Il mare umano che, in queste ultime settimane, si sta riappropriando delle piazze italiane, necessiterà di tempo, analisi, ascolto e ricerca, perché se ne riesca a definire la reale portata. Non sembra né il tempo né il momento per cercare di interpretarlo attraverso categorie, magari con riferimenti al passato, forte è il rischio tanto di cadere nell’errore quanto quello di non comprendere che nel mondo digitalizzato, la cui velocità è in perenne mutuazione, l’immagine che si definisce un giorno non possa mutare, in maniera imprevedibile, in quello successivo. Ma non si resti muti osservatori e / o peggio ancora nostalgici critici di quello che si desidera da decenni. Ci si deve interrogare, con estrema umiltà e cercare, per quanto possibile, con tutti i limiti e le diversità, generazionali di genere, classe sociale e di background, di raggiungere una connessione con chi si sta muovendo.
Vanno, ad avviso di chi scrive, però assunti alcuni postulati.
Intanto le piazze che si sono riempite in questi giorni non costituiscono un “movimento” per come spesso si è usata tale definizione atta a recintarne gli spazi.
Si tratta forse di “sommovimento” (le parole hanno importanza) di coscienze che scelgono, senza l’urgenza di una propria forma organizzativa, di esporsi. Il termine più adeguato è pluralità, forse ancor più di moltitudini. L’obbiettivo è chiaro, fermare il genocidio a Gaza percependo la causa palestinese come parte della propria esistenza personale. Molte/i hanno visto nella Global Sumud Flotilla e nella sua vicenda, seguita attimo dopo attimo in rete, una rappresentazione finalmente concreta di quanto si potrebbe fare, con questa, con le sue e i suoi naviganti, questa pluralità ha trovato identificazione. E il contrasto con i balbettii spesso incoerenti delle forze politiche, tanto quelle schierate apertamente in difesa di Israele e della sua visione suprematista del mondo, quanto con quelle che si sono poste come problema primario quello di incasellare l’energia umana, in alcuni casi anche prepolitica, che è emersa, al solo scopo di assumerne l’egemonia, la guida, divenendone interpreti, è potentissimo. Un contrasto che nasce appunto dal fatto che a primeggiare è una connessione sentimentale con una causa che non accetta mediazioni di sorta. Si riconosce autorevolezza alle rappresentanze, anche queste plurali, della diaspora palestinese. Ci si sente in maggior sintonia con le figlie e i figli di quelle seconde generazioni con background migratorio, i cui genitori provengono da paesi del mondo arabo e del Nord Africa, che insistono sull’affermare che la lotta contro l’oppressione sionista va di pari passo con quella dei regimi che governano nei loro Paesi e che sono altrettanto complici del genocidio, ma la stessa autorevolezza delle diaspore è dipendente dall’impegno che poi si dimostra nelle mobilitazioni. Anche le organizzazioni giovanili, come quelle sindacali (di base o confederali), finora hanno potuto sentirsi parte di questi sommovimenti avendo, in alcuni casi, colto bene l’urgenza della chiamata alla piazza, ma non ne sono divenute per questo l’avanguardia o il punto di coagulo.
Certo nelle scuole e nei grandi comparti lavorativi di alcune aree metropolitane, in cui tali realtà hanno capacità organizzative necessarie per chiedere una piazza, provare a gestirla anche nei rapporti, spesso non facili con le cd Forze dell’ordine, taluni soggetti sono stati fondamentali e hanno centralizzato su di sé l’attenzione. Le loro bandiere erano e sono le più visibili nelle mobilitazioni. Ma resta uno iato enorme, nelle province, nel mondo in cui i soggetti si sono aggregati in forma spontanea e anche nelle metropoli prima indicate. Chi si è recato in piazza, anche durante la notte dopo i primi abbordaggi della Flotilla in acque internazionali, lo ha fatto sapendo che non sarebbe stato da sola o solo, consapevole che il proprio micromondo composto dalle persone con cui si condividono le fasi della crescita o le difficoltà nel mondo del lavoro. Ben più potenti delle voci istituzionali o anche antagoniste, sono state le chat whatsapp, i messaggi fra tiktoker, signal, discord e gli altri mille canali di comunicazione che bypassano anche i momenti di incontro reali. “Utilizzo la tecnologia che ho a disposizione e comunico con questi strumenti, invece che farmi usare” (testimonianza di una giovane manifestante a Roma il 4 ottobre). Un caso certamente. Ma quanti di questi casi hanno portato a rendere la settimana che ci ha preceduto così densa di persone di ogni tipo?
Ad oggi, chi pensa di poter piegare tale capacità di mobilitazione al proprio contesto organizzativo o ha una scarsa comprensione di quanto gli accade intorno o, peggio ancora, lo fa in malafede, per acquisire maggiore credibilità all’interno della stessa bolla politica e sociale che non aveva previsto tali sommovimenti.
E assistiamo anche a patetici tentativi di poter indirizzare le prossime tappe di una parte di mondo, in Italia, di cui neanche si conosce la reale composizione sociale, i bisogni rivendicati, la spinta propulsiva che è subentrata ad anni di apatia.
Un dato significativo: così come nelle giornate che vanno dal 2 al 4 ottobre – in realtà anche precedentemente – in tante città si sono registrati afflussi nelle piazze e ad appuntamenti presi nell’immediato, una quantità immensa di popolazione, quando alcune organizzazioni, sia italiane che palestinesi, hanno provato, in poche città a convocare mobilitazioni in cui di fatto si ricordava il 7 ottobre come atto d’inizio di una “rivoluzione palestinese”, l’afflusso e non solo per il timore di risposte repressive, si è limitato quasi esclusivamente a coloro che attengono al tessuto politico preorganizzato.
Questo dimostra che, accanto ad un forte coinvolgimento emotivo permane un livello di consapevolezza politica non marginale, che si traduce in una semplice affermazione “voglio che termini il genocidio, che il popolo palestinese sia libero, che gli aiuti arrivino, ma condanno e non mi riconosco in quanto avvenuto il 7 ottobre di due anni fa”. Un punto di vista che mette in discussione anche la stessa autorevolezza di chi, fra i palestinesi della diaspora, è entrato nella stessa logica disumanizzante che accomuna Meloni, Trump e in primis Netanyahu e coloro che in Israele ne condividono il progetto.
Poi gli slogan di piazza provano ad alzare il tiro “From the river to the sea/Palestina we’ll be free”, come “Intifada fino alla vittoria”. Sono aggreganti in quanto aggressivi e capaci di mostrare un atteggiamento non solo difensivo ma soccombono di fronte al fatto che a pronunciarli sono persone che si ritrovano ad immaginare l’“Intifada da tastiera” e credono che la sola soluzione praticabile consista nell’eliminazione dello Stato colonialista di Israele.
Prendere questi slogan come elementi in grado di dimostrare un nuovo radicalismo nel Paese è, ad avviso di chi scrive, tanto un errore quanto un abbaglio.
Un errore perché intanto nei luoghi del conflitto si tratta. Per Netanyahu, tentato di impedire qualsiasi parziale tregua, ne va della propria sopravvivenza politica, per la popolazione gazawi è fondamentale per fermare lo sterminio, la pulizia etnica, la cacciata dalla Striscia. Capita di sentir parlare tante persone, meno affette da compulsione da social media, la cui frase sembra essere divenuta parte di un lessico condiviso “non riesco a dormire la notte pensando a quanto accade a Gaza”. L’odio verso Israele, gli Usa, verso chi in Italia, dalla presidente del Consiglio fino all’ultimo dei sottosegretari, avvalla il sostegno a Tel Aviv è di massa ma non si tramuta e guai se accadesse, verso chi è di religione ebraica, non si generalizza, definisce propri obiettivi.
Ed un abbaglio, perché ad oggi quella che sembra prevalere – con il beneficio dell’inventario – è un’ondata emotiva con forti ricadute antigovernative, ma che non ha elaborato una propria agenda politica. L’opposizione al genocidio non si è ancora saldata con quella al riarmo, ha fatto più breccia con quella antiautoritaria, che è contro la militarizzazione delle scuole, contro l’approccio italiano ed europeo nella politica estera.
Forse – e magari siamo noi a non saperlo – nelle elaborazioni che si vanno costruendo in ambiti meno visibili e meno identificabili con vessilli ma più in contesti di prossimità, (scuole, aule universitarie, rioni, comitati di quartiere, luoghi di lavoro), si affacciano tentativi di comprensione che non tengono conto delle coordinate fornite da chi utilizza criteri di geopolitica, (veri o realistici), analisi tardo terzomondiste, narrazioni autoreferenziali utili solo a riaffermare la propria ragione sociale di esistenza in vita. C’è una domanda ad oggi inevasa, di trasformare anche la carica emotiva che smuove e porta a percorrere chilometri per strada, in informazione reale, non viziata e, in costruzione, di una vera contronarrazione capace di infrangere la barriera del già detto, già scritto, già predeterminato. Una reale trasformazione politica che non combacia con i soggetti che pensano di aver già compreso ma che potrebbero costringerci all’ascolto e alla confutazione di approcci, molteplici, che non possono essere riassunti attraverso un minimo comune denominatore.
Ci si dovrebbe predisporre ad un ascolto capace di divenire inchiesta, non nel tradizionale senso del termine (questionari, interviste, analisi quantitative e qualitative), ma duttile, ovvero in grado di raccogliere l’essenziale delle informazioni che giungono, non per trarre conclusioni ma per porre e porsi ulteriori interrogativi.
Alcuni esempi: capita – racconto riferito di un episodio – che un treno di pendolari, pieno zeppo di lavoratrici e lavoratori che tornavano stanchi da una giornata di duro lavoro, sia stato fermato da giovani manifestanti che hanno occupato i binari in prossimità della stazione di arrivo ma bloccando il convoglio. La prima informazione giunta ai passeggeri (binari bloccati da persone) induceva alla rabbia e a reazioni di profondo sdegno, ma nell’apprendere le motivazioni per cui il treno era stato fermato le stesse persone (sembra esperimento da laboratorio) hanno dimesso l’atteggiamento ostile e in molti condividevano le ragioni dei manifestanti nonostante il disagio arrecato alle proprie vite.
E ancora un’osservazione, certamente insufficiente e quasi impressionista. In questi giorni da TikTok, strumento comunicativo in cui si ritrovano molte persone giovani, emerge una svolta nei messaggi di tendenza. Infiniti sono i reels in solidarietà con la Palestina in cui giovani, spesso minorenni, si espongono, cantano o mandano canzoni di stampo antifascista e, soprattutto, antimilitarista (De Andrè, Lennon i più citati), propongono anche propri testi forti e carichi di empatia. Pensare di poter trovare un contenitore a tale immensità è ad oggi irrealizzabile.
Chi canta, urla, manifesta la propria indisponibilità ad adeguarsi ad un silenzio, non cerca, per ora, di tradurre il tutto inun proprio, individuale, protagonismo politico. Non a caso e nonostante di questi temi si sia parlato assai nelle ultime tornate di elezioni regionali, l’assenteismo è cresciuto, come segnale di distanza da un orizzonte politico che appare predeterminato, lontano e soprattutto inutile.
Il riaffermarsi delle destre, anche delle peggiori, è figlio dell’assenza di ogni altra prospettiva che, per potersi delineare deve trovare credibilità, necessità di rappresentanza, coerenza, capacità di assorbire e di mettersi al servizio di mondi per nulla omogenei. Un percorso da costruire in cui ognuna/o potrebbe essere utile se non decide di divenire impaccio o se non ha la pretesa di avere come unico obiettivo la testa di un corteo o l’intestazione di uno sciopero.
Se, come ci si augura, questo percorso di risveglio di anticorpi, decide di ampliarsi e di definire una propria visione, si accetti che è terminato, nonostante le sirene mainstream, ogni gerarchia dei conflitti. I cortei, come emerso in questi importanti giorni, partivano da punti diversi della stessa città, oppure si scomponevano per avvicinarsi ad obiettivi ritenuti significativi dal punto di vista simbolico, per poi scomporsi in altri e indeterminabili strategie di riappropriazione dello spazio pubblico. Non sarà importante avere la testa del corteo ma le teste e i corpi nei cortei.
Stefano Galieni