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Gaza chiama, finalmente anche Berlino risponde

di Paola
Giaculli

Anche a Berlino si è aperta una breccia nella barriera di cinismo, disumana indifferenza e ostinazione cristallizata in una assurda ragione di stato (Staatsräson) che impone solidarietà incondizionata allo stato di Israele. Una marea di persone ha dimostrato anche in Germania la distanza siderale tra opinione pubblica, governo e informazione mainstream. A rappresentare quell’80 % di cittadine e cittadini che si oppongono al massacro che Israele compie a Gaza e a chiedere che si fermi, chiamandolo per quello che è, il genocidio, sabato 27 settembre sono scese in piazza oltre 100.000 persone, dando vita alla manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese fino a questo momento più imponente in Germania, un evento, pur nella drammaticità della motivazione, anche liberatorio. Soprattutto per le voci palestinesi di una diaspora, in Germania la maggiore d’Europa (200.000, di cui un quinto a Berlino), che ha sofferto in silenzio per lunghi decenni, temendo di essere trattata alla stregua di terroristi, o come antisemiti, ché così sono definiti quanti non si riconoscono nel dogma della fedeltà allo stato che li opprime, li uccide e li caccia dalla propria terra. Finalmente gli esponenti di questa comunità si sono presi la scena, intervenendo numerosi anche dal palco, esponendo la propria condizione, le proprie vite, le perdite, anche di familiari, nel massacro in corso o in attacchi precedenti da parte di Israele a Gaza. Toccante la testimonianza di Iman Abu El Qonsam, una ingegnere, tra gli iniziatori della manifestazione, che ha perso 80 membri della sua famiglia. Chi è nato e cresciuto in Germania ha confessato di non sentirsi accettat@ nella terra di cui parla la lingua, mentre allo stesso tempo la terra di provenienza della propria famiglia è un miraggio lontano. Jules El Khatib, di professione insegnante superiore ed ex presidente della Linke del Nordreno Vestfalia, fuoriuscito dal partito nell’aprile 2023, anche lui tra i sostenitori principali della manifestazione e primi firmatari dell’appello Zusammen für Gaza, Insieme per Gaza, si toglie un peso che sembra un macigno: “Oggi abbiamo fatto la storia, abbiamo fatto vedere alla Germania che ci ribelliamo al genocidio, contro le diffamazioni subite quotidianamente, e che la maggioranza di questo paese rifiuta la politica del governo. Se noi palestinesi abbiamo imparato qualcosa in questo genocidio, è che i nostri alleati non siedono nei palazzi, i nostri veri alleati scendono in piazza e attaccano il governo…questo non è che l’inizio, non ci fermeremo finché il genocidio non sarà fermato e non finirà la politica di occupazione… Noi palestinesi sappiamo bene che quelli che fin dal primo giorno sono stati al nostro fianco sono ebrei ed ebree coraggiosi che in tutto il mondo hanno gridato ‘questo genocidio non è in nostro nome’- gli ebrei non saranno mai i nostri nemici!”.
Finalmente con i corpi dei palestinesi si fanno strada anche i nomi delle vittime, disumanizzate al punto di non essere mai avvistate dai radar dell’informazione e della politica. “Abbiamo sofferto due volte in tutti questi anni: in e per Gaza e in Germania per essere stati lungamente ignorati, ora non deve essere più possibile, dice il rappresentante di medico international, Riad Othman, che si chiede se il lavoro sporco a cui si riferiva il cancelliere Merz sia anche il genocidio ad opera di Israele. Forti accuse vengono lanciate in tutti gli interventi al governo tedesco per la sua complicità e la doppia morale, anche in quello della rappresentante di Amnesty International Katja Müller-Fahlbusch, come un grazie caloroso è rivolto alle decine di migliaia di manifestanti che stavolta ”non si sono fatti intimidire”. Da molte parti risuona l’esortazione a fare come in Italia, bloccare tutto, anche se in Germania, sembra ancor più complicato visto che lo sciopero generale non è garantito costituzionalmente. Presente un equipaggio di terra della Global Sumud Flotilla di cui in Germania non si fa praticamente menzione, nonostante vi siano 15 cittadini/e tedeschi/e a bordo, di cui il governo tedesco non si è minimamente curato di proteggere.

L’appello e la mobilitazione

Insieme alla comunità palestinese sono circa 50, tra cui anche Attac, Fridays for Future, Pax Christi, Israeli for Peace, “sindacati per Gaza” (gewerkschafter4Gaza) e svariate associazioni per i diritti dei migranti, le sigle di organizzazioni che hanno condiviso la piattaforma che tra le altre rivendicazioni contiene l’immediato cessate il fuoco, l’ingresso degli aiuti umanitari, l’interruzione dell’invio di armi e della collaborazione militare della Germania con Israele (compreso transito e importazione di armi), la sospensione dell’accordo di cooperazione economica, la fine dell’occupazione illegale dei territori palestinesi, l’autodeterminazione e l’uguaglianza dei diritti del popolo palestinese, il rilascio di “tutte le vittime di crimini di guerra e dei prigionieri illegalmente detenuti nelle carceri israeliane”  e non in ultimo il rispetto della libertà di opinione e la non criminalizzazione della solidarietà con la Palestina, duramente repressa in Germania sia negli eventi culturali, accademici, tramite censura diretta o costringendo all’autocensura per il timore di perdere sovvenzioni o il posto di lavoro, sia in maniera brutale dalle forze dell’ordine in piazza e nelle università. Una situazione, questa, che ha portato ebrei ed ebree contro il genocidio, fermate dalla polizia durante le proteste, ad accusare le autorità tedesche di antisemitismo, sì, ma nei loro confronti.  Contemporaneamente alla grande manifestazione, in cui la polizia si è tenuta a distanza, è stata addirittura repressa un’altra protesta del tutto pacifica che non aveva aderito all’appello centrale: da qui è partita la solidarietà della piazza grande “non ci faremo dividere!”.
Sono innanzitutto personalità della comunità palestinese e professionisti della musica come Michael Barenboim, instancabile attivista per la causa palestinese, gli artefici originari della mobilitazione, che con Amnesty International e medico international, organizzazione umanitaria, hanno indetto con All Eyes on Gaza un concerto punteggiato di interventi, sostenuto inoltre da molteplici personalità, anche autori israeliani dissidenti e in “esilio” a Berlino e intellettuali tra i quali spiccano i ricercatori Omer Bartov, Amos Goldberg ed Enzo Traverso. Barenboim ha denunciato dal palco “l’intenzione di Israele di annientare il passato, il presente e il futuro del popolo palestinese” già dalle prime affermazioni genocidarie dopo il 7 ottobre, mentre la porta di Brandeburgo si illuminava con i colori della bandiera israeliana e l’allora cancelliere Scholz dichiarava che “per la Germania c’era un solo posto dove stare: al fianco di Israele”. Barenboim ricorda gli obblighi che legano la Germania alla Convenzione sul genocidio, che già si è resa complice di questo crimine, chiedendo a gran voce che “i responsabili vengano chiamati a rispondere. Non ci fermeremo finché ciò non accadrà”. E si tornerà di nuovo in piazza l’11 ottobre.

La ragione di stato ormai indifendibile. La Linke di fronte alla coerenza politica

Organizzativamente parlando l’evento di All Eyes on Gaza è diventato poi la meta a conclusione della manifestazione-corteo di Insieme per Gaza, di cui la Linke ha garantito il supporto organizzativo. Il partito, la cui co-presidente Ines Schwerdtner ha sottoscritto l’appello, aveva quindi mobilitato in toto gli iscritti. In realtà questo è il risultato soprattutto della pressione della base e dei simpatizzanti del partito che troppo a lungo ha esitato ad esprimere il giusto sdegno e che mai, nel corso di questi ultimi due anni, aveva aderito ad una manifestazione contro il genocidio. Anzi, si è manifestata sempre una certa ritrosia anche nei confronti di questo termine, a dimostrazione che parte della Linke ancora è fortemente condizionata dalla ragione di stato, e in tempi recentissimi, a ridosso della manifestazione di sabato, alcuni suoi esponenti, incluso il co-presidente Jan van Aken e la direzione avevano preso le distanze, influenzati da media diffamatori, da iniziative di base. Sarà interessante vedere come si svilupperà il dibattito interno dopo la manifestazione, a fronte del raddoppio delle adesioni (molto giovani) al partito nei primi mesi dell’anno (fino a 120.000 iscritti), se e cosa le nuove adesioni, la cui mobilitazione ha portato alla vittoria elettorale del 23 febbraio scorso insieme ai nuovi membri del gruppo al Bundestag (64 totali, composto per circa due terzi da neoeletti) riusciranno ad apportare, al di là delle strategie di comunicazione fondate sull’esclusione di analisi globali e di prese di posizione su argomenti considerati “scottanti” come guerra e pace, e Israele/Palestina. Intanto per i parlamentari nuovi, molti giovani, con interessanti profili inseriti nel mondo del lavoro e nelle comunità migranti, sembra che il “periodo di prova” sia finito: tre giovani deputate e un giovane deputato “valorosi” hanno esposto la bandiera palestinese in plenaria la scorsa settimana. Con l’evidente disappunto di qualche “vecchio” del gruppo e tra il clamore del Bundestag che è loro valso un indignato richiamo e l’espulsione dall’aula.

Paola Giaculli

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