intersezioni femministe

Le sovversioni del genere

di P. Guazzo,
N. Pirotta

Presentiamo, per la nostra intersezione di questa settimana, un articolo di Laura Coci sulle scrittrici di fantascienza in URSS, pubblicato su https://vitaminevaganti.com/2021/05/15/25767/. La fantascienza femminista e queer, ricorda Giuliana Misserville, vincitrice del Premio Italia 2025 per la saggistica di science fiction con il saggio Ursula K. Le Guin e le sovversioni del genere (Asterisco, 2024) mette in gioco “relazioni intense  nel senso sviluppato dalla teoria degli affetti di matrice femminista che mette al centro della sua indagine non i soggetti ma le loro interazioni, con la convinzione che tutte le modalità dei rapporti che gli affetti instaurano creino l’ambiente, l’ecosistema, in cui ci muoviamo e di cui non sempre percepiamo la dimensione politica.” E ancora: “Resta lecito interrogarsi su cosa voglia dire l’irruzione di corpi, vite, voci eccentriche, secondo la definizione di Teresa de Lauretis, nell’ambito della narrativa di genere? Riusciremo veramente a far venire giù il cielo?” ( Giuliana Misserville, Prefazione a AA.VV., Stasera faremo cadere il cielo, Zona 42, 2024, XI-XII).

Abbiamo scelto di pubblicare un articolo su un ambito poco frequentato della fantascienza, quello delle donne sovietiche che si espressero attraverso questo genere, perché ci appare un tentativo interessante quello di sottrarre il discorso sulla fantascienza all’ambito angloamericano e maschile. Scrittrici semi-sconosciute in Italia e nel mondo, al di là forse dell’ambito di pochi addetti o addette ai lavori, che ora, come la stella Procione di uno dei racconti qui analizzati, possono emanare la propria “musica delle stelle”, mentre noi captiamo e riproduciamo il loro spettrogramma astrale trasformandolo in un articolo.

Paola Guazzo, Nicoletta Pirotta

FANTASCIENZA, UN GENERE (FEMMINILE). UNIONE SOVIETICA, ANNI SESSANTA

Laura Coci

Solaris di Andrej Tarkovskij (1972) fu presentato in Italia come «la risposta della cinematografia sovietica a 2001 Odissea nello spazio» di Stanley Kubrick (1968), inglese naturalizzato statunitense. Era il 1974: l’Apollo 11 era allunato nel 1969, gli Stati Uniti avevano ormai vinto la competizione spaziale che aveva visto l’Unione Sovietica in iniziale vantaggio con il lancio del primo essere vivente in orbita intorno alla terra (la cagnolina Laika, nel 1957), del primo uomo (Jurij Gagarin, nel 1961) e della prima donna (Valentina Tereškova, nel 1963).

Un lancio pubblicitario infelice, anche senza contare che il romanzo di fantascienza sovietica da cui il film è tratto è di uno scrittore polacco, Stanisław Lem, e che Tarkovskij non può certo essere considerato un intellettuale rappresentativo del governo sovietico di Leonid Brežnev. Eppure, un capolavoro della cinematografia europea, allucinato e poetico, è usato in modo strumentale per riproporre ancora una volta una contrapposizione da guerra fredda, e oltre.

Il punto è che in Europa, dunque anche in Italia, di fantascienza sovietica non si sapeva nulla o quasi (e poco si sa anche ora, almeno della fantascienza vintage): non per ragioni ideologiche, ma, semplicemente, per carenza di materia prima, ovvero di testi, romanzi e racconti; e se ciò vale per le opere scritte da uomini, a maggior ragione vale per quelle scritte da donne. Ai non specialisti, comunque, Tarkovskij aprì un mondo (quello della fantascienza dell’Europa orientale), sia con Solaris sia con il successivo, struggente e simbolico Stalker (del 1979), tratto dal romanzo ― questo sì di autori sovietici, i fratelli Arkadij e Boris Strugackij ― Picnic sul ciglio della strada. Ma gli editori italiani non colsero l’opportunità; coloro che lo avevano fatto in precedenza, negli anni Sessanta, erano stati tacciati di ideologismo (e lo sono ancora): così per il volume 14 racconti di fantascienza russa (Feltrinelli, 1961) o per la rivista Fantascienza sovietica, che iniziò le pubblicazioni nel settembre 1966 per cessarle dopo soli sette numeri, nel giugno dell’anno successivo. Nell’editoriale sul primo numero dello sfortunato mensile, Franco Prattico individua quale elemento di interessante originalità della science fiction d’oltrecortina «l’atteggiamento verso la scienza e quindi verso il futuro», la visione positiva della scienza e della storia «come fattori di effettiva liberazione»; assai più recentemente, Franco Ricciardello, nel recensire un libro dei fratelli Strugackij, sottolinea come la fantascienza sovietica degli anni Sessanta fosse un «genere letterario autonomo rispetto a quello che contemporaneamente fioriva negli Usa, e in debito verso Verne e Wells piuttosto che verso la cultura pulp»: caratteri questi che naturalmente si rilevano anche nella scrittura delle donne, almeno per quel poco, pochissimo che è stato tradotto in Italia (problema non secondario quello delle traduzioni, spesso effettuate attraverso la mediazione dell’inglese o, qualche volta, del francese, raramente dal russo).

Ecco, allora, che due autrici significative, ma anche due grandi donne quali Ariadna Gromova e Valentina Zhuravleva sono presenti nella bibliografia fantascientifica italiana rispettivamente con un (uno solo) romanzo breve e tre (tre) racconti, peraltro stampati su tre sedi diverse. È poi soltanto grazie al web e a Google traduttore (che, per quanto talvolta improbabile, non arretra neppure davanti al cirillico) che chi scrive è riuscita ad acquisire sulle due scrittrici qualche notizia in più rispetto alle scarne biografie presenti sul Catalogo Vegetti o su Wikipedia in lingua inglese.

Ariadna Grigorievna Davidenko (Gromova) nasce a Mosca il 2 dicembre 1916, ma ancora bambina si trasferisce con la famiglia a Kiev, in Ucraina, ove, coerentemente con il suo amore per la lettura, frequenta la facoltà di filologia moderna, laureandosi nel 1938: sono gli anni in cui anima un circolo letterario per l’infanzia, dalla quale è amatissima e ricordata come «giovane, bella e spiritosa», ma pure come esperta conoscitrice dei grandi autori e autrici del Novecento russo, anche invisi al regime: tra loro Aleksandr Blok, Boris Pasternak, Anna Achmatova… (questa e altre notizie in http://archivsf.narod.ru/1916/ariadna_gromova/index.htm).

Nel giugno 1941 ha inizio l’operazione Barbarossa, l’aggressione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista, e nel settembre successivo in Ucraina avvengono i feroci massacri di civili per opera delle Einsatzgruppen, unità speciali costituite da Wermacht, SS e polizia locale: Boris, il marito di origine ebraica di Ariadna, è scoperto in seguito a una delazione e assassinato con altre decine di migliaia di persone a Babi Yar. Gromova entra a far parte della resistenza clandestina sovietica, infiltrata come segretaria nell’ufficio del borgomastro della città; è scoperta, dapprima arrestata, poi deportata in Polonia: fugge avventurosamente con altri prigionieri durante il trasporto in un campo di concentramento, schiodando le assi di legno del pavimento del vagone in cui è rinchiusa. Entra così a far parte della Resistenza polacca e successivamente fa ritorno a Kiev. «L’uomo [e la donna] del futuro è riconoscibile dal fatto che è disposto a lottare e a morire per il futuro» afferma lo scrittore sovietico Aleksandr Kasantsev: Ariadna lo dimostra.

Dopo la fine della guerra e un periodo di insegnamento nella capitale ucraina, nel 1949 si trasferisce a Čeljabinsk, sulle pendici orientali degli Urali, quindi, nel 1954, a Mosca, ove lavora per le riviste letterarie Literaturnaya Gazeta e Druzhba Narodov e inizia a occuparsi di fantascienza, sia come autrice sia come studiosa e critica. In realtà, il suo primo libro (come per l’italiana Anna Rinonapoli) è un saggio storico, di origine autobiografica, sull’occupazione dell’Ucraina (il titolo tradotto in italiano è Il fronte orientale): un volume di cui è pubblicata la prima parte nel 1958, mentre la seconda non lo sarà mai, perché, come ricorda il legale moscovita Yakov Isaakovich Aizenshtat, Ariadna rifiuta di cassare le parti in cui denuncia la complicità di parte della popolazione ucraina nei massacri. Il primo romanzo di fantascienza (Sulle tracce dell’ignoto, un’avventura spaziale tra l’Himalaya e Marte) è del 1959, il secondo (Duello con te stesso, nel quale una generazione di androidi si ribella al proprio artefice) del 1962.

Dello stesso anno Gleg, l’unico breve romanzo tradotto in italiano con il titolo Il pianeta dei virus, pubblicato nell’ottobre 1966 sul secondo numero di Fantascienza sovietica e ripubblicato per i tipi di Jouvence nel novembre 2020 (guarda caso!) con una copertina tristemente riconoscibile ma deviante. La presentazione del volume, che giova riprodurre per intero a riprova di quanto poco conosciuta sia la fantascienza sovietica degli anni Sessanta e di quanto gli stereotipi siano a duri a morire, recita testualmente: «Un pianeta ostile alla vita che minaccia i suoi temporanei ospiti umani. Opera prima e unica di una scrittrice russa avvolta nel mistero, Il pianeta dei virus, uscito negli anni Sessanta, è un romanzo breve di fantascienza sovietica, originale in quanto scevro da quelle tinte utopistiche e positiviste tipiche di una certa tendenza letteraria allineata al clima politico dell’epoca. Il romanzo è intriso di una profonda ispirazione metafisica, al punto che appare inevitabile accostarlo a un certo sapore horror marcatamente lovecraftiano, per altri aspetti molto vicino alle inquietanti ambientazioni di Solaris, dello scrittore polacco Stanisław Lem». Balle spaziali, citando Mel Brooks e rimanendo in tema. Gleg ― che nulla ha a che vedere con Lovecraft e poco con Lem ― è comunque un testo interessante e riuscito, che, nella migliore tradizione della science fiction d’oltrecortina, presenta implicazioni etiche relative alla scienza e ai suoi limiti e che pone al centro della riflessione il libero arbitrio e l’insopprimibile desiderio di libertà che connotano gli esseri umani. Protagonista è una spedizione spaziale di sei uomini bene assortiti (un comandante, un medico, un esperto di linguistica…) su di «un simpatico pianeta tranquillo» che tuttavia ben presto si rivela «un deserto, o meglio una tomba», dal quale «quasi tutti gli esseri viventi» sono «scomparsi senza lasciare traccia». Non del tutto scomparsi, come si apprende dalle prime pagine della narrazione: gli abitanti del pianeta sopravvissuti ai temibili Gleg vivono infatti nascosti e protetti in sotterranei dai quali ormai non sanno e non vogliono uscire, pur rimpiangendo la perduta normalità. Chi siano i Gleg lo scopre ben presto Victor, il medico al quale la scrittrice affida il proprio pensiero: «Si lasciò andare su una sedia e chiuse gli occhi. Rivide i bastoncelli sottili, un po’ curvi, che il microscopio gli aveva appena mostrato. Persino nella lastra, gonfiati dal tannino e coperti da una corazza di sali, parevano fragili e indifesi. Eppure in loro presenza le cellule nervose si disgregavano e scomparivano. In tutto il complicatissimo sistema dell’organismo umano una sola cosa interessava quei piccoli, avidi e implacabili parassiti: essi avanzavano ostinatamente e infallibilmente verso il cervello, sceglievano le zone più adatte a loro, penetravano nelle cellule nervose e cominciavano a governarle a loro piacimento. Avevano bisogno di cellule vive e normali, delle loro proteine e del loro esatto meccanismo di produzione. Nelle cellule malate si sentivano male, in quelle morte morivano. Prima, però, generavano una moltitudine di discendenti, che moveva all’assalto delle cellule vicine, lasciando dietro di sé distruzioni ancora più vaste». Il senso ultimo del romanzo non è, come potrebbe apparire, la lotta della scienza contro l’infezione (che colpisce per primi «i vecchi e i deboli»), ma la forza d’animo e il desiderio di libertà degli individui e dei popoli, che non si rassegnano all’ingiustizia e all’apparente ineluttabilità. «A chi conveniva che il popolo avesse paura? A chi conveniva costringere il popolo a vivere nel sottosuolo […]?» si chiede l’eclettico pilota Vladek. La risposta della sovietica Ariadna Gramova è la medesima dello scrittore statunitense Philip Dick nel bellissimo racconto giovanile The Defenders (1953) e del regista jugoslavo Emir Kusturica nel geniale Underground (1995), con buona pace della guerra fredda e dei suoi stereotipi. Ariadna, del resto, non nasconde un atteggiamento critico nei confronti del regime autoritario del proprio Paese.

Dopo aver pubblicato fino ai primi anni Settanta altri romanzi e racconti riconducibili a fantascienza e fantastico (tra questi il popolare Siamo dello stesso sangue tu ed io, del 1967, sul rapporto paritario tra un gatto e il suo giovanissimo umano), aver tradotto opere di fantascienza dall’inglese, dall’ucraino e dal polacco (è legata da grande amicizia a Stanisław Lem, l’autore di Solaris), aver tentato invano di promuovere l’edizione dei testi del cantautore dissidente Vladimir Vysotsky, Gromova trascorre gli ultimi anni di vita nella sua casa di Mosca ― divenuta luogo di incontro di artisti, scrittori, musicisti ― malata ma non domata, fino alla morte, il 13 novembre 1981.

Valentina Nikolaevna Zhuravleva appartiene alla generazione successiva a quella di Ariadna Gromova: nata il 17 luglio 1933 a Baku (già grande porto sovietico sul Mar Caspio, ora capitale dell’Azerbaigian), attraversa la guerra mondiale e l’occupazione ancora bambina, senza conservarne memoria nei propri scritti (al contrario di Gromova, che ben ricorda il sistema nazista di contrassegnare l’appartenenza a un gruppo ritenuto inferiore); tuttavia, non più giovane, vive la dissoluzione dell’Unione Sovietica e nel 1990, con il marito Heinrich Altshuller, lascia la città ove è sempre vissuta, che è ormai luogo di scontri tra la comunità azera e la minoranza armena (sono gli anni del conflitto per il Nagorno Karabakh) e, in gennaio, di una sanguinosa repressione da parte dell’Armata Rossa.

Valentina coniuga l’amore giovanile per la letteratura fantastica con una solida formazione scientifica: nel 1956 si laurea infatti in farmacia presso l’Azerbaijan Medical Institute di Baku, specializzandosi successivamente in chimica. Pubblica i primi due racconti nel 1958, su rivista, probabilmente incoraggiata dal marito, ingegnere e inventore, nonché lui stesso autore di science fiction con lo pseudonimo di Genrikh Altov. Ed è la misura del racconto quella più congeniale alla scrittrice, che nel corso della sua carriera ne pubblica trentasette (a questi si aggiunge un numero imprecisato di articoli e contributi), alcuni dei quali successivamente raccolti in tre antologie a suo nome (si veda http://archivsf.narod.ru/persona/zhurav/zhurav_v.htm).

La produzione narrativa di Zhuravleva si articola sostanzialmente in due periodi: dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio dei Sessanta, quindi dalla fine dei Sessanta fino all’inizio degli Ottanta, virando da un’iniziale predilezione per l’avventura spaziale a un interesse per la dimensione umanistica e psicologica della fantascienza. In Italia sono apparsi soltanto tre racconti ascrivibili alla prima fase: Una pietra dalle stelle, apparso sulla rivista Tecnologia per la gioventù del gennaio 1959; Rapsodia al lume di stella, sul medesimo mensile del maggio 1959; Il capitano dell’astronave Polus, sul supplemento domenicale della Pravdadel 7 febbraio 1960. Nulla della seconda fase, nella quale Valentina Zuravleva è ormai un’autrice affermata in Unione Sovietica (da suoi testi narrativi sono tratti sceneggiati radiofonici e televisivi) e discretamente tradotta in lingua inglese, francese e tedesca.

Una pietra dalle stelle è pubblicato su Galassia (la rivista di cui Roberta Rambelli è l’anima) del 15 febbraio 1963, in appendice al romanzo Il cuore del serpente di Ivan Efremov, autore di punta della fantascienza sovietica: la traduzione di entrambi i testi è ascritta a M. Gavioli, uno dei tanti alias che rinviano a Rambelli, il che significa che sia il romanzo sia il racconto sono stati tradotti dall’inglese, non dal russo.

L’idea di partenza è la caduta di un meteorite sulla terra: l’io narrante (biochimico senza nome che assume il punto di vista dell’autrice, peraltro specializzata in chimica) rievoca la caduta di un meteorite nella città alsaziana di Ensisheim, avvenuta nel 1492, in riferimento a un fenomeno analogo verificatosi in Pamir; certamente, però, Valentina Zhuravleva pensa al cosiddetto “evento di Tungunska”, quando il 30 giugno 1908 al di sopra una remota regione della Siberia si verificò una straordinaria esplosione, probabilmente dovuta all’impatto nell’atmosfera terrestre di un grande meteroide o di una piccola cometa, o ancora, secondo l’ipotesi fantascientifica dello scrittore sovietico Aleksandr Kasantsev, di un’astronave aliena proveniente da Marte. All’inizio del racconto, si apprende che il presunto meteorite è tale soltanto in apparenza: al suo interno si cela un’astronave e questa contiene un organismo vivente, non nell’accezione tradizionale del termine… Il testo si segnala comunque per lo slancio profetico verso il futuro di cui è permeato, per l’amore per la scienza, per il senso di meraviglia che la visione dello spazio sa infondere: «E allora le astronavi mosse da motori gravitazionali lasceranno la Terra, dirette verso le infinite estensioni dell’universo. […] Dopo aver viaggiato migliaia di anni, dopo aver raggiunto lontani universi-isola, le astronavi ritorneranno sulla Terra per portare l’inestinguibile torcia della Conoscenza».

Rapsodia al lume di stella appare sul n. 3 di Solaris del 10 marzo 1978 (improbabile rivista di «science-fiction, ufo, parapsicologia, astronautica, tecnologia, archeologia»), tradotto da Antonio Bellomi, quasi certamente dall’inglese. Il racconto, suggestivo ma di poca sostanza, è giocato su una serie di opposizioni, a partire dai due protagonisti, l’anziano poeta Constantine Alexeëvitch Rusanov e la giovane astronoma Alla Vladimirovna Jungovskaya: uomo/donna, vecchiaia/giovinezza, umanesimo/scienza… Il tema è quello della musica delle stelle, di una stella in particolare, Procione, la più brillante della costellazione del Cane minore, il messaggio sonoro captato e riprodotto trasformando in spartito musicale lo spettrogramma dell’astro.

Di ben altro livello il racconto Il capitano dell’astronave Polus, uno dei quattordici di Fantascienza russa, a cura di Jacques Bergier, Feltrinelli 1961: la scelta antologica (che tuttavia ebbe scarsa fortuna) è coerente, gli autori (la sola autrice è Zhuravleva) rappresentano il meglio della science fiction sovietica di quegli anni, i testi sono tradotti direttamente dalla lingua russa senza mediazioni. La vicenda principale si inserisce nella cornice di una ricerca condotta all’Archivio Centrale dell’Astronavigazione dalla voce narrante, medico psichiatra chiamata allo studio del cosiddetto punto 12, ovvero l’inclinazione, la passione che consentirà agli astronauti di mantenere l’equilibrio mentale negli anni di navigazione interstellare: musica, microbiologia, linguistica, gioco degli scacchi e (per il capitano Jean Zarubin) pittura… Ecco le passioni dei sei componenti l’equipaggio della Polus, due donne e quattro uomini in missione verso la stella di Barnard, della costellazione di Ofiuco, una delle più vicine al nostro pianeta; durante il viaggio, però, si verifica una variazione del regime del reattore, con conseguente forte aumento del consumo di combustibile. L’imprevisto (una «catastrofe», in realtà) comporta una scelta difficile: tornare indietro, mettendo in sicurezza l’intero equipaggio, oppure proseguire la missione, con il rischio di non poter tornare alla Terra, o non poter tornare tutti, ma «Avanti, attraverso l’impossibile». Il vero protagonista del racconto è dunque il capitano Zarubin, che ama la Terra e la vita, che è capace di esprimere questo amore nel dipinto di un paesaggio contadino, con «una forte quercia arruffata» e in quello di un bosco in primavera, ove «tutto è saturo di luce, di calore», il capitano dell’astronave Polus che conosce «l’anima dei colori»: il personaggio di questo eroe sovietico è memorabile, il racconto lascia senza respiro.

Nel 1990, Valentina Zhuravleva si trasferisce con il marito a Petrozavodsk (sul Lago Onega, in Carelia, non lontano da San Pietroburgo): Heinrich Altshuller ha già elaborato il Triz, ovvero la teoria finalizzata a trovare tra i possibili modelli di soluzione quello più adatto a risolvere uno specifico problema, e ha fondato una scuola per perfezionarla e diffonderla, con il contributo e il sostegno della moglie. Dopo la scomparsa di Heinrich, nel 1998, Valentina impiega gli ultimi anni di vita nel riordino e nell’organizzazione dell’archivio di lui, fino alla morte, il 12 marzo 2004.

Dopo Ariadna Gromova e Valentina Zhuravleva, per molti anni in Italia è silenzio sulle scrittrici sovietiche di science fiction. Con qualche eccezione, strampalata e ascrivibile al caso. Il n. 53 di Urania Millemondi (autunno 2010), intitolato I pianeti dell’impossibile, è la traduzione di un’antologia di autori europei curata dagli statunitensi James e Kathryn Morrow: qui si trova il racconto Il pianeta muto di Elena Arsenieva. Nell’introduzione al testo, la coppia di curatori dichiara di averlo scelto su richiesta di un’amica e studiosa russa incontrata al festival di fantascienza Utopiales (Nantes, 2001), unitamente alla stessa autrice, e di averlo poi apprezzato, una volta letto in traduzione francese. Il pianeta muto ha una sua dignità, ma chi è Elena Grushko, in arte Arsenieva? Cerca cerca, sul blog di fantascienza “Nocturnia” si trova l’intervista del curatore Nicola ‘Nick’ Parisi ad Andrey Malyshkin, tra gli organizzatori di Eurocon 2015, che si tenne a San Pietroburgo, dunque esperto in materia di science fiction russa (http://wwwwelcometonocturnia.blogspot.com/2016/05/fantascienza-in-russia-intervista-con.html). A proposito degli autori tradotti in Italia, Parisi menziona i fratelli Strugackij e Arsenieva; questa la risposta di Malyshkin: «Onestamente la tua domanda con la lista di autori mi ha costretto ad andare in rete e controllare chi fosse Elena Arsenyeva. Questo è un nome che a me personalmente non dice nulla. Ma in qualche modo, è stata tradotta in Italia. Questo vuole dire che a qualcuno piaceva».

In copertina: Tahir Salahov, Per te, Umanità! Bozzetto preparatorio dell’opera, di grandi dimensioni, esposta per la prima volta a Baku il 12 aprile 1961, in coincidenza con il volo spaziale di Jurij Gagarin.

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Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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