Il quotidiano algerino El Watan titola a tutta pagina “Un passo storico!” e poi precisa che “un consenso mondiale si è delineato lunedì all’ONU in favore di uno Stato palestinese”. Anche il saudita Arab News celebra un evento “storico” che dovrebbe costituire un “punto di svolta per la Palestina e per la diplomazia” e naturalmente rivendica in questo anche il merito del proprio governo.
Faisal J. Abbas, direttore del quotidiano, risponde agli “scettici che argomenteranno che la risoluzione approvata e le dichiarazioni fatte non hanno fermato la carneficina a Gaza, né hanno forzato Israele a mettere fine alla sua occupazione illegale. Ma agli scettici, io offro una sola parola: ‘non ancora’” (ndr: ‘yet’ in inglese). Benché ancora non ci sia una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che continua a subire il vero degli Stati Uniti, “questa è una delle più significative vittorie per la giustizia che abbiamo visto negli ultimi anni. È un passo che avvicina lo Stato palestinese e ci allontana da decenni di impunità”.
Queste valutazioni ottimistiche, seppure prudenti, derivano dalla decisione di alcuni Stati occidentali, la Francia, la Gran Bretagna e altri, di riconoscere formalmente lo Stato palestinese. Soprattutto il Presidente francese Macron ha voluto attribuire una particolare rilevanza storica alla scelta del suo Paese che già a suo tempo era stata promessa dal Presidente socialista Hollande, senza che poi questa promessa (come tante altre) avesse seguito.
La “Dichiarazione di New York”
La riunione che è avvenuta all’ONU in anticipazione dell’Assemblea generale è stata preceduta a luglio da un incontro promosso e coordinato da Francia e Arabia Saudita che ha portato ad una complessa dichiarazione politica tesa a rilanciare la soluzione dei due Stati confinanti in Palestina. Israele dovrebbe rientrare nei confini precedenti alla guerra del 1967 a seguito della quale ha occupato la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme orientale e sul territorio così liberato dovrà realizzarsi, finalmente, lo Stato palestinese.
La cosiddetta “Dichiarazione di New York” resa pubblica il 29 luglio scorso si impegna ad intraprendere una “azione collettiva per mettere fine alla guerra in Gaza, per raggiungere un accordo duraturo, pacifico e giusto del conflitto israelo-palestinese basato su una effettiva implementazione della soluzione dei due Stati”.
La dichiarazione condanna gli “attacchi commessi contro i civili il 7 ottobre” come gli attacchi di Israele contro i civili a Gaza, l’assedio e la fame che hanno prodotto una “catastrofe umanitaria devastante”. I firmatari della dichiarazione promettono di compiere passi “irreversibili” finalizzati alla realizzazione di uno “Stato di Palestina indipendente, sovrano, economicamente sostenibile e democratico” che viva a fianco dello Stato di Israele.
Si chiede ad Hamas di liberare tutti gli ostaggi ma, è interessante sottolineare, questo viene inserito “nel contesto” che prevede un cessate il fuoco che conduca alla fine permanente delle ostilità, lo scambio con i prigionieri palestinesi, e “il completo ritiro delle forze israeliane da Gaza”. Ad Israele si chiede di eliminare ogni restrizione all’accesso dell’assistenza umanitaria e si ricorda che l’uso della fame come arma di guerra è proibito dal diritto internazionale. Gaza è parte integrante dello Stato palestinese e deve essere unificata con la Cisgiordania.
Alcune previsioni della Dichiarazione aprono problemi politici più complessi. Il principio che viene affermato è quello dell’esistenza di “uno Stato, un governo, una legge, un fucile” e questo deve fare capo all’Autorità palestinese. Ad Hamas si chiede esplicitamente di “cessare il suo dominio a Gaza e di consegnare le armi all’Autorità palestinese”. Una volta realizzato il cessate il fuoco si dovrà costituire un “comitato amministrativo di transizione” sotto “l’ombrello dell’Autorità Palestinese”. È ipotizzata la possibilità di una “missione internazionale temporanea di stabilizzazione” su “invito” dell’Autorità Palestinese e “l’egida” delle Nazioni Unite.
Per quanto riguarda i confini dello Stato palestinese questi sono riconosciuti sulle basi delle linee di confine del 1967 inclusa la parte relativa a Gerusalemme. Lo Stato “non intende essere uno Stato militarizzato ed è pronto a realizzare accordi per la sicurezza che siano di beneficio per tutte le parti”. Si dovranno tenere elezioni democratiche alle quali potranno partecipare tutte quelle forze che rispettino la piattaforma politica dell’OLP, gli impegni internazionali e le rilevanti risoluzioni delle Nazioni Unite, nonché il principio di “uno Stato, un governo, una legge, un fucile”.
Ad Israele viene chiesto di assumere pubblicamente l’impegno per la soluzione dei due Stati e di cessare immediatamente ogni forma di violenza, di furto di terra, di colonizzazione e di progetti di annessione del territorio riconosciuto allo Stato di Palestina, nonché di fermare e punire le violenze dei coloni. La dichiarazione afferma il principio del “diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese”.
I sottoscrittori della dichiarazione assumono che questo momento rappresenti un punto di svolta a partire dal quale l’intera comunità internazionale deve essere mobilitata secondo il percorso individuato dall’Alleanza globale per l’implementazione della soluzione dei due Stati.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la “Dichiarazione di New York” che delinea, come viene sottolineato formalmente, un “percorso irreversibile per la risoluzione pacifica della questione palestinese e l’implementazione della soluzione dei due Stati”. 142 Stati hanno votato a favore, 10 contro (naturalmente Stati Uniti e Israele) e 12 si sono astenuti.
Questa posizione, nuovamente rafforzata dall’incontro tenutosi il 22 settembre e che ha visto protagonista Macron, mentre l’Arabia Saudita ha preferito tenere un profilo più basso, probabilmente per lasciare più evidenza alla svolta compiuta dalla Francia e da altri paesi occidentali, visto che il cosiddetto “Sud globale” ha già riconosciuto lo Stato palestinese da tempo.
Questo tentativo di rilancio della soluzione dei due Stati, a partire dal riconoscimento del principio di autodeterminazione del popolo palestinese, ha fatto registrare numerose reazioni. Lasceremo da parte la prevedibile opposizione del governo israeliano di estrema destra che punta alla creazione della “Grande Israele” e all’annessione dell’intera Palestina con la cancellazione politica ma se necessario anche fisica dei palestinesi.
Occorre sottolineare che lo scontro tra le Nazioni Unite e Israele assume un valore di fondo perché da un lato si afferma il principio (al di là che si condivida o meno la proposta avanzata) della soluzione di un conflitto sulla base di una posizione espressa dalla organizzazione multipolare di Stati sovrani a ciò deputata. Dall’altra la tesi che il fondamento di Israele non sia la decisione dell’ONU del 1947 bensì un mandato divino che deve essere realizzato anche con il ricorso alla violenza più brutale e indiscriminata. Ai principi del multipolarismo basati sul diritto e la ragione e il principio dell’eguale diritto di tutti i popoli, così come si è cercato di affermare, con molti limiti e contraddizioni, a partire dalla vittoria sul nazifascismo, si contrappone il ritorno alla guerra di religione (al grido di “Dio lo vuole”) e al suprematismo “razziale”. Come scrivevamo la scorsa settimana Israele è oggi la punta avanzata dell’ascesa dell’estrema destra e della destra autoritaria, con elementi di fascismo, a livello globale. E per questo il conflitto tra le Nazioni Unite da un lato, Israele e gli Stati Uniti dall’altro, sul diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese è una causa di valore universale.
Le reazioni palestinesi
Nel concreto della soluzione proposta, anche tra chi riconosce il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e nella stessa società palestinese, ci sono ovviamente valutazioni diverse. Il settore che fa capo all’Autorità Palestinese e alla maggiore forza politica che la sostiene, Fatah (al cui interno si esprimono anche differenze politiche) ha naturalmente accolto con grande favore l’iniziativa delle Nazioni Unite. Hussein al-Sheik, vicepresidente palestinese e membro del Comitato esecutivo dell’OLP ha dichiarato che il voto dell’ONU “esprime la volontà internazionale in favore dei diritti di un popolo e costituisce una tappa importante verso la fine dell’occupazione e la concretizzazione di uno Stato indipendente sulle linee del 1967 con Gerusalemme est come capitale”. Il portavoce della presidenza palestinese Nabil Abou Rudeineh ha affermato che “lo Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale è inevitabile e conforme alla soluzione dei due Stati”.
I comunisti palestinesi, organizzati nel Partito del Popolo, hanno “accolto con favore il riconoscimento dello Stato di Palestina” considerandolo un “rafforzamento dei diritti legittimi del popolo palestinese, primo tra tutti la creazione del loro Stato indipendente”. Questi riconoscimenti non sarebbero stati possibili “senza le lotte, i sacrifici e la tenacia del popolo palestinese”. I comunisti chiedono che tutto il mondo riconosca il genocidio commesso da Israele, tutt’ora in corso, e “intervengano con forza per fermarlo immediatamente, perseguire i criminali di guerra israeliani, applicare le leggi internazionali relative alla questione palestinese e garantire protezione al nostro popolo nei territori palestinesi”.
La domanda che molti si pongono è quali effetti pratici avrà questa presa di posizione delle Nazioni Unite e da quali azioni concrete sarà seguita. La deputata israelo-palestinese di Hadash, Aida Touma-Sliman ha scritto su Jacobin che “il mondo procede su due percorsi paralleli: da un lato un’onda di solidarietà popolare con la causa palestinese e contro il genocidio, inclusa la discussione crescente sull’imposizione di sanzioni reali contro Israele. Dall’altro lato, la brutalità senza precedenti di Israele contro il popolo palestinese, sostenuta incondizionatamente dagli Stati Uniti”.
Touma-Sliman segnala anche quanto molti temono, ovvero che il “riconoscimento dello Stato palestinese possa offrire ai governi occidentali un modo per assolversi di fronte alla crescente pressione pubblica messa in campo dai movimenti di solidarietà con la Palestina”. I palestinesi – scrive ancora – hanno il “legittimo timore che quegli stati che hanno riconosciuto il loro diritto all’autodeterminazione finiscano non solo a farne solo un gesto simbolico, ma che questo gesto sia accompagnato da maggiori richieste ai palestinesi sotto occupazione che ai loro occupanti israeliani”. La deputata comunista israeliana segnala quelle richieste contenute nella “Dichiarazione di New York” che limitano la partecipazione alle elezioni palestinesi di quelle fazioni che approvano la piattaforma dell’OLP o che condividono l’impegno a fare della Palestina uno stato smilitarizzato che li renderebbe impossibilitati a difendersi dal genocidio.
Fatte queste considerazioni, Aiman Touma-Sliman afferma che il riconoscimento dello Stato palestinese va sostenuto e questa è la posizione che Hadash sostiene da lungo tempo, a differenza e in contrasto con quasi tutte le altre forze politiche israeliane, comprese quelle che oggi sono all’opposizione. “Per avere senso il riconoscimento deve essere accompagnato da sanzioni”, conclude.
Sei fazioni che sono impegnate nella lotta armata (Hamas, Jihad Islamica, Fronte Popolare, Fronte Democratico e altre minori) hanno commentato la “Dichiarazione di New York” in un comunicato emesso il 1° agosto scorso. Apprezzano ogni sforzo in sostegno del popolo palestinese e chiedono un “riconoscimento internazionale incondizionato del loro stato indipendente e dei loro inalienabili diritti nazionali come un diritto politico e una giustizia storica che non può essere negoziata o posposta”.
La strada per una soluzione non può che cominciare col fermare “l’aggressione fascista contro il nostro popolo”. Per quanto riguarda gli ostaggi (definiti “prigionieri”) la “resistenza palestinese” è pronta a risolvere la questione nel contesto di un accordo di cessate il fuoco, il completo ritiro delle forze di occupazione dalla Striscia di Gaza, l’apertura degli attraversamenti e l’immediato inizio della ricostruzione”.
Le sei fazioni chiedono l’instaurazione di uno Stato sovrano e indipendente con al-Quds (Gerusalemme) come capitale, senza ulteriori precisazioni. Ritengono che la “resistenza palestinese in tutte le sue forme sia una naturale e legittima reazione all’occupazione”. Questo diritto viene ricavato dal “diritto internazionale” (che però mette anche dei limiti a ciò che è accettabile come forma di resistenza) e al “mandato divino” (in inglese, nel testo diffuso, “divine ordinances”). L’uso di formule religiose rappresenta una concessione ad ideologie reazionarie che indeboliscono anziché rafforzare il movimento di liberazione nazionale palestinese.
Questi movimenti, tra i quali il Fronte Popolare e il Fronte Democratico rivendicano un profilo ideologico di sinistra, chiedono da tempo la riforma dell’OLP (che effettivamente esclude settori importanti del mondo politico palestinese) e oltre a rivendicarla nuovamente, sollecitano lo svolgimento di elezioni presidenziali e legislative “senza precondizioni”.
In diverse occasioni, Hamas ha accettato la soluzione dello Stato palestinese costituito a fianco di quello israeliano, pur lasciando aperta la prospettiva, rimandata molto in là nel tempo, della creazione di un solo Stato su tutta la Palestina del mandato britannico. Ha riaffermato invece in modo esplicito la contrarietà alla soluzione dei due Stati, il Fronte Popolare per la Liberazione Palestinese. In un’intervista a L’Humanité, Marwan Abdel-Al ha dichiarato che “la cosiddetta conferenza per la soluzione dei due Stati non è tanto una iniziativa di pace quanto il riciclaggio di una illusione politica che la realtà ha sorpassato. La conferenza (ndr: quella dalla quale è emersa la “Dichiarazione di New York”), nel suo formato e nella sua tempistica è sembrato più un funerale ufficiale per una soluzione che esiste ormai solo nelle dichiarazioni diplomatiche”. Ha aggiunto Abdel-Al che “noi non chiediamo una entità simbolica sotto la sovranità di ‘israele’ (ndr; normalmente il FPLP usa la dicitura ‘entità sionista’); piuttosto noi vogliamo una reale liberazione, il diritto al ritorno e alla giustizia storica”. L’alternativa proposta del leader del Fronte Popolare è “lo smantellamento del sistema coloniale dalle sue radici” e questo richiederà un “lungo percorso di liberazione”.
Si chiede la costituzione di “un unico stato democratico sull’intero territorio, nel quale tutti siano uguali senza discriminazioni etniche o religiose”. Come realizzare questo obbiettivo data l’ostilità di quasi tutti gli ebrei israeliani e di tutta la comunità internazionale, con pochissime eccezioni, e stanti i rapporti di forza? Secondo un altro dirigente del Fronte Popolare, Ahmad Ghannoumi, che ha parlato in Libano, “l’entità (ndr: Israele) è destinata al collasso a seguito della sua incapacità di raggiungere la vittoria a Gaza e poiché il giorno si sta avvicinando nel quale l’America sarà costretta a sospendere il suo sostegno a causa dell’impatto economico e dato che il mito dell’invincibilità è finito, il rovesciamento dell’immigrazione ebraica è sempre più forte e il sostegno della comunità internazionale all’esistenza dell’entità a iniziato a trasformarsi nel rigetto dell’entità del terrorismo e del crimine”.
Una posizione diversa è quella espressa dal Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. In un’intervista rilasciata nel marzo scorso da Qais Abdul Qarim/Khader affermava che “l’espansione delle colonie non rende la soluzione dei due Stati meno praticabile. Questo è quanto gli israeliani vogliono farci credere: che le colonie sono destinate a rimanere qui. Questo non è vero. Non solo nel Sinai egiziano, ma anche in Gaza e persino nella regione settentrionale della Cisgiordania, le colonie sono state smantellate in diversi momenti del conflitto”. La richiesta di smantellamento delle colonie, afferma il dirigente del FDLP “non deve essere marginalizzata o compromessa dal movimento di liberazione nazionale palestinese e da tutti coloro che sostengono la pace e la giustizia nella regione”.
Il Fronte Democratico ha sostenuto da tempo la creazione di uno stato palestinese nei territori occupati da Israele nel 1967 ma ritiene che la soluzione finale “della contraddizione tra il sionismo e il movimento di liberazione nazionale palestinese possa essere raggiunta solo nel contesto di uno stato unitario democratico nella Palestina storica i cui entrambi i popoli possano coesistere nell’eguaglianza nazionale e nel riconoscimento reciproco delle loro identità nazionale e con uguali diritti, ma crede anche fermamente che lo Stato palestinese più il ritorno dei rifugiati sia un passaggio obbligatorio verso questa soluzione democratica”.
Si noteranno le differenze di prospettiva tra i due Fronti. Nell’immediato, il Fronte Democratico sostiene la formazione di uno Stato palestinese nei confini del 1967, anzi lo ritiene un passaggio obbligatorio, mentre il Fronte Popolare lo considera una prospettiva ormai defunta. In secondo luogo, se entrambi hanno obbiettivo la costituzione di un unico Stato, il Fronte Popolare vede solo singoli individui, il Fronte Democratico riconosce l’esistenza di due popoli dotati entrambi di “identità nazionale”.
Questa rassegna, già lunga, andrebbe ulteriormente approfondita anche alla luce di altre prese di posizione delle forze, al di fuori della Palestina, che sostengono il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Un movimento che, anche in Italia, ha assunto una dimensione di massa nella giornata del 21 settembre. L’ampiezza della mobilitazione, soprattutto giovanile, ha costretto la Presidente del Consiglio Meloni, espressione di una corrente politico-ideologica le cui affinità con la destra al governo in Israele risalgono agli anni ’30 e che nell’attuale contesto di ascesa della destra autoritaria si sono ulteriormente rinsaldate, a tentare una manovra tattica per uscire dall’angolo. Al di là della strumentalità dell’operazione si tratta del primo vero segnale di cedimento del fortino filo-israeliano in Italia, e sarà compito del movimento allargare questa breccia sviluppando la propria piattaforma politica.
Franco Ferrari