Davvero le “élite europee vogliono la guerra” come qualcuno sostiene? E come mai quelli che fino a poco tempo fa erano definiti i “servi scemi degli Stati Uniti”, ora si oppongono alla volontà statunitense per arrivare, costi quel che costi, alla guerra contro la Russia? E si può analizzare la scena politica e sociale globale contrapponendo “i buoni e i cattivi”?
Questa lettura semplicistica che mescola un po’ di complottismo (élite omogenee e misteriose mosse da intenti malvagi) e populismo semplificato (i popoli buoni, le élite cattive) non risulta, per dirla con un eufemismo, particolarmente convincente.
Personalmente siamo più favorevoli a seguire nell’analisi, condizione per formulare poi una strategia politica più corretta, gli autori classici. Tra questi ad esempio il Lenin dell’Estremismo malattia infantile del comunismo, il quale scriveva: “i dissensi tra i Churchill e Lloyd George da una parte (questi tipi politici si trovano in tutti i paesi con differenze nazionali trascurabili) e, dall’altra parte, i dissensi fra gli Henderson e i Lloyd George, sono del tutto privi di importanza, sono piccola cosa dal punto di vista del comunismo puro, cioè astratto, cioè non ancora maturo per l’azione pratica, politica, di massa. Ma, dal punto di vista di questa azione pratica delle masse, questi dissensi sono importantissimi. Tutto il compito, tutta l’opera del comunista che voglia essere non soltanto un propagandista cosciente, convinto, fedele ai principi, ma anche un dirigente pratico delle masse nella rivoluzione, consiste nel tener conto di questi dissensi nel determinare il momento in cui, fra questi <amici>, giungono a piena maturazione gli inevitabili conflitti che indeboliscono e estenuano tutti quanti gli ‘amici’ messi insieme”.
Dal punto di vista dell’analisi si possono seguire due strade: quella che vede sempre gli avversari come un blocco unico che, in questo caso, convergono tutti su un’unica prospettiva (l’escalation nella guerra contro la Russia) oppure verificare se esiste un’articolazione di interessi e di punti di vista ideologici che aprano contraddizioni sulle quali sia possibile intervenire per mutare direzione politica all’Italia e all’Europa. Due visioni analitiche che determinano due visioni profondamente diverse di come si definisce la politica della sinistra di trasformazione. Naturalmente l’illusione di chi segue il primo metodo è che se il “popolo” sta tutto da una parte e le élite tutte dall’altra, basta raffigurare se stessi come coloro che incarnano il volere, e i buoni sentimenti, del “popolo” per prospettarsi un futuro radioso.
La rappresentazione delle élite europee tutte decise per la guerra è speculare (cambiano solo i ruoli dei buoni e dei cattivi) a quella che raffigura la Russia di Putin come implacabilmente desiderosa di invadere l’Europa.
Forse è più utile tentare un’analisi meno superficiale e inficiata di moralismo predicatorio su che cosa vogliono le “élites”, quelle che noi definiremmo le classi dominanti, e le forze politiche che in modi diversi le rappresentano nei vari governi europei e nelle istituzioni di Bruxelles.
Ci sono alcuni settori, che al momento a me appaiono minoritari per fortuna, che non solo non escludono, ma vedrebbero con qualche favore uno scontro militare con la Russia. In questo schieramento possiamo mettere i baltici, in parte la stessa direzione politica ucraina, con qualche prudenza la Polonia e settori oltranzisti del resto d’Europa, perfino qualche gruppo trotskista. Quelli che pensano che la Russia sia eternamente e per natura imperialista ed espansiva e quindi l’unico modo per mettere fine alla minaccia è smantellarla, come è stato fatto con la Jugoslavia e la stessa Unione Sovietica. Ma paiono molto forti soprattutto nell’attuale Parlamento europeo.
Esiste una corrente centrale che, presumibilmente, non punta alla guerra ma certamente a tenere aperto un scontro con la Russia in termini economici e di corsa al riarmo. Qui troviamo la punta avanzata dei “volenterosi”: Macron, Merz, Starmer, Von der Leyen. Anche questi però mossi da obbiettivi diversi e in qualche caso incompatibili.
Il conflitto con la Russia ha due motivazioni fondamentali. La prima è di utilizzare il nemico esterno come strumento indispensabile per rilanciare il progetto europeo in crisi. Questa crisi deriva dalle scelte fondamentali sulle quali è stata costruita l’Europa negli ultimi decenni. Liberismo e globalizzazione mercantile. L’UE si è affidata alla globalizzazione molto più di tutti gli altri soggetti mondiali e oggi si trova particolarmente in difficoltà perché ha costruito un modello di accumulazione capitalistico, a partire dal predominio tedesco, che è entrato in crisi in un contesto modificato.
Quindi al nemico esterno come nuovo collante, essendo venute meno le promesse di benessere per tanti se non per tutti come effetto di liberismo e globalizzazione, si aggiunge la scommessa sul riarmo come architrave di un nuovo modello di accumulazione. In Germania vuol dire la Rheinmetall al posto della Volkswagen. Per noi la Leonardo al posto della FIAT (che ormai se n’è andata da molto tempo). È evidente che un modello di crescita economica fondato sul militare ha tutta una serie di conseguenze politiche, sociali e ideologiche.
Tra queste innanzitutto la necessità di convincere della priorità della spesa militare che può essere offerta come sbocco per la disoccupazione in alcune situazioni, e in generale come condizione esistenziale per difendere il “modello di vita occidentale”.
Dal punto di vista ideologico la mentalità militarista da fare assorbire a settori sempre più ampi di opinione pubblica produce una convergenza politica. Per alcune correnti politiche tradizionali (pensiamo ai popolari europei) serve a legittimare la spesa militare e il riarmo ma per altre, e in particolare gran parte dell’estrema destra, si intreccia con la propaganda dell’etnonazionalismo e dello sciovinismo. E quindi può favorire la convergenza tra conservatorismo ed estrema destra autoritaria e reazionaria come sta già avvenendo in molti paesi.
Emergono però anche in questo settore centrale diverse contraddizioni, oltre a quella, fondamentale, che davvero il capitalismo europeo possa rilanciarsi attraverso la spesa militare. La Von der Leyen punta a svolgere un ruolo in qualche misura “bonapartista”, di supplenza della debolezza dei due paesi che hanno sempre costituito l’asse centrale del progetto europeo (Francia e Germania), proponendosi come la guida politica di una nuova fase del progetto europeista, con elementi autoritari e fortemente ademocratici. Si inventa ruoli di direzione che i Trattati non le conferiscono, prevede un’espansione del bilancio che nessuno è disposto a pagare, men che meno la Germania, introduce continue torsioni alle regole dell’Unione.
Macron e Merz sembrano invece puntare soprattutto a rilanciare il ruolo dei rispettivi paesi. Il Presidente francese, oltre ad essere impopolare all’interno, ha subito numerose sconfitte in tutte le sue iniziative di politica estera. Ha perso terreno in Africa, credibilità in Libano e ha avviato un’iniziativa con l’Arabia Saudita per dare soluzione alla questione palestinese che è stata accantonata dal “Piano Trump”. In quest’ultimo caso, pur con dei limiti, era certamente molto più corretta nei confronti delle aspirazioni palestinesi di quanto non siano i venti punti del presidente USA. Ma questa iniziativa ha cancellato dalla scena proprio il ruolo francese. La Francia punta ad assumere una funzione guida in quanto maggiore potenza militare dell’Unione Europea e unica dotata di un arsenale nucleare indipendente dagli Stati Uniti. Ma le fondamenta su cui lo fa sono molto fragili.
Merz vuole rilanciare la Germania come potenza militare (il più grande esercito in Europa) e, proprio in questi giorni, come principale riferimento degli Stati Uniti di Trump, in alternativa alla Commissione europea.
L’Unione Europea, che sta arretrando su molti dei terreni sui quali aveva preso posizioni sulla carta più avanzate, come il cambiamento climatico e le limitazioni imposte alle multinazionali del digitale, tornerebbe ad essere per un verso un’area di libero scambio, come hanno sempre voluto i britannici, o semplice strumento di pressione per spingere le politiche di riarmo, in tandem con la NATO, e in ogni caso un soggetto privo di una vera legittimazione democratica.
Sul fianco sinistro di quello che era il blocco dominante dell’Unione Europea, ormai largamente messo in discussione dai conservatori che spesso e volentieri si alleano con l’estrema destra, ci si illude di rilanciare un progetto europeista, in nome della difesa dall’attacco congiunto Trump-Putin, che non fa i conti con tutti gli elementi di crisi e le contraddizioni di quello stesso progetto. C’è chi pensa che aggiungendo un nuovo settore militare a quelli già messi in campo si possa finalmente fare un salto in una fantomatica “Europa federale”.
L’esercito comune, vecchio sogno di Altiero Spinelli, richiederà necessariamente un vero potere politico comune. Se non altro per la banale ragione che laddove si crea un esercito ci deve essere qualcuno (o qualcuna) e, fondamentalmente, uno solo, che nel caso dia l’ordine di sparare. Il problema di questo percorso a tappe (cosiddetto funzionalista perché, aggiungendo funzione a funzione, si arriverebbe alla fine ad un vero Stato sovrano europeo) è che sposta poteri senza riallineare le forme della partecipazione democratica.
Lo stesso si dica per la proposta che viene ripresentata continuamente anche in Italia (lo fa Prodi e lo ripete anche Schlein) del superamento dell’unanimità per alcune decisioni assunte a livello europeo. Ora, se non capiamo male, l’unanimità è stata mantenuta in quei settori nei quali non è avvenuto un trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali all’Unione Europea. Questa proposta viene “venduta” all’opinione pubblica di sinistra per superare l’ostacolo Orban, quando invece vorrebbe dire, nell’attuale fase, consegnare le chiavi del potere europeo a governi sempre più spostati verso l’estrema destra.
Ma il problema di fondo di questa invocazione europeista è che si realizza aggravando e non risolvendo la crisi di legittimazione dell’Unione Europea. Si spostano poteri, senza contemporaneamente spostare le forme di partecipazione popolare e democratica. Una parte importante della socialdemocrazia, come degli ecologisti, pensa che attraverso il riarmo si facciano passi avanti verso un’Europa, culla dello stato di diritto, della democrazia e di un giusto equilibrio sociale, che invece ogni scelta concreta tende sempre più a ad allontanare proprio da queste premesse e qualità. Un’Europa senza popoli e senza classi. Fantasma tecnocratico che non riesce mai ad incarnarsi in un progetto mobilitante che per essere tale deve rimettere al centro pace e giustizia sociale. E un rapporto non colonialista, quindi non “occidentalista”, con il resto del mondo.
Per chiudere bisogna riconoscere che anche la sinistra radicale fatica a trovare una propria dimensione e una propria prospettiva in questo scenario gravido di contraddizioni, ma anche da qualche possibilità di iniziativa. Ancora troppo legata a visioni e interessi nazionali e incerta e divisa su molte questioni a partire dalla guerra in Ucraina. Se la strada del riarmo, che implica, al di là della volontà dei soggetti attivi, il pericolo della guerra, sorge dalle contraddizioni del capitalismo globale e nel caso specifico, di quello europeo; se le politiche prevalenti messe in campo dalle classi dominanti e dalle loro rappresentanze cercano di dare risposta alla crisi, evidentemente intrecciata, del progetto europeo e del modello di accumulazione sul quale si è basato, diventa indispensabile definire un’altra prospettiva di lungo periodo che riesca a dare risposta a quelle stesse contraddizioni. E attorno a questa riesca a costruire una coalizione politica e sociale maggioritaria. “Vasto programma” direbbe qualcuno, ma senza questo ci si deve accontentare di lanciare anatemi sui social.
Franco Ferrari
