L’8 e il 9 giugno abbiamo l’opportunità, da italiani, di votare, di dire sì ad un’Italia più giusta, più inclusiva, più uguale. Per dimezzare il requisito della residenza continua per la naturalizzazione, da dieci a cinque anni. Maurizio Crozza nel suo programma “Fratelli di Crozza” ha detto “solo 5 minuti” per ridurre a soli “5 anni”. Magari fosse così, la verità che è a partire da 5 anni. Poi ci vogliono gli altri requisiti, poi i tempi della burocrazia oberata anche dall’accumulo delle pratiche, senza stare qui a spiegare che sempre più e oggi più che mai è difficile regolarizzarsi dopo l’arrivo in Italia.
Come Italiani senza cittadinanza conosciamo tantissime storie senza cittadinanza, molte di queste sono le nostre, storie anche di chi nasce qui, come quella di Sonny, di Clara, oppure di chi arriva da piccolo come quella di Omar Neffati che è morto senza cittadinanza eppure ha sognato un referendum per la cittadinanza come quello che stiamo portando avanti con il suo spirito guida. Ma anche la mia storia, quella di Madhobi Tasaffa, quella di A., quella di Xhoi, quella di Enrico (conosciuto come Evry), quella di Leslie Johanna e di suo fratello David, quella di Kirill, e poi Francesca, Hiba, Bia, Zelihan, Anna, Alexandra, Niki, Oleg, Mirjana, Sudabeh, Luca, Kristiana, Jovana, Afrola, ecc.. Lo notate? La maggior parte di questi nomi sono donne.
E chissà quanti ho dimenticato. Del resto oggi siamo più di un milione. E quanto sono quelli che hanno preso la cittadinanza ormai da tempo ma non in tempo per risparmiarsi qualche ferita inevitabile? Sempre troppe persone, troppe vite.
La legge 91 del 1992 – già “viziata” quando fu concepita in Parlamento, in risposta a quelle ondate migratorie albanesi che tanto scossero l’opinione pubblica ma anche alle richieste da parte della discendenza italiana in Argentina, la nostra diaspora italiana, che voleva tutelarsi dall’ennesima crisi finanziaria. Quindi una doppia pressione che poi ha prodotto questa legge tanto dibattuta, nei suoi in 33 anni di vita, da tutte le persone che si occupano di diritto, di diritti, di intersezionalità, da tantissime associazioni, società civile, partiti ecc., Una legge, come sappiamo, obsoleta, che già nasceva obsoleta all’epoca.
Di fronte a 20.000 albanesi che arrivarono con la Vlora, la risposta alla domanda “come facciamo ad allungare i tempi della naturalizzazione?” o “come facciamo a raddoppiare il tempo richiesto a loro per poter richiedere solamente?”, fu lo “ius domicili”, la naturalizzazione. Di fronte all’Italia che aveva in essere un iter di naturalizzazione di cinque anni, si arrivò a richiedere allo “straniero” di aspettare dieci anni, come oggi succede. Non solo questo peggioramento della legge rispetto al passato, ma anche un’ulteriore discriminante discriminatoria, cioè non solo rispetto al passato, ma anche rispetto alle origini. E dunque la legge fa una discriminazione tra chi ha il passaporto appartenente ad un paese all’interno dell’Unione Europea, e tra chi non ha questo tipo di passaporto, ma è “extracomunitario”. Quindi anche una discriminazione tra chi fa parte dell’Europa comunitaria invece che l’Europa continentale. Ad esempio l’Albania fa parte del continente, ma non fa parte dell’Unione. Quindi per diventare cittadini italiani, avendo questo background non comunitario, per naturalizzazione bisogna aspettare di minimo 12 anni, minimo, minimo, minimo. Se si è fortunati, oppure in un universo parallelo, dovresti appena arrivi, sbarcando con la nave o il il traghetto, come nel mio caso, oppure con l’aereo, immaginiamo che dal primo giorno hai già la residenza legale, l’affitto, il reddito, il lavoro, il contratto, anche se lo sappiamo che non è così. Lo sappiamo che questo è andato sempre di più peggiorando. Quando sono arrivata nel 2001, mia madre è riuscita nell’arco di un anno, nonostante ci fosse la Bossi-Fini in azione, ma è diventato sempre più difficile anche questo, con la criminalizzazione dell’immigrazione. Oggi sappiamo, grazie a tantissimi report, tra cui quello di Ero straniero, che le “sanatorie” – già il termine – quindi non “sanano” praticamente nulla, se non nell’arco di tantissimo tempo d’attesa e con tante perdite e tante ingiustizie e discriminazioni. Quindi, in questo universo parallelo, immaginario, perfetto, fantastico, una persona che ha un passaporto extracomunitario, vede questa cittadinanza arrivare per naturalizzazione dopo 12 anni.
Abbiamo visto anche i casi di sei anni d’attesa, cinque anni d’attesa, in cui una persona che ha fatto richiesta aveva il reddito, aveva tutti gli altri requisiti, poi ha mantenuto anche tutti i requisiti per i tre anni della domanda, dell’esame della pratica, e a un certo punto, ha avuto un’interruzione di residenza, ha avuto un licenziamento oppure qualcosa che ha interrotto quella situazione idilliaca di adempimento dei requisiti, dei mille requisiti richiesti, ed è stata vittima anche dinieghi di cittadinanza. E poi anche con il decreto sicurezza di Salvini nel 2018, modificato ma non del tutto e non in modo retroattivo, ma anche con le grosse difficoltà che l’amministrazione pubblica, in particolare le prefetture, hanno di esaminare le pratiche i tempi si sono – e di molto – dilatati. Semplicemente, questo mondo ideale non esiste.
Lo denunciavamo il 13 ottobre del 2016, vestiti come fantasmi per legge, la legge della cittadinanza non ha un percorso per chi cresce in Italia. E il referendum non potrà modificare ciò. In italia i referendum sono abrogativi e non hanno la pretesa di introdurre nuove leggi. Ma la verità è che la naturalizzazione è la via, l’unico iter (o quasi) a cui una persona che cresce in Italia, un giovane che cresce in Italia, che fa le scuole, ha per diventare cittadino. La naturalizzazione (se fa la domanda da adulto) o quella del proprio genitore (se fa in tempo, cioè se il giuramento avviene prima che lui diventi maggiorenne).
Il referendum non è nulla di rivoluzionario, ma la legge 91 del 1992 è rimasta pressoché invariata dal 1992. Quello che sembra soltanto un requisito, in realtà ha un altissimo impatto nelle vite delle persone e nel loro accesso alla cittadinanza.
Non essendoci la legge succede che per forza di cose l’unico iter a cui una persona che cresce in Italia, un giovane che cresce in Italia, che fa le scuole, purtroppo ha soltanto le altre opzioni per diventare cittadino. Ha l’opzione della naturalizzazione tramite la sua pratica o quella del proprio genitore, uno dei due genitori che magari la trasmette poi al figlio quando è minorenne, soltanto in quel caso, e anche lì se noi parliamo di 12 anni di pratica devi sicuramente essere arrivato in Italia, nel caso in cui arrivi in Italia insieme ai tuoi genitori, prima dei 6 anni, perché se tanto mi da tanto 6 più 12 fa 18, sempre nel mondo ideale, quindi non ci siamo con i tempi. Cosa che succede ed esclude dalla trasmissione della cittadinanza per naturalizzazione da parte dei genitori tantissimi bambini, giovani, anche per una questione di mesi, perché le amministrazioni, chi si occupa della cittadinanza non sta a guardare se questa pratica, questo risultato e le tempistiche che lo riguardano vanno a influire anche sui minori. Ma anche in tal caso, parlando di 12 anni di pratica devi essere arrivato in Italia, se arrivi insieme ai tuoi genitori, prima dei 6 anni, e se i tuoi genitori in un mondo ideale fanno la richiesta dopo 10 anni… rimarresti comunque senza cittadinanza (6 più 12 fa 18, cioè saresti già maggiorenne). Si capisce bene che anche l’iter della naturalizzazione come è adesso esclude dalla trasmissione della cittadinanza per naturalizzazione da parte dei genitori tantissimi bambini, giovani, anche per una questione di pochi mesi.
Omar Neffati in un suo intervento al Festival della Migrazione disse: “Ho avuto la ‘sfiga’ di essere cresciuto in Italia”. E poi si corresse: “In realtà non è sfiga ma una chiara volontà politica”. Ecco questa volontà politica è ora in mano a tutti noi. A chi può votare. Anche a chi non potrà. Io sarò una di quelle che non potrà farlo. Non potrò votare. Ma la democrazia, la cittadinanza è anche questo: fare di tutto perché ognuno dia un pezzo di sé per fare in modo che altri diano un pezzo di sé. Io non potrò votare ma potrò fare molto di più. Sto raccontando la mia storia, con le mie ferite e i miei traumi, affinché i miei figli, Vjosa e Priam, non passino attraverso quello che io ho passato da bambina. Io mi sto attivando per informare e attivare altri. La domanda che ognuno può e deve fare è “io che cosa ho? quale privilegio ho che posso mettere a disposizione?”. Ognuno ha qualcosa, gli strumenti, il tempo, le connessioni, le informazioni, le risorse monetarie, la professionalità, le competenze, la creatività, che può mettere a disposizione. Il voto sicuramente ma il voto è uno solo e per un giorno, quindi è davvero il minimo che abbiamo per poter fare la storia. Un giorno nei libri di scuola o nelle pagine di Wikipedia si scriverà di questo. Mettiamo tutto in piazza, tutto in atto, occupiamo gli spazi, investiamo tutte le risorse in questo.
Il referendum non è nulla di rivoluzionario, ma può essere come la tessera di un domino, una tessera che cade ma che può portare a smuovere altre tessere, altri cambiamenti. Non è sufficiente ma da qualcosa dobbiamo partire, dobbiamo dimostrarlo tutti noi perché quel qualcuno aveva il dovere di farlo non l’ha fatto per 33 anni. Ma dobbiamo dimostrarlo a chi ha il dovere oggi e a chi lo avrà domani. Dobbiamo dimostrarlo a tutte e a tutti noi. Questa è la nostra opportunità.
E ce la faremo perché non si può fermare l’onda, non si può fermare il cambiamento.
Fioralba Duma, segretaria del Movimento Italiani Senza Cittadinanza