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Il dittatore del giorno 1

di Franco
Ferrari

Donald J. Trump ha fatto seguire la cerimonia di insediamento con la sottoscrizione, altrettanto mediatizzata, di un centinaio di ordini esecutivi con i quali ha dimostrato di voler effettivamente mettere in pratica le numerose promesse presentate ai suoi sostenitori durante la campagna elettorale. L’uso degli ordini esecutivi come strumento di governo ha trovato un crescente utilizzo nelle ultime amministrazioni presidenziali. Biden vi aveva fatto ricorso per aggirare gli ostacoli posti dal predominio repubblicano in un ramo del congresso, ma Trump ha dato a questa scelta una portata decisamente più ampia.

In uno dei suoi comizi aveva dichiarato di voler essere un “dittatore” al momento del suo insediamento. Il numero e la portata degli ordini esecutivi sottoscritti nelle prime ore del suo insediamento ha rappresentato l’applicazione pratica di questa affermazione che poteva essere scambiata, come per tante altre, in una semplice boutade propagandistica. Molti degli atti sottoscritti cancellano altrettanti ordini esecutivi firmati da Biden, dimostrando la fragilità del ricorso a questo strumento, ma altri vanno molto oltre questa logica del ping pong istituzionale. In particolare la decisione di cancellare il diritto di chi nasce negli Stati Uniti di essere considerato cittadino degli stessi. Una previsione contenuta nel 14° emendamento costituzionale che viene cancellato con un atto che di per sé non potrebbe cambiare una norma fondamentale dell’ordinamento giuridico statunitense. I consiglieri di Trump si giustificano ricorrendo ad una lettura strumentale del testo, il quale recita: “tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e sottoposte alla relativa giurisdizione sono cittadine degli Stati Uniti”. Basta considerare che gli interessati non sono “sottoposti alla relativa giurisdizione” ed il gioco è fatto. Alcuni Stati guidati dai Democratici hanno già attivato un ricorso contro quest’ordine e lo hanno fatto in modo che i loro ricorsi siano sottoposti a dei giudici nominati dal loro stesso partito.

L’elemento significativo dell’iniziativa di Trump è che l’attuale Presidente, a differenza di Biden, dispone di una maggioranza repubblicana in entrambi i rami del Congresso oltre che di un controllo ferreo sulla Corte suprema, quindi non avrebbe avuto alcuna difficoltà a percorrere i normali iter legislativi.

È la stessa idea del potere presidenziale e dei suoi limiti, che vanno considerati tutti rimuovibili e subordinati, ad essere esposta nella celebrazione delle firme degli ordini esecutivi. Una affermazione di “volontà di potenza” che viene affermata immediatamente e anche un segnale che stavolta Trump può contare su una squadra di governo maggiormente preparata e omogenea nell’applicazione della sua volontà. Serve anche ad intimidire gli avversari, reali o potenziali, interni od esterni, e questo metodo è uno strumento corrente dell’agire politico trumpiano.

Si torna a discutere negli Stati Uniti, come è spesso avvenuto negli anni scorsi e su questo sito si è anche ripreso questo tema nelle scorse settimane, se si possa parlare di “fascismo” di fronte alle indubbie tendenze autoritarie trumpiane. Lasciando in sospeso questa valutazione è però certo che occorra chiarire un punto che è oggetto di discussione in settori della sinistra, anche in Italia.

L’avvento della seconda Amministrazione trumpiana va considerata una semplice increspatura in un sistema politico sostanzialmente omogeneo nel quale il conflitto tra le parti è puro teatro destinato a ingannare le masse? Questo è un punto di analisi fondamentale dal quale derivano importanti scelte di strategia politica.

Nel rispondere a questo interrogativo si possono individuare due diversi errori di valutazione. Da un lato considerare l’avvento di Trump e, più in generale, l’affermazione dell’estrema destra in molti paesi non solo occidentali come una minaccia esterna al sistema politico del capitalismo democratico. È evidente che esiste una tendenza di fondo e non di breve periodo di crescente conflitto tra i due oggetti: capitalismo e democrazia.

Contrariamente all’autocelebrazione dei sostenitori del primo, il rapporto tra l’uno e l’altra è fondato su una contraddizione fondamentale irrisolta. Mentre la democrazia si fonda sul principio dell’uguaglianza degli individui, il capitalismo si basa al contrario sulla disuguaglianza affermata come principio regolatore ineludibile (mascherata dalla retorica del “merito”). È stata in larga parte l’azione del movimento operaio socialista e comunista che, perseguendo il principio dell’uguaglianza sociale, ha posto le condizioni per una democratizzazione, relativa, del capitalismo. L’evoluzione politica e sociale degli ultimi decenni ha cambiato il contesto complessivo e ha consentito al capitalismo di tornare a sviluppare, senza vincoli, la propria naturale tendenza a produrre sempre maggiore disuguaglianza. Questa è fondata sulla concentrazione della ricchezza che si trasforma inevitabilmente in una concentrazione del potere.

Se questa è la tendenza di fondo della fase, l’affermazione di Trump conferma che la corruzione dei principi su cui si è fondata la democratizzazione del capitalismo nasce dall’interno molto più che da una presunta minaccia esterna degli stati autoritari (che pure esistono). Biden alla fine del suo mandato, caratterizzato dalla narrazione e dalle conseguenti iniziative politiche fondate sullo scontro tra stati democratici e stati autoritari, scontro che legittimava il ricorso alla guerra ed anche l’applicazione del doppio standard tra Ucraina e Israele, ha, pateticamente, scoperto, il pericolo della svolta oligarchica nella realtà di casa propria.

Gran parte della sinistra moderata e delle forze centriste interpretano l’ascesa dell’estrema destra come qualcosa che interrompe la naturale e tendenzialmente sempre positiva evoluzione del capitalismo, di cui hanno difeso e in parte promosso le tendenze alla finanziarizzazione e alla globalizzazione, pensando di potere “governare la tigre”. Mentre alcuni settori si sono ora aperti, prudentemente, ad una riconsiderazione critica delle politiche passate, altri ripropongono i vecchi schemi o, peggio ancora, si trasformano nella punta più avanzata dell’atlantismo occidentalista militarizzato.

Abbiamo assistito negli ultimi anni, in relazione alla crisi della globalizzazione, ad un rilancio dell’ideologia dell’Occidente considerato il cuore della civiltà sottoposto alle insidie del mondo esterno; “il giardino e la giungla” secondo la formulazione del socialdemocratico Borrell. Ora si può notare come nella retorica trumpiana ed anche nella sua concreta azione politica, l’Occidente come soggetto politico e blocco sovrastatuale non esista. L’unico attore in campo sono gli Stati Uniti, tutti gli altri sono potenziali nemici nei confronti dei quali vanno innanzitutto agitati gli strumenti della forza (economica in primo luogo ma se necessario anche militare). Tra i primi tre paesi sottoposti alle minacce trumpiane, due (Canada e Danimarca) sono occidentalissimi.

Lo smarrimento delle classi politiche europee è evidente e si misura con l’assenza di una visione ideologica alternativa a quella sulla quale si sono fondate le scelte politiche degli ultimi anni: il perseguimento a tutti i costi della guerra in Ucraina e la militarizzazione dell’Unione Europea molto al di là di quanto sarebbe consentito dagli stessi trattati fondativi. Il mutismo e l’imbarazzo della Von der Leyen sono comprensibili. Come mobilitare e chiedere di fare sacrifici (più spese militari e meno spese per le pensioni e l’assistenza sociale ha detto Rutte) agitando la retorica dei “valori occidentali” quando il più potente nemico di quei valori dovrebbe marciare alla tua testa?

Per la sinistra moderata e il centro liberale si può ritenere che l‘ascesa dell’estrema destra si fermi tornando alle politiche precedenti? Un’idea che sembrerebbe del tutto illogica, eppure assistiamo in alcuni paesi europei, ma anche negli stessi Stati Uniti, ad un riproporsi di attori (Hollande in Francia, Gentiloni in Italia, per fare due nomi) le cui politiche hanno fortemente contribuito ai successi della destra.

D’altra parte se sul versante moderato esiste il pericolo di pensare di uscire dalla crisi con un ritorno a prima (come lo “heri dicebamus” di Benedetto Croce alla fine del fascismo) occorre evidenziare anche l’altro errore di analisi di chi tende invece, sul versante sinistro, a rimuovere il salto di qualità determinato dall’arrivo di Trump e dall’affermazione crescente di una “internazionale reazionaria” che si sta saldando a livello globale e le cui politiche si alimentano e si peggiorano a vicenda.

Se la crisi del rapporto tra capitalismo e democrazia è l’elemento strutturale della fase, l’ascesa politica dell’estrema destra, direttamente sostenuta da settori sempre più ampi del grande capitale e in grado di consolidare e cementare un ampio blocco sociale reazionario, è l’elemento caratterizzante della congiuntura. Per la sinistra che vuole costruire un “blocco sociale alternativo” che non può formarsi, come ci spiegava Gramsci, senza sapienza tattica e strategica nonché la costruzione di una forza permanentemente organizzata, né lo “heri dicebamus” dei moderati né il “niente di nuovo sul fronte occidentale” dei massimalisti costituiscono la necessaria risposta politica.

La strada è stretta indubbiamente ma non ci si può incamminare senza essere mossi da una “grande ambizione”.

Franco Ferrari

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