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Diplomazia e Internazionalismo. I poli della complessità

di Stefano
Galieni

Ha suscitato numerose polemiche la decisione del Presidente dell’ANP, Abu Mazen, di accettare l’invito della Presidente  Giorgia Meloni alla festa “Atreju” del proprio partito. Al di là del fatto che si è trattato di una kermesse in cui si sono abilmente mescolati, in chiave nazional popolare, personalità politiche di vario orientamento e che si sono alternate a star televisive o del mondo dello spettacolo, forse, prima di esprimere giudizi affrettati, si dovrebbe provare a ragionare del sottotraccia che emerge da inviti e partecipazioni a taluni eventi. La destra da tempo ha scelto di seppellire nelle proprie iniziative, magari territoriali, tutta la propria paccottiglia nostalgica e si presenta con un’immagine di forza democratica che accetta il confronto e il dialogo, salvo poi inciampare nel rifiuto di accettare contestazioni. In tale contesto è capace di invitare esponenti della destra israeliana, financo un ostaggio del 7 ottobre e poi, tributando applausi il Presidente Abu Mazen. Queste kermesse, vale anche per appuntamenti simili organizzati da altri partiti, si pensi alla “Leopolda”, hanno modificato la propria ragione sociale. Servono sì a cementare un progetto politico ma sono soprattutto divenuti i luoghi in cui rendere  pubbliche la costruzione di relazioni, a volte anche apparentemente poco comprensibili ma in grado, in futuro, di determinare accordi su questioni specifiche in contesti politici e istituzionali.
E, ad avviso di chi scrive, si sbaglia nel ritenere un danno alla causa palestinese, e al movimento di solidarietà che è sorto intorno a questa, l’aver accettato tale invito. Il Presidente è estremamente consapevole di aver dovuto subire un piano coloniale che sembra non avere sbocchi come quello imposto da Trump, Netanyahu, i silenziosi paesi UE e i sedicenti fratelli arabi. Il voto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con l’astensione di Russia e Cina, seppure il piano abbia subito lievi modifiche, va interpretato come un colpo di grazia. Nessuna delle forze della resistenza e del movimento di liberazione in Cisgiordania come a Gaza, ha minimamente reagito. In tale contesto, l’unico spiraglio è offerto dalla cosiddetta “fase 2” del piano, quella che dovrebbe vedere  il ritiro (?) dell’Idf e l’arrivo di forze multinazionali di pace e di interposizione. Dall’ANP e più ancora dall’OLP è partita una contro offensiva diplomatica, con l’obiettivo di tornare a trattare per un obiettivo ad oggi impossibile come la costituzione di uno Stato di Palestina entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est per capitale. Diviene obbligatorio dialogare anche con chi, come il governo italiano, si è dimostrato fra i più fedeli alleati di quello sionista, provando a strappare promesse. La richiesta è quella di avere una forte presenza di militari italiani soprattutto a Gaza e il riconoscimento, anche da parte italiana, prima che il processo si concluda, dello Stato di Palestina. Meloni ad Atreju si è dimostrata su entrambi i fronti più possibilista che in passato aprendo spiragli, Abu Mazen ha garantito una profonda riforma dell’ANP, partendo dalle elezioni fino alla riduzione del potere di Hamas ma il tutto si gioca su equilibri instabili e fragili. Da questo, nonostante i tanti fastidi, ci si deve rassegnare al fatto che l’invito doveva essere accolto. Del resto l’offensiva diplomatica di OLP e ANP continuerà anche in maniera spregiudicata, continuerà il percorso di costruzione di un’Alleanza internazionale per la Palestina che poggia sulle sinistre in Europa e il Presidente si prepara, per gennaio a recarsi in gennaio a Mosca per costruire un asse più forte con la Russia. Il Presidente dell’ANP ha, nel corso degli incontri avuti poi con le forze di opposizione, ha apprezzato fortemente il ruolo svolto dai movimenti solidali italiani in merito a quanto accaduto e accade ancora a Gaza e in Cisgiordania. Anche per tale ragione ha chiesto espressamente la presenza di forze italiane in un’opera di auspicabili pacificazioni.
Ma una parte dei movimenti solidali ha, anche giustamente, sollevato dubbi e perplessità rispetto a tale scelta, in alcuni casi anche con toni e modalità estremamente forti. Forse sarebbe il caso di accettare la complessità del fatto che un’azione diplomatica debba rispondere a codici diversi, da quelli della solidarietà internazionalista. La presenza nelle piazze non è certo messa in discussione perché quello che è il principale avversario nella politica interna italiana, svolga incontri, anche fuori dai contesti dovuti, con quelli che sono ad oggi gli esponenti politici di cui, il soggetto per cui ci si batte, sono in parte i rappresentanti. C’è chi comprensibilmente, anche nel mondo variegato della diaspora, in questo caso palestinese, in Italia, non considera interlocutori credibili, i dirigenti dell’ANP o la vecchia guardia dell’OLP. C’è chi si augura che, con la liberazione di alcuni detenuti politici, in primis, Marwan Barghouti, questa vecchia guardia venga spazzata via da esponenti meno discussi e che godono di maggiore autorevolezza. Ma intanto? Ed in questo “intanto” c’è uno dei fattori fondanti della complessità di cui sopra. 

Un movimento che intenda praticare reale solidarietà internazionalista deve accettare alcuni principi: in primis il fatto che il popolo, la causa, con cui intende schierarsi, ha proprie articolazioni politiche, economiche, sociali che debbono essere rispettate. Non si può divenire “tifosi” di una componente considerata quella più vicina alle proprie istanze e, in base a questo assumerne la stessa linea. In Palestina convivono e a volte si scontrano fra loro forze della sinistra e di destra, laiche e religiose, che operano perché non si perda un orizzonte di conflitto di classe e che invece fanno parte di un notabilato potente fondato su grandi famiglie che hanno alle spalle anche ricchezze. Ma l’obiettivo oggi è comune, quello della liberazione della Palestina, quello di uscire da una condizione di subalternità ai voleri delle grandi potenze internazionali che tentano di agire ancora con modalità coloniali. Per raggiungere l’obiettivo ogni strumento è utile, dalla resistenza armata alla diplomazia, ma questo è un compito che attiene alla pluralità e alla ricchezza del tessuto palestinese. Ai movimenti occidentali spetta il ruolo di combattere contro i propri governi affinché il loro agire non nuoccia a tale causa. In Italia abbiamo una compagine di governo, nonché un’area apparentemente progressista, un mondo intellettuale ed economico che non intende minimamente contribuire alla nascita di uno Stato di Palestina. Ed è contro questo mondo che si dovrebbe continuare a lanciare strali, rendendo peraltro evidenti i nessi fra le economie di guerra e di potenza applicate in quelle terre e l’autoritarismo liberista che si pratica qui. Se esponenti di diversi partiti presentano ddl simili per equiparare antisemitismo e antisionismo, forzando in maniera indegna la storia e definendo i meccanismi per stroncare la solidarietà con la Palestina, quella ad esempio messa in atto dalle flotille  o dai portuali del “blocchiamo tutto”, dal Bds eccetera, questo deve essere il campo di azione.
Anche pensare di poter decidere la forma che potrà prendere un auspicabile Stato di Palestina, non rientra fra i compiti dei movimenti solidali e, si lasci dire, invocare dalla serenità di una propria cameretta come da una piazza in cui non si viene falciati dalle mitragliatrici,“l’intifada fino alla vittoria” come la “Palestina libera, dal fiume fino al mare” è un esercizio, comprensibile ma che poco tiene conto dei desiderata di chi a quel genocidio oggi intende non solo sopravvivere ma contrapporsi per realizzare un altro processo storico.
In occidente, invece, anche lasciandosi prendere dalla frammentazione politica, non solo in Palestina ma, soprattutto, nella diaspora, si arriva ad accusare il Presidente Abu Mazen di “collaborazionismo” con Israele, si identifica tutto il preesistente – fatte salvo le persone detenute – con un coacervo di corruzione e debolezza. Si esprimono giudizi lapidari quando si potrebbero dedicare molte più energie, nell’ampliare qui il fronte di lotta, ad operare, come fa dal carcere Marwan Barghouti, ma come fanno anche  molti dirigenti politici più criticati ma nel pieno del vortice, a realizzare una reale unità del popolo palestinese contro la potenza occupante e i suoi miseri complici. 

Il movimento che si è creato attorno ai destini del popolo palestinese e al suo sacrosanto diritto all’autodeterminazione, ha ricordato, per ampiezza e spessore, quello che a suo tempo si realizzò, con un contesto molto diverso, durante la guerra in Vietnam. E già allora in molti si offrirono di andare a combattere a fianco dei Vietcong, contro l’imperialismo Usa e i dirigenti politici dell’allora Vietnam del Sud. Nei primi giorni di maggio del 1965, una delegazione dell’allora PCI, guidata da Giancarlo Pajetta, incontrò ad Hanoi il Presidente Ho Chi Minh che, all’offerta di avere uomini per combattere fianco a fianco con l’esercito di liberazione rispose serenamente dicendo che il miglior modo per aiutare il suo Paese era quello di contribuire alla crescita della solidarietà internazionalista e alla lotta di classe nel proprio. Altri tempi e altro scenario, ma simile contesto di guerra coloniale. Il popolo oppresso da sostenere ha volti diversi, alcuni dei quali non corrispondono all’ideale di un’estetica rivoluzionaria, ma proprio per questo vale la pena, mentre si manifesta insieme, comprenderne meglio le articolazioni e le divisioni che spesso sono terribilmente simili alle nostre. 

Stefano Galieni

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1 Commento. Nuovo commento

  • Marco Giustini
    19/12/2025 10:48

    Anche io credo che il voto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con l’astensione di Russia e Cina, al piano Usa di Trump segni la fine di un ciclo e che purtroppo vada interpretato come un colpo di grazia alla causa palestinese da parte delle tre superpotenze. La sensazione è che si sia solo voluto silenziare il movimento internazionale di solidarietà con i gazawi per farli uscire dai media. E c’è da dire che ci sono riusciti. A mio parere ora si tratta di riflettere sulla strategia di lungo periodo. Ha ancora senso proporre la soluzione dei due stati con Gaza distrutta e la Cisgiordania in fase di definitiva colonizzazione? Non converrebbe piuttosto guardare ad altre esperienze di movimenti di liberazione che hanno praticato nuovi approcci con maggiore successo? Il riferimento è all’approccio del confederalismo democratico sperimentato dai curdi nel Rojava siriano o a quello più antico degli zapatisti in Messico. La rinuncia alla lotta armata da parte del PKK in Siria, cosi come quello dell’EZLN in Messico, in un contesto di grossi rischi di annichilimento delle rispettive lotte di liberazione, per certi versi simile all’attuale situazione palestinese, dovrebbe farci riflettere sulla direzione da prendere. Che nel caso palestinese non è necessariamente dicotomica, tra un accordo con Israele ed una nuova Intifada. Si tratterebbe piuttosto di riflettere su come costruire comunità di autogoverno palestinese autonome all’interno dello stato israeliano, rinunciando alla costruzione di uno stato palestinese visto come minaccia permanente da parte di Israele. Probabilmente un approccio del genere spiazzerebbe gli avversari che finora hanno vinto proprio favorendo la radicalizzazione del conflitto per poterlo affrontare solo militarmente e non politicamente. Peraltro la nascita di una nuova forza palestinese simile per approccio a quelle curde o messicane, probabilmente potrebbe ricevere appoggio dalla Cina.

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