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Fermare il genocidio a Gaza è il primo obbiettivo

di Franco
Ferrari

In queste ore Hamas sta decidendo se accettare il “piano” presentato nei giorni scorsi da Trump dopo l’incontro con il primo ministro israeliano Netanyahu, così come viene sollecitato a fare da diversi Stati arabi con i quali mantiene rapporti politici come il Qatar, l’Egitto e anche la Turchia di Erdogan, l’unica leadership affine all’ideologia dei Fratelli Musulmani, che si è unita al team dei mediatori.

Il “piano” del Presidente statunitense, come è stato già ampiamente rilevato è del tutto sbilanciato verso la posizione del governo israeliano, vago in molti dettagli e tale da presentare una notevole dose di contraddizioni che lo rendono, così com’è, difficilmente realizzabile.

Diverse sono le ragioni che hanno spinto Trump a presentarlo (a parte la sua aspirazione a ricevere il premio Nobel per la Pace) e sono sia di ordine interno che internazionale. Il genocidio in corso a Gaza e il delirio di onnipotenza israeliano, che nell’arco di pochi mesi ha bombardato quasi tutte le capitali arabe, cominciava ad avere ricadute politiche importanti sugli interessi statunitensi. All’interno, il significativo spostamento dell’opinione pubblica USA dalla difesa acritica di Israele alla simpatia per i palestinesi comincia a intaccare anche la compattezza della base MAGA.

All’esterno l’ultimo atto criminale israeliano, il bombardamento a Doha, nel Qatar, per eliminare la dirigenza di Hamas impegnata a discutere una proposta di mediazione americana, ha spinto i paesi arabi e, soprattutto, i ricchi paesi del Golfo, a pensare ad un riallineamento della loro strategia globale. L’Arabia Saudita ha siglato un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, unico Stato musulmano a disporre della bomba atomica, ed è cominciata a circolare insistentemente l’idea di una sorta di NATO araba per difendersi da Israele. Per Trump l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati e gli altri paesi vicini sono un interlocutore prioritario perché garantiscono acquisti di armi, promesse di investimenti e anche affari lucrosi per la famiglia del Presidente.

Quasi certamente a questi obbiettivi se ne deve aggiungere un altro: sottrarre alle Nazioni Unite quel ruolo che, a seguito della dichiarazione di New York e dell’iniziativa franco-saudita, poteva iniziare ad assumere in presenza del permanente sostegno di Washington al genocidio di Gaza.

Il “piano” riprende il delirio immobiliarista sulla “Riviera” del Mediterraneo, pur in modo più sfumato, ma ha dovuto tener conto di alcune delle richieste che costituivano la base minima accettabile per i paesi del Golfo e altri paesi del mondo islamico. Anche se da diversi governi (quello egiziano in privato, quello qatarino in pubblico) sono già state formulate richieste di chiarire “dettagli” che spesso non riguardano affatto questioni marginali, resta comunque un sostegno dichiarato alla proposta.

I venti punti del “piano” (prima dell’incontro con Netanyahu dovevano essere ventuno) sono sicuramente sbilanciati a favore di Israele e ripropongono una visione colonialista del rapporto tra i “bianchi” e i palestinesi. Mentre ad Hamas vengono rivolte richieste ultimative (consegna immediata degli ostaggi, disarmo, esilio dei dirigenti, nessun ruolo politico futuro) per gli israeliani si tratta per lo più di indicazioni vaghe, prive di tempistica e subordinate a valutazioni di cui sono gli unici giudici.

D’altra parte la proposta trumpiana rompe anche con quella velata ipocrisia che gli Stati Uniti avevano sempre cercato di mantenere: realizzare accordi di pace che scaturivano da una trattiva tra le due parti in campo. In realtà gli Stati Uniti non sono mai stati dei mediatori onesti e hanno quasi sempre fatto pressione solo sulla parte palestinese affinché accettasse accordi che lasciavano alla parte israeliana ampio margine di manovra per disattendere quegli stessi accordi.

Difficile chiamare “piano di pace” un documento che nasce da un’intesa tra uno Stato impegnato in una guerra di sterminio di un popolo e l’altro Stato che gli consente, con armi, finanziamento e supporto internazionale, di condurre quella guerra senza alcuna remora morale e politica.

In ogni caso a sostegno del “piano” di Trump si è subito levato un coro di approvazione internazionale, compreso da coloro che, come la Francia e l’Arabia saudita, avevano proposto una ipotesi di soluzione politica che, per quanto non priva di aspetti problematici, provava comunque a considerare israeliani e palestinesi soggetti di diritto internazionale allo stesso livello. La “Dichiarazione di New York”, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si proponeva una soluzione complessiva e in qualche misura definitiva della questione palestinese rilanciando la prospettiva dei due Stati confinanti. Nel testo trumpiano, la prospettiva della statualità palestinese è rimandata ancora ad un incerto futuro e si basa sul principio che è l’oppresso a dover continuamente dimostrare di meritarsi il “dono” di uno Stato, mentre all’occupante non si chiede nulla.

Come mai, con poche eccezioni, si è espresso questo corale sostegno al piano Usa? Fondamentalmente perché tutto il resto del mondo dichiara di non avere né la forza, né la volontà di fermare Israele e accetta che questo potere resti in capo agli Stati Uniti. D’altra parte molti governi sono preoccupati dal crescere di un’ondata di sdegno dell’opinione pubblica e di mobilitazione che ne mette in luce le complicità o l’ipocrisia. Quindi privilegiano una soluzione che comunque interrompa il genocidio, almeno nella sua forma più brutale.

Come sua abitudine, Netanyahu si è presentato al fianco di Trump presentandosi come il vincitore assoluto della guerra e nelle ore immediatamente successive ha cominciato a smentire la disponibilità a rispettare anche quelle poche e non ultimative richieste che il “piano” prevede per Israele. Quindi, niente ritiro completo da Gaza e niente riconoscimento del diritto dei palestinesi ad un proprio Stato. Anche le parole contenute nel testo che riconoscono “autodeterminazione e sovranità” come aspirazioni del popolo palestinese, sono indigeste per gran parte delle forze politiche israeliane e non solo quelle dell’estrema destra più scopertamente fascista e razzista. Per Israele un “popolo palestinese” non esiste e non è mai esistito, al massimo esistono degli “arabi” che in quanto tali possono trovare collocazione in qualsiasi altro Stato “arabo”. In più Netanyahu ha approvato una legge che stabilisce che nel territorio palestinese solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione.

Come prevedibile, date le divisioni che attraversano il mondo palestinese, diverse sono le reazioni al “piano”. Da parte dell’Autorità palestinese e di Fatah che è la principale forza che lo sostiene la risposta è favorevole. Questa parte ha accettato una prospettiva che si basa sulla soluzione dei due Stati, nella quale ai palestinesi sono riconosciuti i territori occupati nel 1967, compresa Gerusalemme est, e il suo raggiungimento senza ricorso alla violenza. In questa situazione considera positivamente l’isolamento israeliano sulla scena internazionale e la ripresa di iniziativa di alcuni paesi arabi sulla questione palestinese.

Se Israele aveva potuto sfruttare l’esito del 7 ottobre per riproporre il suo ruolo di vittima incolpevole, il comportamento successivo ha dimostrato apertamente la natura oppressiva nonché brutalmente e cinicamente violenta della sua azione. Questo riapre una prospettiva che sembrava si stesse chiudendo con i cosiddetti “patti di Abramo”. La possibile adesione dell’Arabia Saudita a queste intese volute da Trump nel suo primo mandato, sembrava mettere una pietra tombale sulle aspirazioni palestinesi.

In questo contesto che cosa può fare Hamas? Al momento di scrivere non è ancora nota la sua risposta ma non si può escludere una sua accettazione dell’intesa. Il Movimento è un’organizzazione con una base di massa, soprattutto a Gaza, alla quale deve rispondere. Nonostante la retorica sul “diluvio di Al Aqsa”, quanto rimane del suo gruppo dirigente è ben consapevole dei rapporti di forza nei quali si trova ad agire. Anche in questi giorni dimostra di non avere la forza militare per imporre perdite significative all’esercito di occupazione. Gran parte di quello che veniva definito come “asse di resistenza”, a guida islamista, è fortemente indebolito perché contrariamente alle illusioni che si era fatto (soprattutto su Hezbollah e l’Iran) non è in grado di reggere la differenza di potenziale militare con Israele. E Teheran attraversa una fase difficile anche sul piano interno per gli effetti della crisi economica e dell’insoddisfazione crescente per l’autoritarismo del potere clericale.

La prima condizione per mantenere aperta la prospettiva di liberazione per il popolo palestinese è la sua permanenza sul territorio della Palestina. Questo è l’ostacolo ineliminabile che si trova di fronte il sionismo e che apre continue contraddizioni nella società israeliana anche quando questa sembra compatta a sostegno delle posizioni più oltranziste.

Il sionismo di sinistra ha spesso affrontato il tema palestinese raccontandosi leggende e realtà alternative (“una terra senza popolo per un popolo senza terra”, gli arabi arretrati che accolgono favorevolmente chi gli porta la civiltà, ecc.); il sionismo di destra, nato dal brodo di cultura del fascismo europeo degli anni ’30, ha invece sempre saputo che il problema palestinese, definito come “arabo” per non dover riconoscere l’esistenza di un’altra identità nazionale, si poteva risolvere solo con la violenza. Perché, spiegava Zabotinskij gli “arabi”, non avrebbero mai accettato di farsi espropriare dalla propria terra. In questa logica però non basta la violenza, occorre anche dimostrare che la violenza è enormemente spropositata per convincere dell’impossibilità di sconfiggere il potere israeliano.

Gli israeliani hanno più volte pensato di aver risolto per sempre il problema palestinese ma questo si è sempre ripresentato. Ci fu la Nakba nel ’48, ma l’assetto emerso da quel conflitto venne alterato dall’occupazione del rimanente territorio palestinese nel ’67. Alcuni israeliani videro lucidamente che quel passaggio, lungi dall’essere un grande trionfo come credevano molti, sarebbe stato l’inizio di una tragedia senza sbocco per gli stessi ebrei israeliani.

Se si legge quanto accadde con la sconfitta dell’OLP a Beirut nel 1982 (si legga, ad esempio, il libro di Rashid Kailidi, “Palestina”, storico ma anche testimone degli avvenimenti) che costrinse Arafat e i palestinesi a lasciare il Libano e trovare rifugio nella lontanissima Tunisia, sembrava allora che la vicenda palestinese fosse stata definitivamente regolata da Israele, anche grazie al massacro di Sabra e Chatila. Arafat sembrava definitivamente fuori gioco e invece riuscì a rientrare, seppure in condizioni difficili, nella propria terra.

Qualche anno dopo la sconfitta di Beirut arrivò infatti l’intifada che fu una ribellione politica di massa tale da costringere una parte della leadership israeliana a cercare un accordo che, senza in realtà accettare onestamente la nascita di uno Stato palestinese, doveva comunque subire l’esistenza del popolo palestinese come condizione ineliminabile.

Ora il primo obbiettivo del popolo palestinese è quello di sfuggire alla morsa genocida di Israele. Il cui vero fine non è l’eliminazione di Hamas quanto la realizzazione della “Grande Israele”, mito fondamentalista e suprematista che oggi sembra realizzabile nel contesto di una ascesa globale dell’estrema destra con elementi di fascismo. Fermare innanzitutto il genocidio e poi impedire la realizzazione della “Grande Israele”, sembrano le due condizioni necessarie per tenere aperta una prospettiva di liberazione e di pace per il popolo palestinese.

Franco Ferrari

 

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