Il Regno d’Italia, pur essendo stato uno degli ultimi Stati-nazione costituiti in Europa sull’onda del movimento nazionalista risorgimentale e soprattutto della conquista militare dell’intera penisola da parte del Regno di Sardegna guidato dai Savoia e da un’élite aristocratico-borghese, fin dai suoi inizi si è preoccupato di cercare di assicurarsi “un posto al sole”, ossia dei territori coloniali nel Mediterraneo e in Africa1. Una preoccupazione che, passando con alterne vicende dalla fase liberale a quella fascista, è durata quasi cento anni, dato che ha attraversato anche il primi 15 anni della Repubblica, durante i quali i governi hanno cercato di mantenere un legame e un’influenza politica su territori e paesi che ormai, nel nuovo contesto geopolitico globale post-Seconda guerra mondiale (sancito dal trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947), erano diventati ex colonie italiane. Fu solo il 1º luglio 1960, infatti, allo scadere dei dieci anni di Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (AFIS), vissuti nel segno di una continuità con la storia del colonialismo, e con la nascita della Repubblica Somala, che si è chiusa l’epopea coloniale italiana. Anche se poi si è aperta la fase neocoloniale (con i rapporti politici ed economici privilegiati, ma anche con i flussi di profughi italiani da Libia, Etiopia ed Eritrea fino agli anni Settanta) e, a partire dagli anni Novanta, il dibattito ancora in corso sulla questione della migrazione dal Sud e dall’Est del mondo, che ha finora dimostrato la ritrosia di ampi segmenti della politica e della società italiana ad abbandonare “un’idea di omogeneità culturale, religiosa [la cristianità], fenotipica [la bianchezza] come quella elaborata nei decenni del Regno d’Italia, e mai davvero messa in discussione in quelli repubblicani. Un’idea che, è bene ricordarlo, era incompatibile con la realtà anche allora e che poteva essere affermata [allora come oggi] solo attraverso la privazione di diritti e riconoscimento a chi non era compatibile con il modello dato” (pp. 179-180).
Valeria Deplano e Alessandro Pes, entrambi professori associati di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Cagliari, hanno scritto un agile libro – Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni (Carocci Editore, Roma 2024) – che ricostruisce, appunto, la storia del colonialismo italiano, nell’amara convinzione che, nonostante esista ormai una mole di studi storici specialistici sul tema, “è ancora diffusa l’idea per cui il colonialismo italiano sia stato un’appendice cronologicamente, culturalmente, socialmente, politicamente ininfluente nella storia nazionale” (pag. 11). In realtà, Deplano e Pes sostengono la condivisibile tesi che il paese non ha mai veramente preso le distanze dall’operato coloniale (che si stima abbia causa to oltre 700 mila vittime), ma anzi lo ha finora difeso, in modo assolutorio e agiografico, come “diverso” (“buono” verso le popolazioni colonizzate nell’età liberale e “proletario” per le politiche di popolamento) rispetto agli altri colonialismi europei “imperialisti”, nella “convinzione che il passato coloniale del paese coincidesse esclusivamente con una storia di lavoro, di modernizzazione e di benessere portato alle popolazioni colonizzate” (pag. 157). Una narrazione che affermava la sostanziale innocenza della nazione e delle forze armate, l’assenza di razzismo, la capacità costruttrice e civilizzatrice degli italiani, elaborata a partire dal 1943 dal governo e dalle associazioni dei profughi e che nei decenni successivi è stata “ulteriormente ribadita, istituzionalizzata, diffusa verso la società repubblicana” (emblematici i 40 tomi pubblicati tra il 1955 e gli anni Ottanta dal Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, messo in piedi dal governo italiano nel 1952 e in maggioranza composto da ex funzionari dell’amministrazione coloniale ed imperiale). Sulla base di questa versione edulcorata e selettiva della storia del colonialismo italiano, i governi repubblicani hanno evitato di assumersi alcuna responsabilità coloniale anche in relazione alle riparazioni richieste per i danni arrecati e alle restituzioni dei beni artistici, archeologici, religiosi e culturali saccheggiati durante l’occupazione coloniale (dalla statua del Leone di Giuda all’obelisco di Axum alla Venere di Leptis Magna e alla Venere di Cirene, beni restituiti rispettivamente solo nel 1969, 2005, 1999 e 2008 tra polemiche politiche alimentate dalla difesa del “patrimonio culturale nazionale”).
Questa narrazione “ufficiale” è stata decostruita da un gruppo di storici coraggiosi (spesso oggetto di accuse sistematiche e di tentativi di delegittimazione e censura2) – Romain H. Rainero, Roberto Battaglia, Angelo del Boca, Giorgio Rochat e Nicola Labanca – che nei loro lavori di ricerca, a partire dagli anni Settanta, hanno evidenziato gli aspetti violenti, criminali e genocidiari del dominio coloniale italiano sia del regime liberale sia di quello fascista (dai massacri delle popolazioni civili, all’uso di agenti chimici come l’iprite, alle politiche di confinamento, deportazione e carcerazione), facendo emergere i drammatici impatti economici, sociali e culturali sulle popolazioni colonizzate delle leggi razziste, delle dinamiche di appropriazione delle terre e del coinvolgimento dei coloni nel sistema di oppressione coloniale.
Deplano e Pes ritengono che il colonialismo debba essere interpretato “come un elemento strutturale della storia nazionale” (pag. 161), come un tratto fondativo che ha contribuito a “fare gli italiani” e a plasmare la loro coscienza e identità collettiva, e che sia giunto il tempo che, anche alla luce dei risultati ai quali la ricerca storica è ormai giunta, l’opinione pubblica e la cittadinanza sia “costretta a ripensare in maniera profonda il passato coloniale del paese. Lo stereotipo del ‘buon colonizzatore’ [ha avuto] vita facile nell’affermarsi in una società che non [è stata] mai chiamata a fare i conti con il passato coloniale” (pp. 162-163). Solo nel 1997, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, in visita in Etiopia, definì l’occupazione coloniale italiana un crimine, negando così il mito degli “italiani brava gente” e riconoscendo le responsabilità coloniali italiane. Ma ancora nel marzo 2009, a ridosso della ratifica da parte del governo italiano del trattato di amicizia e cooperazione fra Italia e Libia, da un sondaggio promosso da Sky TG24 emerse che il 74% delle migliaia di risposte giunte alla redazione erano negative riguardo alla domanda: “Secondo te, è giusto che l’Italia chieda scusa e risarcisca la Libia per il proprio passato coloniale?”3 Solo il 26% si pronunciava favorevolmente. I rapporti con Etiopia e Libia vennero normalizzati “senza sollecitare un dibattito circostanziato, ricco di contenuti, e pertanto utile a promuovere una diversa coscienza di sé da parte delle italiane e degli italiani” (pag. 176), per cui in sostanza la storia del colonialismo italiano è stata rimossa dal discorso pubblico.
Obiettivo del libro è quello di provare a mettere in fila, in maniera accessibile, i risultati degli studi storici, per proporre anche a un lettore non specialista una sintesi tanto delle vicende belliche e politico-istituzionali che riguardano il periodo coloniale e quello postcoloniale, quanto delle peculiari idee, pratiche culturali, implicazioni sociali del colonialismo italiano in Africa dal XIX al XXI secolo4. Il filo rosso è rappresentato dalle modalità con cui le vicende dell’occupazione coloniale si intrecciano con la storia d’Italia e svolgono un ruolo nel determinarne l’evoluzione.
Il volume segue un impianto cronologico ed è articolato in tre capitoli che ricostruiscono la storia del colonialismo italiano fatta di strappi, salti in avanti e retromarce. Il primo, che affronta il periodo che intercorre tra gli anni precedenti alla nascita del Regno d’Italia, la costituzione della colonia di Eritrea, la formalizzazione della presenza italiana in Somalia, la prima guerra di occupazione della Libia; ma anche le idee, le politiche culturali, educative e propagandistiche che accompagnano questi eventi.
Il secondo capitolo ricostruisce la storia del colonialismo italiano dall’avvento del fascismo al governo sino alla conclusione della Seconda guerra mondiale, analizzando il modo in cui il regime non solo consolidò e ampliò la presenza italiana in Africa, ma utilizzò l’imperialismo all’interno del proprio progetto di costruzione della nazione.
Infine, il terzo capitolo guarda al rapporto della Repubblica con la storia coloniale del paese ripercorrendo dapprima dal punto di vista politico-diplomatico il dibattito che accompagnò le decisioni sul destino delle ormai ex colonie italiane; seguendo poi le vicende delle persone – di origine europea quanto africana – in movimento da questi territori verso l’Italia; e infine ragionando sulle questioni memoriali e culturali che hanno caratterizzato tutto il secondo Novecento sino ad arrivare agli anni Venti del Duemila.
Il colonialismo liberale
Missionari, esploratori e studiosi avevano cominciato ad interessarsi della regione del Corno d’Africa ancor prima della formazione del Regno d’Italia e del 1869, quando con l’acquisto dal sultano di Raheita della baia di Assab sul Mar Rosso, di fronte ad Aden, da parte della società marittima Raffaele Rubattino (interessata alle rotte e ai traffici verso Oriente che si aprivano con l’inaugurazione del canale di Suez) ebbe inizio la storia formale del colonialismo italiano (la proprietà di Assab passò al governo italiano nel 1881). Dopo il 1861 sia la politica italiana che gli ambienti legati alle esplorazioni e alle società geografiche (soprattutto la Società geografica italiana), che “agevolarono e accompagnarono la spartizione dell’Africa e dell’Asia […] tramite spedizioni esplorative, lavori di mappatura, ma anche attività di tipo propagandistico” (pag. 42), iniziarono a vedere il colonialismo formale (caratterizzato da un controllo politico ed amministrativo-burocratico diretto dell’oltremare) come possibile soluzione al problema dell’emigrazione (e anche a quello carcerario) in alternativa al flusso verso l’America meridionale e settentrionale e l’Europa.
Le prime acquisizioni territoriali sul Mar Rosso – da Assab a Raheita (una località della Dancalia) a Beilul, Massaua e Zula, ma anche nel territorio frammentato (in tanti piccoli sultanati) della Somalia, le concessioni ottenute dal sultano di Zanzibar: Barawa, Merka, Mogadiscio e Uarscheich – avvengono tutte con l’appoggio britannico. L’Italia fu favorita dalla Gran Bretagna, che temeva una ipotetica espansione francese o tedesca nell’area. Ma queste occupazioni misero il Regno d’Italia in diretta contrapposizione con l’Impero dell’Etiopia e così arrivò la prima clamorosa (per un paese europeo) sconfitta militare di Dogali (26 gennaio 1887), anche se l’anno successivo un corpo di spedizione di 20 mila uomini, supportato da truppe locali (denominate ascari) riuscì ad occupare Asmara nell’interno. Dopo aver firmato (non proprio in buona fede) con l’imperatore Menelik II il trattato di Uccialli (Wechale)5, il 1º gennaio 1890 veniva istituita ufficialmente la colonia Eritrea che raggruppava i possedimenti coloniali occupati dall’Italia sul mar Rosso. Negli anni successivi, l’espansionismo italiano nei confronti dell’Etiopia (in Tigray) fu bloccato da altre due clamorose sconfitte militari ad Amba Alagi (7 dicembre 1895) e ad Abba Carima, nei pressi della città santa di Adua (1º marzo 1896). Sconfitte che provocarono le dimissioni del governo di Francesco Crispi e numerose manifestazioni di protesta nelle principali città italiane.
Fin da subito, la gestione della colonia Eritrea venne improntata all’affermarsi di un ordine sociale diseguale e razzista, con l’imprigionamento dei sudditi (ad esempio, nell’isola di Nocra) e il ricorso alla pena di morte. “Tali azioni si inserivano in un sistema in cui gli eritrei erano considerati primariamente un peso e un ostacolo allo sviluppo della colonia” (pag. 50). Quasi del tutto inesistente l’investimento in un sistema di istruzione per la popolazione locale. Una politica seguita anche nel ventennio fascista e tesa a limitare l’istruzione per gli africani a livello elementare (alfabetizzazione e preparazione per il lavoro). “Si trattava di un approccio alla formazione scolastica del tutto coerente con il progetto di società coloniale portato avanti dagli italiani, in cui le popolazioni locali erano pensate esclusivamente come forza lavoro al servizio dei colonizzatori” (pag. 50).
Coerente con questo modello era anche l’attenzione dei governi coloniali a non delegare alcun potere alle élite locali, e a non formarne di nuove. Tutto il sistema di amministrazione era improntato a mettere in chiaro che la posizione della popolazione locale era caratterizzata dalla separazione e dalla subalternità rispetto al colonizzatore. L’idea della gerarchia razziale venne codificata anche nell’organizzazione dello spazio coloniale: il piano regolatore di Asmara prevedeva due zone residenziali per gli europei e una per gli africani. A chiunque non avesse cittadinanza italiana o straniera e apparteneva a un gruppo etnico locale veniva attribuito lo status di sudditanza (erano assenti status migliorativi intermedi) che sanciva l’esclusione degli eritrei dalla cittadinanza metropolitana (cioè italiana) in base a esplicite valutazioni in termini di “civiltà”.
La popolazione italiana era una esigua minoranza prevalentemente maschile. La propaganda coloniale aveva largamente usato l’immagine delle donne africane come sessualmente disponibili (come simbolo e premio del territorio d conquistare). Diffusi furono gli episodi di violenza contro le donne locali, numerose le case tolleranza istituite dalla Stato e si diffusero forme di convivenza, in particolare una forma di concubinaggio che nel lessico coloniale prese il nome di “madamato”6 che non era ben visto dalle autorità coloniali liberali, che “lo consideravano una rottura della gerarchia e un inopportuno avvicinamento con la popolazione colonizzata; ma sino al 1937 (venne proibito in nome della “purezza della razza”) non fu proibito e finì per essere tollerato, a patto che non diventasse un fatto pubblico ma rimanesse nella sfera privata” (pag. 52).
Dopo il Corno d’Africa, l’attenzione dell’Italia liberale si rivolse verso il mar Mediterraneo, a cominciare dalla Tunisia, regione di approdo dell’emigrazione italiana, che però divenne un protettorato francese nel 1880. Essendo l’Egitto finito sotto la sfera di influenza della Gran Bretagna, le brame del Regno d’Italia si indirizzarono sulla Libia, un paese che non esisteva, mentre sotto l’Impero ottomano esistevano tre regioni amministrative: la Tripolitania con Tripoli, la Cirenaica con Bengasi e il desertico Fezzan. La presenza italiana nell’area era rivendicata in virtù di un passato in cui il Regno d’Italia si proponeva come erede, quello dell’antica Roma (“tornare” nei luoghi già dominati dall’antica Roma). La guerra di conquista ebbe avvio nell’autunno del 1911 (l’anno del cinquantenario dell’unità d’Italia) da parte del governo Giolitti, con l’assenso di tutte le principali potenze europee e con l’appoggio aperto dei nazionalisti italiani. La Libia veniva descritta dalla stampa come una terra fertilissima, dalla cui occupazione la borghesia imprenditoriale e il proletariato nazionale avrebbero tratto vantaggio: la prima per le possibilità di impiantarvi nuove fiorenti imprese, il secondo perché poteva finalmente trovarvi quell’alternativa all’emigrazione verso Stati esteri (pag. 56). I nazionalisti utilizzavano il concetto di “nazione proletaria” (“laboriosa e popolosa”), che poi sarebbe stato ripreso dal fascismo. Gli ottomani erano descritti come in decadenza ed incapaci di opporsi ad un intervento militare italiano, mentre i libici come desiderosi di liberarsi del dominio ottomano.
La guerra divenne un affare mediatico e i giornalisti vennero affiancati da archeologi e intellettuali come Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli (autore del discorso “La grande proletaria si è mossa”) che sostenevano che gli italiani erano chiamati a riconfermare i fasti dell’antica Roma in virtù di un superiore grado di civiltà rispetto ai “berberi, beduini e turchi”, descritti a tinte fosche, razziste e violente come incivili. La scuola, la carta stampata, la Chiesa, la letteratura e la politica si impegnarono nell’esaltazione dell’espansionismo come carattere nazionale. Sul campo, però, l’esercito italiano incontrò una tenace resistenza e venne dato avvio alla pratica delle detenzioni, delle esecuzioni sommarie e delle deportazioni (come strumento di gestione di un “ordine coloniale” difficile da imporre) di migliaia di civili libici nelle isole Tremiti, a Ustica, a Ponza, a Favignana. Il 5 novembre 1911, il governo Giolitti decise di proclamare unilateralmente l’annessione di Tripolitania e Cirenaica, una rivendicazione che venne riconosciuta dopo il crollo dell’Impero Ottomano con il Trattato di Ouchy. Ma come hanno dimostrato storici come Angelo Del Boca e Nicola Labanca, l’occupazione italiana era realmente limitata alle aree costiere e rimase tale fino all’avvento del fascismo (anche a seguito di numerose sconfitte dell’esercito italiano).
Il colonialismo fascista
Il fascismo ereditò territori e metodi di governo. Mussolini rivendicava il diritto dell’Italia a essere considerata una potenza internazionale al pari delle altre, in particolare di quelle vincitrici della prima guerra mondiale. Esaltava il mito del mare nostrum per costruire nessi tra l’antica Roma e il fascismo. L’idea era quella di proporre il fascismo come forza civilizzatrice capace di rinnovale l’identità italiana attraverso la rielaborazione e riattualizzazione di quella romana. Pertanto, dal punto di vista degli obiettivi coloniali, delle strategie militari e politiche e della narrazione di fondo, il regime fascista produce un salto di scala rispetto al paradigma precedente (con un’accelerazione delle tendenze razziste e predatorie), ma con importanti aspetti di continuità.
La nuova politica coloniale fascista prese avvio nel biennio 1925/26, in contemporanea con l’avvio del processo di fascistizzazione della società italiana. “L’occupazione militare delle colonie, e ancora di più la loro colonizzazione, offrivano sia un contesto in cui individuare le caratteristiche dell’’uomo nuovo’, sia modelli di comportamento da seguire. I coloni erano descritti come forti, sani, privi dei vezzi e delle mollezze proprie di chi conduceva una vita cittadina e mondana, in maniera del tutto conforme all’ideale virilista del regime, e alla sua retorica antiurbana; ed erano per questo additati da Mussolini come esempi da ammirare e imitare” (pag. 91).
Nessuna delega ai capi locali, accentramento del potere nelle mani dell’amministrazione italiana e pugno di ferro nella gestione di qualunque problema furono i capisaldi del nuovo corso fascista. Linee di azione messe in atto in Eritrea e Somalia dai governatori, mentre in Cirenaica si dette avvio ad una nuova offensiva militare (1927-1931) contro la resistenza organizzata dalla confraternita Sanusiyya7 nel corso della quale vennero usate bombe a fosgene e all’iprite, esecuzioni sommarie e pubbliche, incendi, razzie di bestiame. Per “togliere l’acqua ai pesci” vennero utilizzati metodi assai violenti: espropriazioni di terre, deportazioni, campi di concentramento in località inospitali dove fu deportato per tre anni almeno un terzo degli abitanti della regione, con un numero altissimo di vittime.
Una volta “pacificata”, la Libia divenne un laboratorio nel quale il fascismo tentò di edificare una società coloniale che potesse definirsi fascista nelle pratiche, negli equilibri interni, nelle mentalità condivise. “Nel corso degli anni Trenta, e sino all’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale, il fascismo lavorò quindi alla definizione e ridefinizione dello status giuridico del territorio e dei sudditi libici, tentò di promuovere uno sviluppo economico che rendesse la quarta sponda quella terra promessa di cui si parlava da decenni e soprattutto elaborò e avviò diversi progetti di insediamento di un numero crescente di italiani in Nord Africa” (pag. 96). L’idea della “nazione proletaria” enfatizzava la presunta differenza tra il colonialismo italiano, fatto di lavoratori che avrebbero trasformato con la propria operosità i territori di accoglienza, e il colonialismo delle altre potenze europee cui il fascismo si contrapponeva in misura crescente, accusate di muovere non braccia ma capitali, e di portare non miglioramento ma sfruttamento. Le terre più fertili confiscate ai libici vennero suddivise in lotti assegnati a contadini selezionati (circa 40 mila, in prevalenza delle regioni del Nord Italia) per diventare piccoli proprietari. Vennero costruiti villaggi colonici, ma alla vigilia della Seconda guerra mondiale il grosso degli italiani (oltre 75 mila) erano concentrati nelle città (Tripoli, Bengasi, Misurata, Derna) dove molti erano impiegati e militari, mentre altri erano artigiani, negozianti, professionisti e lavoratori manuali.
Il 3 ottobre 1935 (dopo due anni di preparazione) il regime fascista attaccò militarmente l’Impero Etiope con circa mezzo milione di militari e con l’intento di “vendicare” Adua. Vennero usati i gas chimici e l’esercito italiano ebbe la meglio su quello etiope ed entrò in Addis Abeba. Nonostante il governo italiano non fosse in controllo del vastissimo territorio e molti soldati etiopici continuassero a combattere contro l’occupazione italiana, il 9 maggio 1936 ci fu la proclamazione dell’impero dell’Africa orientale italiana (AOI) che nelle intenzioni del governo fascista doveva essere il momento iniziale per la genesi di una nuova identità per gli italiani della madrepatria. “Essi avrebbero dovuto introiettare i valori connessi con il nuovo carattere imperiale che da quel momento in poi avrebbe dovuto rappresentare il loro modello di riferimento” (pag. 87). La retorica della romanità, però, era sostanzialmente una copertura propagandistica (condotta attraverso la carta stampata, la radio, il cinema, la musica popolare, la letteratura e la scuola) per imporre il razzismo, lo sterminio8, la subalternità, lo sfruttamento delle popolazioni e dei territori colonizzati e che certamente non “possono essere ricondotti a quell’anelito a una nuova civiltà universale cui si richiamava l’antica Roma” (pag. 89).
L’impero fu per lo Stato italiano soprattutto una spesa, anche perché l’iniziativa privata si tirò quasi completamente indietro dagli investimenti (gli unici prodotti a basso costo erano banane, caffè e pelli grezze). L’AOI, per esistere, ebbe una continua necessità di investimenti pubblici. Tutto finì nel giro di 5 anni, il 5 maggio 1941, con l’ingresso ad Addis Abeba dei resistenti etiopici (che erano stati sostenuti dai britannici), e insieme a loro di Haile Salassie, mentre il 27 novembre ci fu la definitiva capitolazione delle forze italiane a Gondar. In Libia le vicende belliche si conclusero con la vittoria delle truppe britanniche del generale Bernard Law Montgomery a El Alamein. Nel 1952, l’Eritrea (la “colonia primigenia”) entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’ONU.
La Repubblica italiana e la questione coloniale
A partire dal 1942/43, l’Italia accolse da un minimo di 320 mila a un massimo di 380 mila rimpatriati dalle ex colonie italiane che vennero collocati in campi dislocati in tutta la penisola. Come abbiamo già visto, dall’immediato dopoguerra la Repubblica ha elaborato una narrazione fondata sulla diversità del colonialismo italiano rispetto a quelli europei e sulla sua maggiore umanità. Tale narrazione, utile ai fini delle rivendicazioni diplomatiche postbelliche, distingueva tra il colonialismo liberale, considerato “buono”, e quello fascista, considerato “cattivo”. Al secondo vennero imputate le pagine buie della presenza italiana in Africa. Inoltre, operava una netta separazione tra governo e società, indicando nel primo l’unico vero responsabile delle violenze coloniali, almeno di quelle – poche – che venivano ammesse (pag. 177).
In Somalia alla fine del colonialismo italiano c’era un medico ogni 60 mila abitanti, un sistema economico in ginocchio a causa della guerra e della siccità e soprattutto un tasso di analfabetismo del 99,4%. Il che significava che il paese mancava di una classe tecnica, amministrativa e politica formata. Gli anni dell’AFIS furono un tentativo di cedere i poteri alla popolazione locale, come previsto dal mandato. Ma la “somalizzazione dello Stato” fu un processo solo parzialmente riuscito alla scadenza del mandato.
In Italia, la “cattiva coscienza” rispetto alla storia del colonialismo italiano persiste ancora nella toponomastica stradale e nei monumenti ai caduti, eroi, esploratori, missionari e pionieri che in parte vengono (ri)proposti come simboli di valore e civiltà (ma che sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante), da cui le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei monumenti che celebrano il colonialismo italiano. La lettura di Storia del colonialismo italiano di Valeria Deplano e Alessandro Pes offre l’occasione di ripensare al passato coloniale interrogandosi – senza interpretazioni monodimensionali – anche sulle forme di dominio (razziste e suprematiste) nel tempo presente. L’avanzata delle destre estreme in Italia, in Europa e negli USA – certificata dai recenti risultati elettorali – rende urgente l’elaborazione di anticorpi collettivi contro il rischio della rimozione dell’importanza delle vicende coloniali e della loro matrice predatoria.
Alessandro Scassellati
- Lo sbarco in Africa del Regno d’Italia si inserisce all’interno della corsa alla spartizione dell’Africa tra le grandi potenze europee acceleratosi dopo la conferenza di Berlino del 1884/85, alla quale l’Italia partecipò nel ruolo di paese osservatore. La dimensione politico-culturale all’interno della quale si articolano le specificità italiane è, nei suoi tratti fondamentali, europea. “È europea la cultura che descrive le popolazioni africane e asiatiche come inferiori e bisognose di un impegno civilizzatore dall’esterno; agisce su scala europea il supporto delle scienze alla legittimazione e alla realizzazione dell’espansione coloniale; è condivisa con gli altri paesi europei la pratica di usare l’espansione imperiale per consolidare specifiche idee di appartenenza; così come sono condivise con i paesi europei le questioni che emergono nel periodo postcoloniale, dopo la fine del colonialismo formale; le difficoltà di ripensare i rapporti con Asia e Africa, la gestione della mobilità, l’impatto che esse hanno nel processo di rielaborazione identitaria degli Stati del ‘vecchio continente’, il ruolo della memoria coloniale in questo stesso processo” (pp. 11-12).[↩]
- Per decenni venne limitata la libertà di ricerca degli studiosi, ammessi negli archivi solo in maniera selezionata. Un’azione censoria che venne esercitata anche nei confronti del film “Leone del deserto”, un kolossal in gran parte finanziato dal governo di Muammar Gheddafi, girato nel 1979 con attori del calibro di Anthony Quinn, Oliver Reed e Rod Steiger. Il film raccontava l’occupazione della Cirenaica da parte degli italiani negli anni Venti e della resistenza dei libici guidati a Umar al-Mukhtar, il “leone” del titolo ed esponente di spicco della confraternita della Sanuiyya. Il film venne proiettato per la prima volta a New York nel 1981 e nel 1982 al festival di Cannes, in Italia non ebbe mai il visto della censura e non arrivò nei cinema.[↩]
- D’altra parte, il giornalista Indro Montanelli, all’epoca della guerra militare in Etiopia impegnato sul fronte nord, ha per anni polemizzato con lo storico Angelo Del Boca che aveva ricostruito storicamente la catena di comando dietro la decisione italiana di utilizzare i gas. Montanelli per decenni negò l’utilizzo degli aggressivi chimici da parte italiana. Un caso clamoroso è stato quello del sacrario costruito nel 2012 ad Affile, in provincia di Roma, e dedicato dall’amministrazione comunale al generale Rodolfo Graziani, ossia a colui che utilizzò i gas sia in Cirenaica sia in Etiopia, insieme a Pietro Badoglio. Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa.[↩]
- Il libro focalizza la sua attenzione sul colonialismo italiano in Africa: Somalia, Eritrea, Libia ed Etiopia. Sappiamo che il colonialismo italiano è stato presente dall’inizio del Novecento anche in Cina (con la concessione di Tianjin), nelle isole dell’Egeo (Rodi, Corfù, etc.) in concomitanza con la guerra di Libia, in Albania, Grecia, Slovenia, Dalmazia e Croazia. Inoltre, il libro non approfondisce i dettagli delle vicende militari e neanche gli aspetti economici. Mancano anche specifiche trattazioni sulle modalità con cui il colonialismo italiano ha influito sulla storia dei territori e delle popolazioni colonizzate, in particolare dopo la fine dell’occupazione formale.[↩]
- Nella sua traduzione italiana, il Trattato di Uccialli sanciva un protettorato dell’Italia sull’Europa, mentre nelle altre traduzioni Menelik si limitava ad accettare la possibilità di utilizzare il tramite del Regno d’Italia per comunicare con le altre potenze europee. La denuncia da parte di Menelik portò all’invalidamento del trattato.[↩]
- Il madamato venne presentato in Italia come un tipo di contratto matrimoniale temporaneo già presente in Eritrea con il nome di demoz che, in realtà, era solo una delle forme contrattuali matrimoniali utilizzate dagli eritrei. Di fatto, le donne non erano tutelate in alcun modo. Gli uomini scomparivano senza provvedere ad alcun sostegno economico. Ancora meno tutelati erano i figli delle unioni: la maggioranza degli italoafricani non fu riconosciuta. Un problema di circa 20 mila “bambini senza padre” che non è stato mai veramente risolto.[↩]
- Se si può fare un appunto agli autori è l’assenza di una citazione nel testo e nella bibliografia di una monografia di uno dei grandi maestri dell’antropologi sociale inglese Edward Evan Evans-Pritchard, The Sanusi of Cyrenaica (Clarendon Press, Oxford 1949). Il libro ricostruisce l’organizzazione tribale e alcuni aspetti dell’etnografia generale dei beduini della Cirenaica, ma principalmente si occupa dell’origine, dello sviluppo e della storia culturale della confraternita Sanusiyya, un ordine di sufi sunniti o musulmani ortodossi, all’interno della regione cirenaica della Libia. Evans-Pritchard traccia lo sviluppo della confraternita dalla sua fondazione nel 1837 da parte del Gran Sanusi Sayyid Muhammad bin Ali al-Sanusi attraverso il suo ruolo politico-religioso durante le guerre italo-sanusi e i successivi periodi di pace (1911-1932) fino al suo crollo finale alla fine della seconda guerra nel 1932. Evans-Pritchard ha avuto l’opportunità di studiare questo gruppo durante un periodo di circa due anni (1942-1944) mentre prestava servizio come Ufficiale politico presso la terza Amministrazione militare britannica della Cirenaica.[↩]
- Si stima che almeno 5 mila etiopici siano stati uccisi dopo un attentato contro il viceré Rodolfo Graziani il 19 febbraio 1937. Tra loro più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope di Debre Libanos uccisi tra il 20 e il 29 maggio 1937 perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani.[↩]