Tra il 22 settembre e il 4 ottobre la mobilitazione in solidarietà alla Palestina ha registrato un notevole salto di qualità riscontrabile sia in termini di numeri di partecipanti alle diverse manifestazioni (e in parte anche di adesione allo sciopero) quanto alle caratteristiche dei partecipanti. Moltissimi giovani, ragazzi e ragazze, che finora erano rimasti lontani dai cortei come in generale da tutte le forme tradizionali di azione politica.
In precedenza l’unica iniziativa che aveva assunto una dimensione di massa, ma nemmeno lontanamente paragonabile con quella delle ultime settimane, era stata promossa da PD, 5 Stelle e AVS. Quelle organizzate dai gruppi politici, sindacali, di movimento che si occupano tradizionalmente della questione palestinese erano rimaste in buona parte rinchiuse dentro la nicchia militante senza riuscire ad attivare settori più larghi di opinione pubblica.
L’analisi e la riflessione dovranno provare a capire meglio che cosa ha determinato questo improvviso allargamento della partecipazione che ha di gran lunga strabordato da tutte le forze organizzate, anche quelle che dispongono ancora di una presenza radicata e strutturata come la CGIL. Evidentemente la prima ragione va ricondotta a ciò che accade a Gaza e in parte anche nella Cisgiordania occupata. Le dimensioni palesemente criminali e ingiustificabili dell’azione militare israeliana, in cui sempre più evidenti e denunciati sono gli intenti genocidari, ha alimentato un giusto sentimento di indignazione e di empatia per le vittime. Tanto più in presenza dell’inazione se non spesso della complicità dei governi occidentali, a partire da quello italiano.
L’organizzazione della flottiglia ha anche fornito un momento di coinvolgimento emotivo e politico che cercava di ovviare alla permanente sensazione di impotenza di chi ha assistito per mesi al tentativo di distruggere le condizioni minime di esistenza di un intero popolo. La forma dello sciopero ha ulteriormente rafforzato la convinzione di uscire dalla mera ripetizione di azioni generose ma inefficaci.
Quello che si è messo in moto non è solo un principio di umana empatia verso le sofferenze dei palestinesi di Gaza, ma qualcosa di più esteso e profondo. La convinzione che in questa vicenda siano in gioco principi e valori e importanti: una certa idea della giustizia, della solidarietà, dell’essere umani in un mondo per complicato e contraddittorio.
È sceso in campo un popolo di sinistra mosso da valori di sinistra al quale si è contrapposta tutta la destra politica. Attorno alla difesa del governo israeliano si è coagulato un insieme di idee, etnonazionalismo, sciovinismo, darwinismo sociale ed etnico, valorizzazione della forza come strumento ultimo di risoluzione dei conflitti, che sono parte dell’ascesa della destra autoritaria con elementi di fascismo che è il dato caratterizzante dell’attuale fase politica globale.
A questa la Presidente del Consiglio ha aggiunto quel repertorio di qualunquismo fascistoide che rappresenta la vera caratteristica di fondo della sua weltanschauung dalla quale, nonostante qualche tentativo di riverniciatura, non riesce ad emanciparsi.
Dall’altra parte le forze politiche di sinistra e progressiste, a volte con ritardo e, soprattutto nel caso del PD, con molte contraddizioni interne, si sono comunque andate schierando su una linea più netta di sostegno al popolo palestinese e di condanna della politica israeliana. Le posizioni centriste, a partire dai settori più apertamente filo-imperialisti del PD, hanno perso sempre più credibilità e ogni capacità di orientare settori importanti di opinione pubblica.
Attorno alla Palestina, più che su ogni altra questione politica, si è quindi determinata una polarizzazione destra-sinistra. Questo non implica affatto che tra chi è sceso in piazza, soprattutto tra i giovani, vi sia una identificazione con queste forze politiche, al contrario.
La polarizzazione valoriale ha mobilitato fortemente il mondo giovanile che ha dimostrato di essere tutt’altro che indifferente a ciò che accade, quando la realtà mette in gioco i fondamenti dell’essere civile. Indifferente era ed è, semmai, al politicantismo senza principi e ad una sinistra che spesso si è distinta dalla destra solo per la collocazione negli scranni parlamentari.
Difficile prevedere quale sarà l’impatto di tutto questo nel medio periodo e sarebbe illusorio pensare che ricada immediatamente e necessariamente sulla dimensione elettorale. Non era così nemmeno quando la partecipazione al voto raggiungeva il 90% degli aventi diritto ed è ancora più difficile che avvenga in un contesto in cui il 40-50% degli elettori, a seconda del tipo di elezione, non si presenta più ai seggi. I riferimenti del passato da questo punto di vista non ci danno alcuna garanzia anche perché non sappiamo ancora fino a che punto questa fiammata di mobilitazione si sedimenterà realmente nelle coscienze e diventerà fattore politico.
C’è uno scarto tra la “sinistra dei valori” che si è mobilitata, con determinazione e radicalità, in queste settimane e la sinistra dello spettro politico che è lontana dal darvi adeguata rappresentanza. Colmare questo scarto, in termini di progettualità e di agire quotidiano, mi sembra il compito posto dal movimento di solidarietà per la Palestina.
Chi pensa di ridurre l’irruzione sulla scena politica di milioni di persone secondo il metro minoritario della propria organizzazione, ombelico attorno a cui deve ruotare il mondo, o a rinchiuderla immediatamente in una manovra elettoralistica, non rende un buon servizio a questo possibile movimento allo “stato nascente”. Quando si muovono milioni di persone si apre una questione di potere che non può essere ridotta all’autorappresentazione identitaria.
Di potere e quindi anche di governo. La scadenza elettorale politica del 2027 avrà al centro la conferma o meno dell’attuale coalizione di destra, che diventerà tanto più pericolosa in quanto inserita in un’ascesa globale di forze reazionarie che sono definibili come parzialmente o interamente fasciste. La vicenda palestinese non può essere separata da questo contesto globale. Il governo Netanyahu (ma le forze di opposizione in Israele non differiscono di molto dato l’autoaffondamento politico al quale si è sottoposta la sinistra sionista ormai da decenni) si è posto come punto di riferimento di tutta la destra globale razzista, sciovinista, suprematista e fondamentalista e come tale va combattuto. La politica di solidarietà col popolo palestinese, dentro una visione universalista e di contrasto all’ascesa globale dell’estrema destra, dovrà essere uno degli elementi per la costruzione di una fronte democratico-costituzionale in grado di sconfiggere la destra italiana di Meloni-Salvini-Gasparri.
Se questo è l’elemento più direttamente politico e interno da trarre dalla mobilitazione di queste settimane è anche necessario valutare l’atteggiamento più corretto e più rispettoso dell’autonomia del popolo palestinese in una fase che potrebbe modificarsi sensibilmente già nelle prossime settimane. Nel momento in cui Israele fosse costretto a interrompere o almeno attenuare fortemente la sua azione genocidaria e a rinunciare al disegno di pulizia etnica di Gaza, il rischio è che il movimento di solidarietà ritorni a dimensioni di nicchia.
Per questo occorre definire un giudizio politico sul piano Trump e mettere a punto una proposta che impegni l’Italia a svolgere sul conflitto in Palestina una funzione del tutto alternativa a quella esercitata dal governo Meloni.
Si sono lette molte e giustificate critiche al piano Trump, da parte di intellettuali autorevoli (ma anche in genere lontani da Gaza) che ne hanno evidenziato tutti gli aspetti negativi. Questi sono riassumibili nella mancata soluzione complessiva della questione palestinese dato che non tocca nel dettaglio la situazione della Cisgiordania occupata, se non un generico riferimento all’autodeterminazione dei palestinesi, l’impronta colonialista connessa alla creazione di una sorta di protettorato su Gaza che ci rimanda al mandato britannico degli anni venti e la palese differenza di trattamento tra ciò che si chiede ai palestinesi, le vittime dell’occupazione, rispetto a ciò che si chiede agli israeliani, ovvero l’occupante.
Esistono degli evidenti paradossi perché anche chi chiede lo svolgimento di elezioni nei territori palestinesi occupati pone come condizione alla partecipazione alla competizione elettorale due condizioni: il riconoscimento dello stato israeliano a fianco di quello palestinese e la rinuncia al ricorso alla violenza nei confronti dell’altra parte. Se si applicasse lo stesso criterio alle elezioni israeliane si potrebbero presentare al voto solo i comunisti.
Il piano di Trump, che prima lo ha confrontato con diversi stati arabi e islamici e poi lo ha rivisto con Netanyahu che è riuscito ad alterarlo profondamente a suo favore, al punto che gli stati che avevano partecipato alla prima parte della trattativa lo hanno disconosciuto, non è qualcosa che si debba accettare o respingere, ma è solo il possibile inizio di una nuova fase di confronto politico sul destino dei palestinesi.
Intanto può interrompere il genocidio e impedire che si continuino ad uccidere 100-200 palestinesi ogni giorno, di cui un terzo bambini. Non lo considererei un dettaglio marginale. Di fronte ad un genocidio il primo obbiettivo deve essere la sua interruzione.
Su questo esito possibile operano spinte diverse e convergenti. Quella di Trump non può essere considerata una pura operazione propagandistica di facciata. Il Presidente USA ha di fronte due problemi politici di un certo rilievo che la continuazione dell’aggressione israeliana rischierebbe di aggravare. Il primo è interno e riguarda la frattura in atto nel mondo MAGA nei confronti del continuo sostegno ad Israele. Personaggi come Tucker Carlson, ex conduttore di Fox News, o la deputata Marjorie Taylor Green hanno aperto una polemica frontale contro il sostegno a Israele e l’influenza della lobby pro-israeliana organizzata in AIPAC. Lo stesso assassinio di Charlie Kirk ha sollevato onde di cospirazionismo al punto che Netanyahu ha dovuto smentire che Israele fosse il burattinaio alle spalle dell’omicida. Fra i giovani repubblicani cresce il sentimento critico nei confronti di Israele.
All’esterno Trump ha visto messi a rischio i rapporti con importanti paesi arabi e islamici, in particolare quelli del Golfo, che dispongono di ingenti risorse economiche che interessano al presidente USA sia per ragioni politiche che di arricchimento personale e familiare.
Nel mondo arabo e islamico si sono ridefiniti i rapporti di forza tra le componenti più radicali, il cosiddetto asse di resistenza attorno all’Iran, che si sono decisamente indebolite e quei paesi che sono pienamente inseriti nel contesto economico globale nel quale cercano di svolgere un ruolo che non sia di puro comprimariato. Paesi che vedevano crescere un’insoddisfazione dell’opinione pubblica che non potevano continuare a comprimere all’infinito con mere operazioni di facciata, come l’Egitto e la Turchia. Questi vogliono arrivare ad una qualche soluzione politica permanente che non cancelli i palestinesi e non lasci mano libera al militarismo israeliano.
In questo quadro anche Hamas ha dovuto fare i conti con la situazione che si è creata. L’operazione del 7 ottobre, che ha offerto l’occasione a Israele per tentare di chiudere definitivamente la partita con i palestinesi, è stata dal punto di vista dello stesso movimento israeliano un “catastrofico successo”. Sbagliata l’idea che gli ostaggi frenassero la risposta militare israeliana dato che Netanyahu li ha subito considerati sacrificabili. Infranta l’illusione che una reazione militare basata su azioni di guerriglia potesse costringere l’esercito israeliano ad arrestare la sua avanzata. Lo stesso per il supporto militare che poteva venire da Hezbollah o l’Iran.
La situazione aperta dalle trattive in corso dovrebbe essere vista come una opportunità per la società palestinese per riaprire una prospettiva che sembrava chiusa dopo il 7 ottobre e che si è riaperta per l’arroganza criminale e il razzismo sfacciato che domina la società israeliana tradottasi nel sostegno all’azione militare genocidaria del suo esercito.
Probabilmente Hamas dovrà prendere atto che perseguire il terreno dello scontro militare è molto più dannoso che utile al processo di liberazione palestinese e che è indispensabile realizzare una ricomposizione unitaria del fronte interno superando il conflitto con l’Autorità palestinese, la quale anch’essa dovrà mettersi in discussione. Mi pare questa la posizione che sostengono i settori politicamente più avanzati della società palestinese.
Il movimento di solidarietà in Italia che in queste settimane, per la sua ampiezza e le sue caratteristiche, è diventato un punto di riferimento anche per altri paesi, dovrebbe anche saper guardare alle opportunità politiche che si aprono con la possibile interruzione (si spera permanente) del genocidio in atto senza farsi egemonizzare da quei settori, per fortuna molto minoritari, sempre pronti ad inneggiare alla retorica rivoluzionaria, purché a pagarne il prezzo sia poi qualcun altro. Che è poi solo un’altra faccia della mentalità coloniale.
Franco Ferrari