

Ci sono alternative? Non c’è dubbio. Le attuali regole di funzionamento dell’Europa unita non sono moderne «tavole delle legge», si possono cambiare, possono essere riscritte. D’altra parte, l’Unione ha fatto a meno per vent’anni del «deficit strutturale», dell’«output gap», del «semestre europeo», del «braccio preventivo» e di quello «correttivo», dell’OMT (Obiettivo di Medio Termine). Si potrebbero spazzare via queste odiose regole e aprire una fase costituente per un nuovo «patto europeo», nel quale verrebbe rivista anche la missione della Bce e il suo rapporto con i governi nazionali, secondo uno schema di competenze «multilivello».
Non va dimenticato, peraltro, che nell’ambito del Quantitative easing sono state le banche centrali nazionali ad acquistare i titoli dei loro rispettivi Paesi, accollandosi l’80% del rischio di insolvenza (il restante 20% è condiviso tra banche nazionali e Bce). Uno schema di relazione tra banca centrale e tesoro che, mutatis mutandis, ha evocato il rapporto tra governi ed istituti di emissione prima dei cosiddetti «divorzi» (in Italia nel 1981). Qualcuno, addirittura, ha paragonato l’operazione ad una strategia di «monetizzazione del debito». Esagerato. I titoli acquistati dalla banca centrale non sono «irredimibili», possono essere rimessi sul mercato e vanno rimborsati. Certamente, essa ha costituito la prova di come un nuovo «rapporto funzionale» tra Banche centrali nazionali e governi sia possibile nel quadro del «sistema», al vertice del quale la Bce continuerebbe a svolgere una funzione di indirizzo, di coordinamento e di vigilanza.

I nodi da sciogliere

Oggi, in Europa, la moneta è unica ma il debito rimane in capo ai singoli Stati, che, almeno formalmente, sono anche i titolari esclusivi della politica fiscale. Uno schema che non potrà reggere a lungo. I Paesi maggiormente indebitati non potranno affidare all’infinito la sostenibilità del proprio debito alla realizzazione di «avanzi primari» sempre più consistenti (spendere meno di quanto si incassa dalle tasse), sottraendo risorse alle politiche sociali, rischiando perennemente di finire sotto attacco della speculazione. Non è più procrastinabile una riforma dell’Eurosistema, per ristabilire un «rapporto funzionale» tra istituzioni politiche (parlamenti e governi) e istituzione monetaria ed impedire che siano i mercati obbligazionari a fissare le condizioni di finanziamento degli Stati membri. Così come non si può più eludere il tema di un haircut dei cosiddetti «debiti sovrani» (trasformando in «titoli irredimibili» quelli acquistati dalla banche centrali nell’ambito del programma denominato Quantitative easing) e la condivisione da parte dei Paesi membri dei rischi per la parte rimanente e per il debito futuro (Eurobond).

Gli strumenti e la politica

Fin qui le regole, gli strumenti. Poi c’è la politica, ci sono i rapporti di forza tra i soggetti politici, le loro diverse visioni dell’economia e della società. Le stesse istituzioni possono essere piegate a fini politici e sociali diametralmente opposti.
D’altra parte, attribuire un’importanza straordinaria, assoluta, quasi metafisica, alla moneta, come se tutti i mali delle nostre società dipendessero da essa (o tutto il bene), significa giocare sullo stesso terreno allestito dai teorici della «controrivoluzione monetarista».
Enfatizzando oltre il necessario l’importanza della moneta nel sistema economico, infatti, si finisce per perdere di vista la «dimensione strutturale» del capitalismo, il problema dello sfruttamento e della «divisione sociale» del lavoro, quello dei rapporti di potere diseguali tra gruppi sociali, dell’iniqua distribuzione del reddito e del carico fiscale, della disuguaglianza crescente, dello spostamento di ingenti capitali dall’economia reale alla rendita finanziaria. I problemi di un sistema economico, insomma, che si è messo alla spalle la stagione del compromesso tra capitale e lavoro, tra mercato e democrazia, tra interesse privato ed interesse sociale. Non è un caso, peraltro, che le destre nazionaliste europee, compresa quella italiana, tengano insieme nei loro programmi il «feticcio» della critica alla moneta unica e ricette neoliberiste per l’economia reale (incentivi alle imprese, flat tax, disintermediazione sindacale, sistemi di workfare spacciati per reddito universale di base).
Tornare ai fondamentali, quindi. Per un’altra idea d’Europa, per un nuovo progetto di trasformazione della società. C’è poco da fare (e da dire): è «il modo di produzione della vita materiale»(2) che «condiziona il processo sociale», oggi come cento cinquant’anni fa.

Il testo integrale di questo articolo compare nel n.52/53 di “Alternative per il Socialismo” (Castelvecchi editore).

(1)“L’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali […] è il mantenimento della stabilità dei prezzi.”, art. 127, paragrafo 1, TFUE (trattato sul funzionamento dell’Unione europea).
(2) Karl Marx, Prefazione a Per La Critica Dell’Economia Politica, Roma, Editori Riuniti, 1971 (1859)