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La spesa pubblica in Italia

di Pier Giorgio
Ardeni

Dopo che anche la Ragioneria generale ha dato la sua bollinatura, il disegno di legge di bilancio 2026-28 è stato finalmente pubblicato e già si discute dei dettagli e di come variare questa o quella misura. Per quanto più di una delle prescrizioni indicate saranno modificate di qui alla fine dell’anno, prima che il Parlamento lo approvi definitivamente, vale la pena dare una valutazione generale della manovra finanziaria proposta dal governo e dello stato della nostra finanza pubblica. L’impressione generale è che mai come questa volta il governo abbia fatto il minimo indispensabile per continuare sulla rotta già tracciata, continuando però a navigare a vista. Non curandosi così, davvero, del paese reale, dell’economia che galleggia, del corpo sociale che nelle sue fasce più deboli soffre e fatica.

Dal 2022, quando il governo Draghi approvò la sua ultima legge finanziaria – quando furono messi a bilancio 1096,5 miliardi di euro – la spesa pubblica totale, sotto il governo Meloni, ha visto un leggero aumento nei primi due anni – dai 1144,8 miliardi del 2023 ai 1229,7 del 2024, scendendo leggermente ai 1199,5 miliardi del 2025 (qui guardiamo ai dati del bilancio di competenza, più che a quelli di cassa, per poterli poi confrontare con quelli della legge appena varata).1 In percentuale sul PIL, la spesa pubblica è così scesa dal 54.9 del 2022 al 53.7 del 2023, al 50.4 del 2024, fino al 50.8 (stimato) per il 2025, sempre mantenendosi, però, almeno cinque punti sopra la media UE.

Di questa spesa, tuttavia, al rimborso delle passività finanziarie (cioè, la restituzione di debito pregresso) va sempre destinato una cospicua trancia – 328,7 miliardi nel 2024 (scesi, a consuntivo, a 319,1), ovvero il 27% del totale, e 283,8 miliardi nel 2025, il 23,7% – tanto da ridurre il totale delle spese correnti e in conto capitale a 886,4 miliardi nel 2024 e 915,8 miliardi nel 2025. Se dalle spese correnti, poi, deduciamo il pagamento degli interessi, si ha che queste sono state pari a 789,5 miliardi nel 2024 e a 809,5 miliardi nel 2025. E se, infine, consideriamo che parte delle spese è stata destinata all’accensione di nuovo debito (91,2 miliardi nel 2024 e 100,8 miliardi nel 2025), si ha che la spesa “viva” è ammontata a 698,2 miliardi nel 2024 e 708,7 miliardi nel 2025. In sostanza, il debito pubblico si è portato via il 34,6% della spesa pubblica totale nel 2024 (pari a 419,9 miliardi) e il 32,1% nel 2025 (384,5 miliardi).

Nell’ultima legge di bilancio approvata lo scorso 31 dicembre per l’anno in corso la spesa totale era stata ripartita, principalmente, tra le voci “trasferimenti agli enti locali” (149,6 miliardi, 3,7 più dell’anno precedente), “previdenza” (122,5, -12,6), “politiche economiche” (121,5, +2,6), “competitività e sviluppo imprese” (78,3, +14,7), “spese sociali” (66,2, +3), “istruzione scolastica” (56,8, +4,7), “cooperazione europea e internazionale” (38,4, +5,9) e “difesa” (31, +1,9), “fondi da ripartire” (21,6, -1,9), “politiche per il lavoro” (17,6, =), “trasporti” (17,1, -0,5), “riequilibrio territoriale” (14,9, +1,4), “ordine pubblico” (13,1, +0,1), “giustizia” (11,7, +0,3), “università” (11,6, +0,1), con i restanti 43,2 miliardi (-3,4 rispetto all’anno precedente) suddivisi tra tutte le rimanenti voci.

In sostanza, la manovra approntata ai fini della legge di bilancio dell’anno scorso aveva previsto, in termini di fabbisogno, interventi per 37,4 miliardi di euro, corrispondenti a 15 miliardi di minori entrate e 22,4 di maggiori spese, e coperture complessive per 25,6 miliardi, pari a 13,8 di maggiori entrate e 11,7 di minori spese, con un saldo finale negativo pari a poco più di 11,8 miliardi di euro.

La manovra di quest’anno, invece, prevede interventi per 18,8 miliardi, corrispondenti a 6,5 miliardi di minori entrate e 12,3 di maggiori uscite a fronte di coperture per 17,9 miliardi, pari a 7,9 miliardi di maggiori entrate e 10 miliardi di minori uscite, con un saldo finale negativo di 4,4 miliardi. Come si può notare, quindi, le misure espansive vedono una drastica riduzione (da 37,4 a 18,8 miliardi, cioè 15,1 miliardi in meno), a fronte di coperture ancor più ridotte (da 25,6 a 17,9 miliardi, ovvero 7,7 in meno). In effetti, come riporta l’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica di Milano, la manovra rivela la sua modesta dimensione rispetto al passato (Fig.1). «Si tratta della manovra più piccola almeno dal 2014, con un totale di misure espansive pari a metà della dimensione media del periodo, in rapporto al Pil».

Se è vero che le nuove regole europee prevedono un aggiustamento del deficit più graduale, lo spazio per finanziamenti in deficit è molto limitato. Ciò implica che la manovra andrebbe finanziata con misure di copertura, che il governo, evidentemente, non ha ritenuto di voler trovare per farne uno strumento espansivo, dando così luogo ad una finanziaria che «vola basso», senza alcuna ambizione strategica.

La spesa pubblica nel 2026 dovrebbe portarsi a 1231,2 miliardi, di cui 331,2 destinati al rimborso delle passività finanziarie e105,5 di nuovo debito, per un totale di 436,7 miliardi (il 35,5% del totale della spesa) sottratti dal debito pubblico. Il debito totale lordo, che nel 2024 ha raggiunto i 2988,9 miliardi di euro, cioè il 134.9% del PIL, nel 2025 dovrebbe così raggiungere il 136.2% e nel 2026 il 137.4%. Con una spesa totale ridotta, pari a 900 miliardi, di cui 111,2 destinati al pagamento degli interessi, avremo così una spesa effettiva di 788,8 miliardi per le spese correnti e in conto capitale, davvero magra se rapportata alle mille esigenze del Paese.

Per il triennio 2026-28, ad oggi, la manovra comprende misure espansive di circa 17-19 miliardi all’anno (cui vanno però aggiunti i 12 miliardi di spese per la difesa nel triennio, di cui i commentatori non sembrano curarsi). Per il solo 2026, le coperture, tra tagli di spesa e aumenti di entrate, sono quasi equivalenti alle misure espansive, mentre per il 2027-28 è prevista una modesta copertura in deficit (dello 0,2% del Pil), possibile perché il deficit tendenziale era leggermente inferiore agli obiettivi fissati l’anno scorso e lo è anche quest’anno. Riguardo agli aumenti della spesa per la difesa, il governo pare essersi impegnato a spendere 3,5 miliardi in più nel 2026 (che vanno ad aggiungersi ai 31 miliardi già messi a budget) e 12 miliardi in più in tre anni. Per la spesa per la difesa, però, verrà richiesta l’attivazione della clausola di salvaguardia per finanziare in deficit, magari utilizzando il meccanismo SAFE proposto dalla Commissione Europea per l’erogazione dei corrispondenti prestiti agevolati.

Tra le misure espansive nella manovra si segnalano (ma vale il caveat che queste varieranno ancora, nel merito e negli ammontari):

  • il taglio delle aliquote IRPEF per il secondo scaglione (redditi da 28.000 euro a 50.000 euro) dal 35% al 33%, che dovrebbe ammontare a 8,6 miliardi in tre anni di minori entrate, coinvolgendo 13,6 milioni di contribuenti;
  • gli incentivi agli adeguamenti salariali (2,1 miliardi nel 2026) e i vari bonus; le misure per incentivare l’investimento delle imprese (legati alle Zone Economiche Speciali);
  • un aumento di due punti percentuali dell’Irap per banche e assicurazioni, rispettivamente, dal 4,65% al 6,65% e dal 5,90% al 7,90%;
  • misure per la famiglia e la spesa sociale (1,6 miliardi nel 2026, a decrescere in seguito);
  • un maggior finanziamento del servizio sanitario nazionale (2,4 miliardi nel 2026, 2,65 nel 2027, che vanno ad aggiungersi ai 5 miliardi in più stanziati nella legge di bilancio 2025 per il 2026);
  • un aumento dell’aliquota sulla cedolare secca al 26% sui contratti d’affitto sul primo immobile solo per chi si affida a intermediari immobiliari o portali telematici, mentre resta al 21% per gli altri;
  • una riduzione del Fondo per il cinema da 190 a 150 milioni;
  • una maggiore spesa per investimenti pubblici nel 2027-28, che potrebbe riflettere la decisione di ritardare le spese del PNRR per il 2026;
  • una maggior spesa per pensioni nel 2027-28 (500 milioni), per la decisione di adeguare solo gradualmente l’età di pensionamento all’aumento dell’aspettativa di vita: invece dei tre mesi previsti nel 2027, l’aumento sarà di un mese nel 2027 e due nel 2028 (quasi per tutti, esclusi l’1% di esodati, i lavori cosiddetti “gravosi” e “usuranti” coperti dall’Ape sociale, lasciando fuori disoccupati, caregiver, invalidi, precoci). Inoltre, alle pensioni minime andranno dal prossimo anno meno di 4 euro in più al mese, come anche alle pensioni “sociali” agli over 70 a basso reddito (non i 20 euro extra annunciati dal ministro Giorgetti in conferenza stampa subito dopo l’approvazione della manovra in Consiglio dei ministri). Un aumento che, va da sé, non compenserà la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione. Anche Quota 103 e Opzione donna sono state cancellate.
  • infine, un miliardo di “altre spese” non identificate (è possibile che queste vadano a finanziare la nuova rottamazione delle cartelle).

Le misure espansive comporterebbero minori entrate per 15,7 miliardi in tre anni e maggiori uscite per 38,8 miliardi in tre anni per le varie spese, cui però andranno aggiunti ben 12 miliardi di spese per la difesa, già dichiarati ma non ancora contabilizzati.

Dal lato delle coperture, la manovra appare ancora da definire. Si ipotizzano, dal lato delle entrate, un contributo su base volontaria da banche e assicurazioni (non è chiaro se si tratti di anticipo di tassazione o tassazione una tantum) per 11,3 miliardi in tre anni, più altri 11,3 miliardi in tre anni di non ben precisate “altre entrate”. Per effetto di questa voce e della precedente, e nonostante il taglio IRPEF, la pressione fiscale nel 2026 resta al 42,7%, come nel 2025, uno dei livelli più alti negli ultimi quindici anni, e rimarrà su questi livelli anche nel biennio seguente. Dal lato delle uscite, la principale voce sono le riduzioni delle spese previste per il PNRR (5,1 miliardi nel 2026) e il taglio della spesa dei ministeri (2,3 miliardi nel 2026, a crescere negli anni seguenti), più non ben precisati “tagli di spesa” per 2,6 miliardi nel 2026. Pertanto, le coperture (40,8 miliardi in tre anni) prevedono 22,8 miliardi di maggiori entrate e 18 miliardi di minori uscite, cioè di tagli.

Questi i dati noti di una manovra che andrà monitorata nei dettagli e che subirà comunque modifiche prima della conversione in legge, ma che appare comunque fatta «con il freno tirato». Certo, viene detto, essa punta al “risanamento”. La presidente Meloni e il ministro Giorgetti hanno mostrato grande soddisfazione per uno stato dei conti pubblici che vede il ritorno all’avanzo primario (più entrate rispetto alle spese, al netto degli interessi sul debito). In realtà, non si tratta di gestione virtuosa, ma di austerità, che sosterrà chi paga le tasse. Il prelievo fiscale, infatti, già salita dal 41.4% del PIL del 2024 al 42.6% del 2025, crescerà fino al 42.7% del 2026 (e del 2027), un livello record che non fa certo leva sull’aumento della pressione fiscale sulle banche, sulle rendite finanziarie o sulle tasse di successione dei super ricchi, ma da quel vero e proprio “furto” ai danni di milioni di contribuenti con redditi bassi e medio-bassi da lavoro dipendente. Infatti, l’aumento dell’inflazione registrato negli ultimi anni ha gonfiato il valore nominale delle retribuzioni e delle pensioni delle lavoratrici e dei lavoratori che, spesso, ha comportato il loro passaggio ad un’aliquota superiore con maggiore prelievo fiscale (il noto fiscal drag) non certo giustificato da un aumento di reddito reale, del tutto assente. Tale aumento di gettito a discapito dei contribuenti è stato reso ancora più marcato da due ulteriori fattori: la mancanza di sistemi di indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita, assenti peraltro anche nell’ultima legge di bilancio, e la mancata restituzione del maggior incasso da parte dallo Stato ai contribuenti. In due anni, si valuta che, per effetto di questo meccanismo, lo Stato abbia incassato 50 miliardi in più e ne abbia restituiti meno di 17 ai contribuenti. Il tanto celebrato risanamento, tanto caro alle agenzie di rating e a Meloni & Co, è il prodotto di questa colossale ingiustizia sociale.

Alle banche viene richiesto un contributo di 11,3 miliardi in tre anni. In che cosa consista realmente tale “contributo” concordato dalle banche con il superministro Giorgetti è però chiaro, perché si tratta di nient’altro che di un anticipo di imposte. In pratica, le banche verseranno subito imposte future che, naturalmente, non pagheranno poi. In questo senso Meloni e Giorgetti hanno ottenuto, come massimo risultato nei confronti delle banche, un anticipo di liquidità che dovrà restituire il prossimo governo. Il che suona davvero incredibile, se si considera che le banche italiane dal 2022 al 2025 hanno realizzato quasi 165 miliardi di utili con un tax/rate medio (rapporto tra tasse pagate e utili) del 22%. Va poi aggiunto che in Italia, l’erogazione dei crediti da parte del sistema bancario riguarda quasi esclusivamente le imprese con più di 20 dipendenti, a cui sono andati, nel 2025, ben 550 miliardi di euro di prestiti, con un incremento di oltre 8 miliardi, mentre a quelle con meno di 20 dipendenti sono stati destinati solo poco più di 96 miliardi, con una perdita secca di quasi 6 miliardi. Alla luce di ciò, è evidente che neppure il costoso sistema di garanzie pubbliche, che immobilizza quasi 300 miliardi di euro, ha convinto le banche a non assumersi il rischio di finanziare le imprese più piccole: un dato, questo, particolarmente grave per un’economia come quella italiana dove le imprese con meno di venti dipendenti rappresentano il 98% del totale. Bisogna poi ricordare che il volume complessivo dei crediti erogati dalle banche italiane si è ridotto nel tempo, passando dai circa mille miliardi di euro del 2011 agli attuali 650 e si è, al contempo, fortemente concentrato in prestiti di entità considerevole, spesso legati a settori, come l’immobiliare e l’edilizio, incentivati da sostegni pubblici.

È pertanto fuori luogo il ringraziamento che la presidente del Consiglio ha rivolto alle banche «per i grandi sforzi fatti». Appare decisamente motivato invece il ringraziamento del presidente di Confindustria alla stessa Meloni per quanto ottenuto nella Legge di Bilancio: 8 miliardi di euro in tre anni in “aiuti”, a cui si aggiungono i 2,3 miliardi per le Zone economiche speciali, e il beneficio della “flat tax” al 5% sugli aumenti contrattuali (e dispiace che Brancaccio, come parte della sinistra, sia d’accordo su questa misura, che è un incentivo ad un fisco per “categorie”, che frammenta ulteriormente il mondo del lavoro e che non è certo equo). Quest’ultima misura è emblematica del modo di intendere il sostegno del governo ai lavoratori che avviene, appunto, attraverso gli aumenti contrattuali di fatto decisi dai datori di lavoro e attraverso i premi di produttività. Come era prevedibile, invece, è sparita ogni forma di indicizzazione salariale che aveva subito generato la rivolta di Confindustria. Banche e Confindustria davvero non possono lamentarsi di Giorgia Meloni.

La legge di bilancio contiene però altri elementi bene chiari che vanno nella direzione del taglio della spesa sociale a favore del riarmo. Le spese per la difesa, infatti, già dal 2026 aumentano di 3,5 miliardi (in aggiunta ai 31 miliardi annui già destinati alla difesa) mentre le spese per la sanità pubblica crescono di appena 2,4 miliardi, quelle sociali di 1,6 miliardi e quelle per la sicurezza di 1,4 miliardi. Così, in una manovra per il 2026 di 21,5 miliardi, di cui 10 di tagli, la spesa militare si prende un settimo del totale.

Appare evidente che la Legge di bilancio ha come unico obiettivo quello di riportare il deficit al di sotto del 3% e uscire dalla procedura d’infrazione, operando tagli e inserendo misure che dovrebbero garantire benefici ma che in realtà sono di entità risibile e sostanzialmente ridotti a mere promesse, senza alcun provvedimento di carattere strutturale. Gli investimenti pubblici aggiuntivi, per il 2026, saranno nulli, agli Enti territoriali andranno appena 500 milioni in più mentre gli incentivi alle imprese ammonteranno a 3 miliardi. Alle altre voci di spesa saranno destinati gli ammontari già a budget: 5,8 miliardi a tutela del territorio e dei beni culturali, 14,9 miliardi per sviluppo e riequilibrio territoriale, 6,3 miliardi alle infrastrutture pubbliche, 4,3 miliardi per ricerca e innovazione, 3,5 miliardi per immigrazione e accoglienza, 3 miliardi per misure di tutela della salute, 700 milioni per la casa.

Certo, ci si può chiedere a cosa serve rientrare nel parametro del 3%. Forse, ad avere un punteggio migliore da parte delle agenzie di rating di proprietà dei grandi fondi Usa, anche se questo non serve a pagare meno interessi sul debito, visto che i rendimenti dei titoli di Stato italiani restano decisamente assai alti. La riduzione del deficit, peraltro, non serve nemmeno ad avere più risorse dall’Unione europea, visto che, tra poco, cesserà anche il Pnrr il cui unico risultato è stato quello di mantenere un tasso di crescita del PIL appena sopra lo zero e visto che il nostro paese continua a versare al bilancio europeo più di quanto riceva.

Perché, allora, questo feticismo del rigore che, di fatto, non consente neppure di adeguare la spesa pubblica all’inflazione? Giorgia Meloni, quando era all’opposizione, lanciava strali contro il Patto di stabilità e ora ne è diventata la più zelante sacerdotessa di rito draghiano.

Forse servirebbe una prospettiva politica che partisse da un dato ormai insostenibile: in Italia le entrate fiscali totali derivano per quasi il 40 % dai salari, mentre provengono dai profitti per meno del 5%: ciò avviene nonostante i profitti siano arrivati ad essere pari al 40% del Pil italiano, con un aumento in vent’anni di quasi 7 punti rispetto ai salari. Come afferma Alessandro Volpi, siamo il paese dello sceriffo di Nottingham dove alle banche e alle assicurazioni si chiede se, cortesemente, anticipino le tasse che non pagheranno in futuro, dimenticando i colossali profitti e, nel caso delle assicurazioni, non considerando che l’introduzione universale della polizza sulle calamità naturali è destinata a generare entrate per una cifra oscillante fra i 2 e i 4 miliardi di euro l’anno. Ma le tasse le paga il lavoro dipendente a cui il Patto di stabilità toglie il welfare.

Per chiudere, e a illustrazione di ciò, consideriamo due voci significative del welfare, la sanità e l’istruzione. Nel 2024, la spesa pubblica per la sanità in Italia è stata di circa 137,46 miliardi di euro, pari al 6.25% del PIL, posizionandosi al di sotto della media OCSE e europea. Nel 2025 essa è salita a 142,3 miliardi, il 6.3% del PIL. Se la spesa sanitaria crescerà, come detto, di 2,4 miliardi nel 2026, la percentuale sul PIL (ipotizzando una crescita del PIL nominale del 2.8%, secondo le indicazioni del governo), scenderà al 6.23% (ma, con un PIL che cresce meno la sua quota potrà salire al 6.3-6.4). Il rapporto tra spesa sanitaria e PIL resta dunque inferiore alla media OCSE (7,1%) e a quella europea (6,9%). L’Italia è al 14° posto in Europa per spesa sanitaria pubblica pro-capite tra i paesi OCSE.

Invece, la spesa pubblica per istruzione, inclusa quella terziaria, è stata nel 2024 il 7.3% della spesa pubblica totale e il 7.5% nel 2025, una percentuale inferiore alla media europea del 9,6%. A fronte di ciò, i fondi alle scuole paritarie private sono aumentati notevolmente, passando da circa 551 milioni di euro nel 2021 a oltre 750 milioni per il 2024/2025.

In definitiva, il Paese registra una produzione industriale che è in calo o stagnante, povertà in aumento, salari reali in calo, soprattutto per le professioni meno qualificate, disuguaglianze di reddito in aumento. Cosa fa questa manovra a riguardo? Nulla. Si preoccupa di rientrare dal deficit, fa a voce grossa con le banche e le assicurazioni, promette qualcosa e male alle imprese, non fa nulla per il lavoro. Come afferma Landini «Industria in crisi, governo assente». Nel solo 2024 il fatturato dell’industria italiana è calato di 42 miliardi rispetto all’anno prima, pari a 115 milioni di euro bruciati ogni giorno, con un -2,5% a prezzi costanti e -3,6% a valori correnti. A pesare è la domanda interna (-3%), mentre l’export arretra dell’1,7%. La produzione industriale è tornata così ai livelli del 2020 e l’indice manifatturiero segna da oltre trenta mesi valori negativi. Nei primi sei mesi del 2025 il ricorso agli ammortizzatori sociali è già cresciuto del 61% rispetto all’intero 2024.

Una manovra più che conservatrice, che privilegia i ceti più abbienti e un certo ceto medio, non tutto, che non si cura, come detto, di quanto ingiusto sia il nostro sistema fiscale, in cui vi sono ingiustizie “di classe” (per via delle flat tax sui redditi da capitale, i super ricchi pagano un’aliquota media addirittura inferiore al resto della popolazione), che “orizzontale” (grazie al regime forfettario, gli autonomi con un fatturato o compensi lordi inferiori a 85mila euro pagano molto meno dei lavoratori dipendenti). Da farci dire che questo governo deve andarsene, non solo perché simpatizzante degli autoritari e genocidari e in cuor suo autoritario esso stesso, ma perché sta facendo il male del Paese.

Pier Giorgio Ardeni

  1. In effetti, le cifre della spesa di competenza sono quelle impegnate e le spese di cassa sono quelle corrispondenti all’esborso effettivo, generalmente maggiori e registrate a posteriori.[]
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