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Il bilancio di Gaza insegni, la resistenza non si ferma

di Stefano
Galieni

I media europei, in particolar modo quelli italiani, enfatizzano in questi giorni il raggiunto cessate il fuoco a Gaza, gli scambi di prigionieri – dovremmo evitare di chiamare ostaggi quelli israeliani – e la gioia per le strade. C’è anche da aspettarsi, da un momento all’altro, che qualcuno proponga il genocida Netanyahu come candidato al Nobel per la pace, una pace che si chiama deserto e distruzione.
Il quadro internazionale lascia presagire un peggioramento delle condizioni di vita e di lotta per i palestinesi. Contemporaneamente al rallentamento delle operazioni di guerra a Gaza, si sono infatti intensificati gli attacchi in Cisgiordania, in particolare a Jenin, ritenuta il cuore della Resistenza, ma l’ombra minacciosa dell’IDF si va dispiegando in tutti i territori occupati, l’occasione per colpire duramente sembra sempre più vicina. Cosa potrebbe accadere? Si prenda il bilancio freddo del genocidio a Gaza operato in 470 giorni. La fonte è un comunicato dall’ufficio stampa governativo con un aggiornamento sui principali e raccapriccianti dati che, insieme, danno almeno l’idea di quanto si è realizzato in uno dei territori a più alta densità abitativa e che si estende per meno di 360 km quadrati e popolata da 2,5 mln di persone: 10.100 massacri commessi dall’esercito dell’occupazione israeliana; 61.182 martiri e dispersi; 14.222 dispersi inoltre non sono arrivati negli ospedali fino al 18 gennaio 2025. Le vittime giunte negli ospedali sono 46.960; 9.268 massacri sono stati commessi contro famiglie palestinesi, altro che obiettivi militari e 2.092 famiglie sono state annientate venendo cancellate dal registro civile, perché sono morti padre, madre e tutti i membri della famiglia, per un totale di 5.967 persone. Di altre 4.889 famiglie è rimasto in vita un solo membro, per un totale di altre 8.980 vittime. Fra questi morti i bambini accertati sono 17.861, di cui 214 erano neonati. 808 quelli con meno un anno di vita. E non solo con le bombe. In 44 sono morti per malnutrizione, carenza di cibo e politiche di affamamento, 8 a causa del freddo intenso nelle tende dei rifugiati, di questi 7 erano bambini. Le donne che risultano uccise sono 12.316; 115 vittime fra il personale medico; 94 della protezione civile, 205 giornalisti (più di quanti uccisi nei 5 anni della seconda guerra mondiale); 736 fra il personale della sicurezza e per l’assistenza umanitaria. Questo personale ha subito in totale oltre 150 attacchi mirati. Nelle 7 fosse comuni, allestite dall’esercito occupante, all’interno degli ospedali, sono state recuperate 520 vittime. Dei 110.725 feriti portati negli ospedali, almeno 15 mila necessiteranno di trattamenti a lungo termine, a 4.500 è stato amputato almeno un arto, per il 70% questa stima riguarda donne e bambini. Oltre 400 fra i feriti sono operatori dell’informazione. Solo il 10% di Gaza è stato dichiarato “zona umanitaria” ma nonostante questo, 220 centri di accoglienza e rifugio sono stati colpiti da bombardamenti. Il cessate il fuoco porta con se 38.495 bambini rimasti orfani di uno o entrambi i genitori; 13.901 donne hanno perso il marito, oltre 3.500 bambini rischiano ora la vita per freddo e malnutrizione; 12.700 feriti necessitano di essere trasferiti all’estero per ricevere le cure necessarie; 12.500 malati di cancro sono a rischio di morte e necessitano di terapie adeguate mentre altri 3.000 malati, con altre patologie, debbono poter ricevere il trattamento sanitario necessario all’estero. Gli spostamenti continui a cui è stata costretta la popolazione gazawi è stata causa di 71.338 casi di infezione da epatite virale e di 2.136.026 casi di malattie infettive. Il settore sanitario è sicuramente il più colpito con oltre 60 mila donne incinte a rischio, a causa della mancanza di assistenza sanitaria mentre sono almeno 350.000 i pazienti, affetti da patologie croniche, in condizioni di forte vulnerabilità a causa del blocco israeliano che impedisce l’ingresso di farmaci. Si aggiunge la pratica degli arresti che ha riguardato 6.600 persone di cui 360 fra il personale sanitario, 48 fra i giornalisti, 26 fra il personale della protezione civile. Secondo il comunicato 3 medici sarebbero stati “giustiziati” nelle prigioni.

Gaza è terra di sfollati, almeno 2 milioni, di 110.000 tende inutilizzabili e danneggiate. Sono state distrutte 216 sedi governative. 137 scuole sono state distrutte completamente dall’occupazione, 357 quelle danneggiate parzialmente, 12.800 gli studenti uccisi, 785.000 gli studenti privati dell’istruzione da questi orrendi 470 giorni. Almeno 760 sono stati gli insegnanti uccisi, 150 circa gli scienziati, gli accademici, i ricercatori giustiziati dall’occupazione. Anche i luoghi di culto non sono stati risparmiati: 823 moschee sono state totalmente distrutte e 158 gravemente danneggiate, ma anche 3 chiese non esistono più e la guerra non ha risparmiato nemmeno i cimiteri. 19 sui 60 esistenti sono stati distruti e 2300 risultano essere i corpi trafugati dai cimiteri stessi. Le immagini che solo raramente danno la dimensione del genocidio non rendono l’idea: 161600 risultano essere le abitazioni totalmente distrutte, 82 mila sono state rese inabitabili, 194 mila parzialmente distrutte dalle oltre 100 mila tonnellate di esplosivo lanciate su Gaza. Cessate il fuoco e intanto non ci sono più 34 ospedali, 80 centri sanitari, 162 strutture sanitarie di altro tipo, 136 ambulanze sono state colpite e rese inutilizzabili.  E poi 3680 chilometri di linee elettriche, 2.105 trasformatori elettrici aerei e sotterranei sono stati distrutti insieme a 330 mila metri lineari di reti idriche, 655 mila metri lineari di reti fognarie, 2.855 mila metri di strade e vie di comunicazione. Altro che Hamas, di Gaza si voleva e si vuole ancora cancellare ogni traccia di esistenza, non sono stati risparmiati nemmeno 206 siti archeologici, 42 stadi e palestre, 717 pozzi d’acqua. L’88% di Gaza non esiste di fatto più e, dai primi calcoli sono almeno 38 mld di dollari le perdite dirette dall’inizio del genocidio. Nonostante tuto questo, nonostante la leadership di Hamas e dell’intera resistenza sia stata colpita profondamente, soprattutto attraverso le azioni terroristiche degli omicidi extragiudiziali in cui Israele è maestra, si registra il fatto che sempre più giovani uomini vanno a ricompattare le fila del Movimento di Resistenza Islamica (Hamas), marciando in piazza, con la divisa, le armi e una fascia verde al braccio e anche nelle altre forze cresce l’arruolamento. Chi ha subito questi infiniti giorni di sterminio, chi è sopravvissuto avendo perso tutto, oggi è ancora più determinato e meno disposto ad arrendersi.

L’elenco di questi dati è importante perché serve a capire cosa ci aspetta se le promesse di Trump saranno mantenute. Al di là dei toni roboanti del comizio di insediamento, dei primi atti da ultras con cui intende presentarsi nell’agone internazionale, le sue scelte sono abbastanza prevedibili. Si apriranno i negoziati con la Russia dell’amico Putin – per la salvezza dell’Ucraina non è più disposto ad impegnare risorse, lasciando all’UE il compito – ed è possibile che, i due troveranno un accordo in grado di soddisfare le reciproche ambizioni. Al nuovo presidente USA, lo ha detto in ogni modo, del contesto europeo non interessa nulla, anzi la stessa alleanza rappresenta un intralcio. Invece l’appoggio alle politiche di pulizia etnica messe in atto da Israele, riceverà ancora più sostegno, va ricordato che fu Trump, nel suo precedente mandato a riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. Via libera insomma all’aumento degli insediamenti, allo sterminio della resistenza palestinese, alla istituzionalizzazione di un regime di apartheid in cui le città arabe come Ramallah, Nablus, Gerico, Hebron, Jenin, Tulkarem, Khalili, Betlemme saranno fra loro isolate e mantenute sotto costante osservazione. Un disegno già pronto e che di fatto, se realizzato, sancirà la fine di qualsiasi ipotesi di Stato di Palestina. Ma è una classica scelta da “apprendista stregone”. Non solo perché immaginarsi la resa o l’esodo di chi lotta da oltre 75 anni per i propri diritti è una mera riaffermazione suprematista che non farà altro che riaccendere i conflitti. In Cisgiordania ci si prepara a resistere e non ci si vuole rassegnare a subire quanto accaduto a Gaza. L’area geografica è più ampia e anche dal punto di vista meramente militare, l’IDF incontrerà molti più ostacoli nel mantenere un reale controllo del territorio. La fase che si apre sembra somigliare in maniera ultramoderna, ad uno di quei conflitti coloniali in cui l’occupante non potrà mai dormire sonni tranquilli. Arriveranno mesi di lacrime e sangue non solo da una parte. L’UE, le Nazioni Unite lavoreranno per impedire questo scempio o, ancora una volta, se ne laveranno miseramente le mani? La seconda scelta non conviene, potrebbe riflettersi in conseguenze anche da noi inimmaginabili.

Stefano Galieni

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