Come altri intellettuali conservatori, Angelo Panebianco è doverosamente sensibile al fascino discreto dello stato nazionale. Innanzitutto, in quanto esso si configura quale comunità culturale omogenea e coesa. Per questo, Panebianco non ha mai avuto simpatie per il multiculturalismo contemporaneo, ha sempre invocato paletti all’immigrazione e all’accoglienza, e in particolar modo ha sempre insistito per un tipo di integrazione “unilaterale”, o piuttosto assimilazione, dei migranti nella nostra società, prendendo di punta in particolare l’Islam, l’Altro inassimilabile per eccellenza. La sua visione dello stato nazionale è analoga, si direbbe, a quella di Edmund Burke, il prodotto del lento lavorio della storia e di tradizioni che danno stabilità e diventano seconda natura. Quindi Panebianco è sempre stato scettico nei confronti di idee e progetti per assetti politici sovra- o transnazionali, a cominciare dal federalismo europeo. Ma nel frattempo qualcosa sta cambiando, ed è tempo quantomeno di riconsiderare le proprie posizioni.
In un editoriale sul «Corriere della Sera» del 20 marzo, dal titolo emblematico I migranti e l’Europa più unita Panebianco suona le campane a morto per lo stato nazionale come lo conosciamo. La ragione è un’ondata migratoria di milioni che sta per abbattersi su tutto il Vecchio Continente, contro la quale, a quanto sembra, nulla potranno né il «governo dei flussi», né la crescente militarizzazione delle coste, né le perorazioni e i moniti elargiti dallo stesso Panebianco nel corso dei decenni. Sarà una vera e propria “sostituzione etnica”, nel senso cioè che «la faccia dell’Europa cambierà radicalmente, crescerà sensibilmente la presenza di gruppi con altre lingue, altri costumi, altre tradizioni. Gli Stati nazionali (nati in Europa) verranno sostituiti progressivamente da Stati multi-etnici nei quali una etnia dominante ma in declino dovrà stabilmente confrontarsi con etnie di minoranza ma in crescita». Si prospetta così il paventato multiculturalismo, con conseguenze nefaste non solo in termini di conflitto culturale, di cui è un esempio la Francia, ma anche perché «crescerà sempre più il numero di politici eletti, figure istituzionali, membri delle professioni, eccetera, espressi dalle minoranze» e quindi le «dinamiche elettorali, le strategie dei partiti, le agende dei governi e delle opposizioni ne verranno condizionate», con «crescente ingovernabilità di società a lungo nazionalmente omogenee».
Ma per fortuna c’è l’Europa. Rivedendo in parte le sue posizioni, Panebianco suggerisce di «allargare l’arena entro cui si definiscono i rapporti fra vecchia e nuova Europa e spostare verso l’alto il luogo ove si prendono le decisioni sulle regole di convivenza necessarie per governare l’aumentata eterogeneità culturale» in modo da poter «diluire le tensioni e disinnescare i conflitti meglio di quanto potrebbero fare i governi dei singoli Stati europei» (la cittadinanza e i diritti attualmente è materia che riguarda esclusivamente gli stati). Tanto, ci vorrà comunque ancora un po’ di tempo prima che alla Commissione Europea vada qualcuno non originario dell’«etnia dominante», no?
La proposta potrebbe ben apparire paradossale, soprattutto in considerazione che viene da un cittadino di un paese che ha una delle leggi più restrittive sull’acquisizione della cittadinanza in Europa, che più di altri limita i diritti politici dei residenti stranieri. Ma proprio perché è nel nostro paese che si pratica da anni uno sporco gioco trasversale sulla pelle dei migranti riguardo alla cittadinanza e ai loro diritti, le parole di Panebianco assumono un tono sinistro, quasi di avvertimento. Anche il richiamo all’Europa per sottrarre i diritti alle «minoranze» risuona di acre sarcasmo per chi in passato si è battuto per la “cittadinanza europea di residenza”. Ora, la cittadinanza europea di residenza non c’è. Il “vincolo esterno” come strumento per limitare le opzioni politiche e condizionare la sovranità popolare sì. Servirà anche a mantenere i privilegi dell’«etnia dominante»?
F.L.