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Verso l’agricoltura naturale passando dalle comunità territoriali e il socialismo libertario

di Alessandro
Scassellati

La transizione verso l’agricoltura naturale dovrebbe essere accompagnata da politiche pubbliche tese ad incoraggiare pratiche di democrazia partecipativa e forme comunitarie di auto-organizzazione territoriale ispirate a modelli basati sui bisogni umani fondamentali, sull’Economia Civile e sull’Economia del Bene Comune. Forme di organizzazione che possono risolvere il problema della co-progettazione e co-produzione, consentendo l’instaurazione di relazioni significative, dirette, orizzontali e continuative tra tutti gli attori delle filiere del cibo territoriali – dal produttore al consumatore, dalla terra alla tavola – abilitando la comunità dei consumatori ad orientare i suoi comportamenti di consumo a sostegno di quelle comunità di produttori di cibo che producono in modi coerenti con la loro idea di co-responsabilità. Ne abbiamo parlato con Giordano Stella, ricercatore in agraria e attivista.

Negli ultimi due anni abbiamo registrato alcuni cambiamenti rilevanti nelle politiche dell’Unione Europea, con alcune significative aperture da parte di un establishment politico europeo che per quasi due decenni è rimasto attestato sulla difesa dell’ortodossia dell’ordoliberismo. La nuova Commissione Europea ha lanciato un European Green Deal a partire dal suo insediamento nel dicembre 2019. La pandemia da CoVid-19, con i suoi drammatici impatti su salute, economia, società e politica, ha costretto Commissione e Consiglio Europeo a sospendere le regole sugli aiuti di Stato e sui vincoli di bilancio, applicando la “clausola di salvaguardia” (general escape clause) del Patto di Stabilità, prevista per casi eccezionali, consentendo a Banca Centrale Europea e governi di “pompare nel sistema denaro finché serve“. Un passo storico che ha congelato almeno temporaneamente (almeno sino al 1 gennaio 2023) il vero architrave delle politiche neoliberiste di austerità seguite nell’Unione Europea per oltre 20 anni.

Inoltre, seppure con qualche contrasto, sono stati approvati il programma SURE e il Nex Generation UE (NGUE) finanziati da centinaia di miliardi di euro reperiti sui mercati tramite la “condivisione del debito”, ossia l’emissione di “titoli europei”, garantiti dai singoli Stati pro quota, in percentuale sul PIL.

Green Deal e NGUE hanno due driver fondamentali che dovrebbero consentire la ristrutturazione delle economie capitalistiche europee su nuove basi: l’economia digitale e la green economy. Per quanto riguarda l’economia digitale, per l’Europa le grandi sfide sono quelle di costruire dei “campioni europei” che siano in grado di competere con gli oligopoli americani e cinesi, e allo stesso tempo di fissare standard e regole di funzionamento del mercato (dalla privacy alla concorrenza). Per la green economy gli obiettivi sono gli stessi, costruire dei “campioni europei” in grado di essere dei players globali in settori emergenti come l’auto elettrica, lo sfruttamento delle energie rinnovabili (dal bio-metano all’idrogeno, dall’eolico al fotovoltaico), l’economia spaziale, la produzione di cibo sostenibile e così via, e al tempo stesso essere il grande mercato con circa 400 milioni di consumatori affluenti che fissa standard e regole di funzionamento del mercato globale.

All’interno di questo scenario, l’agricoltura è ridiventato un settore strategico e soprattutto la cartina di tornasole riguardo alla reale volontà politica di costruire un capitalismo che sia in grado di incorporare il senso del limite in relazione allo sfruttamento delle risorse naturali ed umane. La Commissione Europea ha prodotto due documenti strategici nel maggio 2020 – la Strategia per la Biodiversità 2030 e la strategia Farm to Fork (Dal produttore al consumatore) – che prefigurano un primo serio impegno orientato a costruire un “capitalismo sostenibile”, stabilendo alcuni obiettivi ambiziosi rispetto alla situazione attualmente esistente.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del governo italiano ha citato questi due documenti, ma ha scelto solo alcuni dei temi proposti dalla Commissione, escludendone altri. Si parla di agricoltura di precisione, logistica, energie rinnovabili (dal fotovoltaico sui tetti di capannoni e serre al biodigestori per la produzione di bio-metano), infrastrutture (dighe e sistemi idrici), ma non si parla mai di agricoltura biologica, agroecologia, biodiversità e agrobiodiversità, fertilità del suolo, allevamenti intensivi e benessere animale, di equità nel funzionamento delle filiere agroalimentari, di ruolo dell’agricoltura nella gestione del territorio e di agricoltura di piccola scala basata sulla comunità e in grado di garantire condizioni di lavoro dignitose ad agricoltori e braccianti.

Il rischio è che si metta in atto un’operazione “gattopardesca” (una sorta di “smokescreen”, di cortina fumogena) in linea con l’affermazione “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” dell’aristocratico Tancredi Falconeri nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Arrivare a convincere gli italiani che sia possibile avere una “agricoltura industriale sostenibile”, vampirizzando termini come “sostenibile” e “resilienza” che per decenni sono stati utilizzati solo da un ristretto gruppo di pionieri e movimenti che, in condizioni di assoluta minoranza ed emarginazione, hanno sperimentato pratiche alternative al modello egemonico dell’agricoltura industriale, aprendo la strada all’agricoltura biologica, biodinamica e agroecologica. Modelli sostenibili e di economia circolare basati su tecniche e pratiche alternative, ma anche su visioni etico-politiche alternative alle logiche capitalistiche ed in particolare a quelle di un capitalismo regolato dal neoliberismo. Per questo oggi in Italia ci sono reti locali di agricoltori che in tanti areali agricoli stanno dando vita ad una cogestione comunitaria dell’agrobiodiversità, riappropriandosi di saperi e condividendo competenze di cui erano stati espropriati nel modello di agricoltura industriale, riacquistando autonomia e capacità decisionale riguardo al processo produttivo – dalla elaborazione delle sementi alla semina e al raccolto -, e realizzando innovazione sociale e processi produttivi resilienti, ossia capaci di adattarsi ai cambiamenti climatici.

L’estabishment mainstream si appropria di queste parole, lasciando cadere i loro significati, le loro implicazioni etico-politiche, trasformandole in parole d’ordine meramente tecniche, affrontabili con soluzioni tecnologiche – come l’agricoltura di precisione o la digitalizzazione delle catene logistiche. Una delle prime vittime di questa evoluzione è stata in questo ultimo decennio l’agricoltura biologica con la crescita del biologico industriale, focalizzato su metodi e certificazioni dei prodotti, lasciando fuori qualsiasi attenzione ai processi come quelli relativi alle condizioni di lavoro dei braccianti e alle capacità decisionali autonome degli agricoltori.

Abbiamo provato a ragionare di questi temi con Giordano Stella, un giovane ricercatore laureato in agraria con un dottorato di ricerca in energia e sviluppo sostenibile, assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Perugia. Stella rappresenta una giovane generazione della scuola agronomica italiana formatasi negli anni in cui le contraddizioni del modello dell’agricoltura industriale sono via via diventate più evidenti. Una generazione che ora sta via via rimpiazzando quella precedente che ha cantato il modello industriale, ha formato generazioni di tecnici che hanno operato per estendere l’applicazione di questo modello in Italia e all’estero, ha fatto ricerca grazie ai fondi ottenuti dalle grandi aziende dell’oligopolio globale sementiero, chimico, industriale e distributivo.

G.S. Credo che siamo di fronte a quello che Thomas Kuhn (1922-1996) avrebbe definito ad un cambiamento di paradigma1. Kuhn applicava la sua analisi all’evoluzione storica dei sistemi scientifici, ma penso che oggi questa logica di analisi possa essere applicata ai sistemi democratico, economico e sociale. Credo che la confusione di fronte alla quale ci troviamo vada interpretata come un segno che un paradigma economico-politico e sociale ha ormai esaurito il suo corso e che c’è la necessità di aprirne uno nuovo.
Questo periodo di transizione è pieno di contraddizioni. Queste per me sono abbastanza chiare. Il sistema esistente – economico, democratico e sociale – vuole riprodursi e per farlo deve, non può non accogliere almeno una parte delle pressioni che emergono dalla coscienza collettiva. La necessità di una transizione verso un sistema produttivo e sociale ecologico sta maturando sempre più nella coscienza collettiva, ogni giorno che passa. Quindi, i sistemi strutturati economico-politici esistenti devono cercare di dare una risposta e lo fanno cercando di sussumere, di inglobare in qualche modo almeno una parte delle proposte innovative che emergono dalla società.
Questo viene fatto in due modi. Da un lato, ci sono delle tensioni positive che emergono da alcune persone e gruppi che vogliono promuovere una transizione verso il cambiamento e che riconoscono che è importante confrontarsi con il sistema esistente, portando al suo interno degli elementi di innovazione. Da questo punto di vista, ritengo che sia un segnale positivo il fatto che alcune parole vengano utilizzate per elaborare delle strategie per il cambiamento. Dall’altro, c’è chi queste parole le utilizza in modo strumentale, trasformandole in dei contenitori vuoti. Queste due tendenze ci sono entrambe, contemporaneamente.
Ad esempio, ci sono bandi europei per la ricerca in cui per la prima volta si finanziano azioni riferite a parole come agroecologia e permacultura. Tra l’altro, la cosa importante è che è evidente che chi ha scritto quel particolare bando possiede una vera conoscenza dei problemi che si vogliono affrontare attraverso delle azioni di ricerca e sperimentazione. Insomma, qualcuno è riuscito ad entrare, in qualche modo, nei meccanismi decisionali del sistema e sta creando, aprendo degli spazi per gli altri.
Contemporaneamente, nelle grandi strategie che stiamo vedendo adesso e che sono messe a punto dai governi per rilanciare le economie dopo la crisi della pandemia da CoVid-19, molte delle parole (e delle concettualizzazioni) più alternative non compaiono, mentre quelle che vengono utilizzate sono spesso usate in maniera strumentale.
Ad esempio, se prendiamo la parola “sostenibiltà” che evoca un concetto che è molto interessante, perché dà un orizzonte, possiamo dire che questa può essere “forte” o “debole”, perché è composta da tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica. Le tre dimensioni hanno un senso e intrecciarle tra loro ha un grande senso, se fatto con coscienza. La “sostenibiltà” “forte” prevede la ricerca di un equilibrio tra le tre dimensioni, ma con un’attenzione stringente verso i limiti ambientali. Quella “debole” no, può richiedere anche solo che il welfare derivante dalla base di capitale complessivo rimanga intatto. Per questo la parola “sostenibiltà” è facilmente strumentalizzabile per finalizzare le politiche per riprodurre il paradigma che sta decadendo. Per favorire un arroccamento del sistema su sé stesso. Un sistema che cerca di mettere in campo tutte le strategie per poter mantenere lo status quo.

A.S. Proviamo a definire cosa è in agricoltura il sistema che si arrocca su sé stesso. Di che cosa stiamo parlando? A cosa ci riferiamo?

G.S. All’agroindustria che è una componente fondamentale del sistema economico politico capitalista di tipo neoliberista in cui viviamo da diversi decenni. Pertanto, l’agricoltura è centrale nel ragionamento sul cambiamento di paradigma. C’è un motivo per cui l’agricoltura viene definita come il settore primario. Si è sempre detto che la ricchezza di una società, di un Paese, nasce dal lavoro della terra, perché questa è l’unico fattore che produce veramente, assieme al lavoro dell’uomo. L’agricoltura è il perno centrale dell’economia, anche perché producendo cibo risponde ad uno dei bisogni fondamentali dell’uomo.
Oggi, di fatto, il sistema egemone in agricoltura è l’agroindustria. Ovviamente, ci sono agricolture e agroindustrie che sono molto diverse tra loro. Quelle americane sono diverse da quelle italiane, da quelle cinesi o della Birmania, anche se ci sono delle caratteristiche comuni.
L’agricoltura italiana e il sistema di trasformazione e distribuzione agroindustriale italiano non hanno le stesse caratteristiche di quelli americani. L’agricoltura e l’agroindustria italiana sono molto più sostenibili di quelle degli Stati Uniti. In Italia c’è una presenza di grandi multinazionali con un orizzonte di mercato globale, ma questa presenza è meno caratterizzante, meno forte rispetto alla strutturazione delle diverse filiere agricole ed agroalimentari degli Stati Uniti.

A.S. C’è da dire anche che in Italia oltre il 90% delle aziende agricole ha meno di 10 ettari di superficie coltivabile. Poi, l’Italia ha la particolarità di avere poche superfici agricole di pianura, tra l’altro sempre più fagocitate dall’espansione urbanistica, delle grandi infrastrutture di comunicazione, dei capannoni industriali e della logistica. Gran parte della superficie agricola italiana ha condizioni geologiche e pedologiche (collina e montagna) estremamente variegate che danno vita a tante “agricolture verticali” che fanno leva anche sugli oltre 8 mila microclimi individuati sull’intero territorio nazionale, oltre che sulle tradizioni produttive, su patrimoni di agrobiodiversità autoctone frutto di secoli di adattamento e sui saperi tecnici specifici degli agricoltori. Per questo è un po’ paradossale che la Missione 2 “Rivoluzione verde e transizione ecologica” del PNRR non parli assolutamente di questa parte dell’agricoltura italiana, ma abbia in mente soltanto quella parte – quel 10% – che è strettamente interconnessa all’agroindustria e che pratica attivamente l’agricoltura industriale e che potrà praticare anche la cosiddetta “agricoltura di precisione”.

G.S. Di questa situazione ne sono consapevoli anche i professori universitari di agronomia della vecchia guardia. Con la tecnologia sicuramente si può fare tanto, ma non è vero che la tecnologia sia sempre neutra. Certo, può essere utilizzata per il bene comune. Alcuni aspetti dell’agricoltura di precisione mi sembrano comunque interessanti da indagare, ma in un contesto di produzione, trasformazione e distribuzione agroalimentare completamente diverso. Credo che a questo proposito ci dobbiamo interrogare su cosa possiamo immaginare di differente.
Se, come dicevo, siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma economico, democratico e sociale, questo comporta la necessità di immaginare nelle varie aree – a cominciare dall’agricoltura – quali possano essere dei cambiamenti di paradigma. Per quanto mi riguarda il paradigma futuro deve prevedere dei cambiamenti sostanziali, strutturali, nel modello economico, nell’organizzazione democratica e nello stato di diritto. Per quanto riguarda l’economia ritengo che siano molto interessanti alcuni modelli economici eterodossi che stanno emergendo. Ne cito tre che per me sono molto interessanti.
Uno è quello proposto dall’economista cileno Manfred Max-Neef (1932-2019) per un modello di sviluppo basato sui bisogni umani fondamentali2. Per Max-Neef l’economia deve rispondere ai bisogni dell’uomo, deve essere su scala umana e perciò individuare degli strumenti – dei soddisfattori – che consentono di attivare dei processi economici per soddisfare i bisogni umani.
Un altro modello interessante è quello dell’Economia Civile riportato in auge negli ultimi anni da Stefano Zamagni, Luigino Bruni ed altri3. Di fatto, storicamente questa era la grande scuola di economia alternativa all’economia politica anglosassone, presente in Italia già nel 1700. Il contributo del modello dell’Economia Civile è difficile da digerire, perché siamo ormai abituati a ragionare per cornici specifiche. Supera il duopolio di Stato e mercato e ci mette un terzo polo, quello della comunità.
D’altra parte se pensiamo anche alla Rivoluzione Francese, il modello interpretativo della società era basato sulla triade liberté, egalité e fraternité. Noi, oggi, la libertà l’associamo al mercato, l’uguaglianza la dovrebbe garantire lo Sato, mentre la fraternità esiste in quanto esistono la solidarietà e la comunità.
Una riflessione di questo tipo, rapportata al sistema economico, crea grandi attriti tra coloro che sostengono la primazia del mercato o dello Stato. Il mercato è sempre esistito. È il luogo degli scambi, ma la questione cruciale è come gli scambi vengono realizzati. Se si fanno con fraternità, ossia dove c’è una comunità coesa e che pratica le “virtù civili” e, in particolare, la reciprocità, lo scambio può essere molto diverso dal mercato della “mano invisibile” che si autoregola.

A.S. Su questo tema credo che sia fondamentale guardare ad un autore come Karl Polanyi e alla sua critica al pensiero economico liberale e in particolare alla tendenza della teoria neoliberale a separare i processi economici – di mercificazione terra, lavoro, moneta – dal più ampio contesto culturale, sociale e politico in cui essi sono integrati e incapsulati (“embedded”). La mercificazione spinta del lavoro, della terra e della moneta minaccia di distruggere le comunità stesse che hanno tentano di realizzarla nel corso della loro ricerca di crescita economica e competitività. Di recente, ho scritto un articolo che partendo da questa sua tesi e da quella conseguente del “contro movimento” cercava di riflettere se dal neoliberismo si esce a destra o a sinistra4.

G.S. Questo tipo di pensiero mette radicalmente in discussione il paradigma neoliberista, perché dimostra l’assoluta artificiosità su cui poggia il suo intero edificio. Nei modelli microeconomici l’equilibrio nel mercato c’è solo quando non sussistono condizioni di oligopolio o di monopolio. Questo significa ce ci devono essere tante aziende, piccole o comunque medie.
Ma, se ci fossero tante aziende medie gestite in forma cooperativa o comunque democratica, non saremmo di fronte ad un sistema a forte orientamento socialista? Questa sarebbe la cerchiatura del quadrato (dico così perché mi piace più il cerchio del quadrato). Il punto però è questo: perché non osiamo immaginarci nuove strade? Strade immaginate, ad esempio, dai pensatori del socialismo libertario. Il punto è che se cambia il modo in cui vengono fatti gli scambi sul mercato, cambia completamente anche la struttura del sistema.
Ai due modelli di Max-Neef e dell’economia civile, va poi aggiunto quello dell’“Economia del Bene Comune” dello storico austriaco Christian Felber che dice semplicemente che l’obiettivo dell’economia è realizzare il “bene comune”. Per cui il successo economico si ha quando una realtà economica realizza il “bene comune”. Questo modello utilizza lo strumento del “bilancio del bene comune” che può essere utilizzato sia dagli enti pubblici sia dalle aziende private. Anche qui si supera il duopolio Stato-mercato. Questo bilancio è fatto da una serie di indicatori attraverso i quali questi enti possono autovalutarsi.
Tutto questo discorso per dire che non possiamo immaginarci un nuovo sistema produttivo agricolo senza partire da questo cambiamento di paradigma riferito al sistema economico.
Gli altri aspetti sono riferiti al cambiamento del sistema democratico e dello stato di diritto. Le democrazie che conosciamo oggi sono arrivate anch’esse ad un punto critico e di svolta. La rappresentanza, per come la conosciamo oggi, non funziona più. Questo è sotto gli occhi di chi lo vuole vedere. Ad esempio, oggi in Italia abbiamo un Presidente del Consiglio che rappresenta i potentati dell’economia del capitalismo finanziario con tutti i partiti che lo sostengono.
Economia, democrazia e diritto si influenzano in maniera reciproca nel dare vita alle loro strutture. La definizione di impresa nel diritto commerciale è una definizione tipicamente capitalistica, questo significa che una volta che è stata codificata in quel modo, l’impresa assume per forza il carattere capitalistico.
Questo tipo di ragionamento vale anche per il sistema democratico. Se si crea una rappresentanza distaccata dai rappresentati in maniera sistematica, si promuove la creazione di élite che poi diventano non solo politiche, ma anche economiche e finanziarie. Per questo anche il funzionamento del sistema democratico andrebbe ripensato e completato, ispirandosi ai modelli ideati dal filosofo, socialista libertario e teorico dell’ecologia sociale Murray Bookchin (1921–2006) o dal filosofo non violento Aldo Capitini (1899-1968). Un modello democratico centrato su territorio e basato sulla democrazia partecipativa e un’economia solidale ed ecologica.
Tornando all’agricoltura, credo che anche questa vada democratizzata, con il diritto che deve accompagnare questa transizione verso la democratizzazione.
Personalmente sto lavorando su due strumenti diversi. Il primo strumento è un modello di co-progettazione della Sovranità Alimentare, arrivando fino ad un livello nazionale5. Ho messo a punto un sistema fatto di due parti, una parte tecnica composta da tre strumenti informatici e una parte composta da una proposta di democrazia partecipativa, all’interno della quale utilizzare gli output ottenuti attraverso gli strumenti informatici. Il primo dei sistemi informatici serve per calcolare il terreno necessario per assicurare il fabbisogno alimentare della popolazione in input, utilizzando tre diete differenti – onnivora, vegetariana e vegana -, considerando un’agricoltura naturale biologica. Il secondo strumento informatico serve per capire dove è possibile fare queste coltivazioni sul territorio. Il terzo strumento ci dice quanto il territorio, date la popolazione e le diete considerate, può essere autonomo dal punto di vista della sovranità alimentare.
Questi strumenti ci permettono di fare delle ipotesi. Se aumentassimo del 10% il numero delle persone che adottano diete vegetariane, ad esempio, cosa accadrebbe? Se riducessimo il numero delle proteine animali all’interno della dieta onnivora, che cosa accadrebbe?

A.S. Quindi, questi sarebbero degli strumenti che consentirebbero al decisore pubblico di avere un quadro conoscitivo adeguato per elaborare ed attuare delle politiche pubbliche.

G.S. Attenzione, i sistemi informatici sono uno strumento al servizio del decisore pubblico, dei portatori di interesse e dei tecnici. Non sono la verità in alcun modo, sono semplicemente degli strumenti che permettono di fare delle valutazioni più accurate per poi proporre delle politiche di promozione sia dell’agricoltura sia di una consapevolezza degli effetti delle diete alimentari.
Noi abbiamo una coscienza e negli spazi di democrazia partecipativa la coscienza deve essere favorita attraverso l’uso di strumenti e processi specifici ed utilizzata per valutare gli output che provengono dalle analisi degli strumenti informatici. Attraverso dei percorsi di democrazia partecipativa tutti gli output dovrebbero essere discussi all’interno di percorsi di confronto tra i diversi portatori d’interessi a livello territoriale, regionale e nazionale per poi poter costruire degli accordi commerciali di rilocalizzazione e di riorientamento delle produzioni verso gli obiettivi di resilenza alimentare territoriale e di un’agricoltura naturale biologica. Percorsi che avrebbero anche l’obiettivo di aumentare la consapevolezza dei consumatori rispetto a ciò che consumano.

A.S. Comunque il tuo modello di democrazia partecipativa applicato all’agricoltura ha come presupposto che l’agricoltura produca essenzialmente cibo?

G.S. Questo chiaramente sì. D’altra parte, il cibo non è un prodotto per realizzare un profitto, ma è un nutrimento per l’uomo che permette e a chi lo produce di realizzare un reddito. Questo per me fa una grande differenza.
Il punto è che dobbiamo garantire un reddito a chi produce cibo. Il cibo dovrebbe essere venduto in un mercato che non è più quello del mercato capitalistico, ma in un mercato che mette al centro la comunità, la reciprocità e quindi il bene comune e la collettività. Questa sarebbe una soluzione regolamentabile attraverso un cambiamento del sistema democratico, con una maggiore partecipazione attiva dei cittadini, ma anche attraverso il cambiamento giuridico che potrebbe conseguire da questa trasformazione della democrazia in democrazia partecipativa.

A.S. Sappiamo che una parte importante dell’agricoltura attuale non produce cibo per gli uomini. Produce materie prime per l’energia (bio-etanolo, ad esempio, o bio-gas) e soprattutto materie prime per i mangimi necessari per alimentare i miliardi di animali – bovini, suini e avicoli, soprattutto – tenuti prigionieri negli allevamenti intensivi.

G.S. È un tema complesso. Penso comunque che il terreno agricolo non dovrebbe essere utilizzato per produrre energia. C’è una competizione incredibile per il cibo, la popolazione aumenta e i terreni coltivabili sono una risorsa scarsa, come l’acqua. Se il cibo può essere venduto per fare un profitto e se sulla carne i profitti sono maggiori, è chiaro che c’è chi investe per produrre più carne, provocando a cascata maggiori emissioni climalteranti, una maggiore produzione di soia che porta ad una maggiore deforestazione, e così via, in un circolo vizioso sempre più distruttivo per il benessere del pianeta.

A.S. Il 70% delle terre coltivabili nel mondo sono utilizzate per produrre cibo (pascoli e mangimi) per gli animali e non per gli uomini.

G.S. Partiamo però dalla constatazione che oggi l’agricoltura produce cibo per 10 miliardi e mezzo di persone. Poi, c’è un doppio problema di allocazione. Da un lato, ne viene sprecato il 30%, mentre dall’altro non viene allocato in maniera equa, per cui ci sono circa due miliardi di persone che sono in sovrappeso, perché mangiano troppo, il che contribuisce a un’elevata prevalenza di patologie legate all’alimentazione (tra cui vari tipi di cancro) e ai relativi costi sanitari, mentre al tempo stesso 870 milioni di persone hanno problemi gravi di sottonutrizione. Questo indica che c’è qualcosa che non funziona nel sistema economico.

A.S. È bene ricordare che ancora oggi è l’agricoltura contadina che sopporta gran parte, circa il 70%, del peso di nutrire il pianeta. Si tratta di un’agricoltura fatta di micro-imprese individuali e familiari (il 94% ha a disposizione meno di 5 ettari) in cui il lavoro è prevalentemente svolto dal titolare, dai suoi familiari e conviventi e che coinvolge oltre 500 milioni di famiglie nel mondo (circa 3,5 miliardi di persone, con 230 milioni di famiglie in Cina e 90 milioni in India), utilizzando meno del 25% delle terre agricole e quasi nessun combustibile fossile e prodotto chimico. Questo mentre il 70% di campi coltivati, allevamenti e frutteti nel mondo viene gestito solo dall’1% delle aziende agricole, secondo le ricerche condotte da International Land Coalition, Oxfam e World Inequality Lab. Dagli anni ’80, il controllo della terra è diventato molto più concentrato (soprattutto in Europa e USA) sia direttamente attraverso la proprietà che indirettamente attraverso l’agricoltura a contratto, il che si traduce in forme di agricoltura intensiva ed industriale, in monocolture più distruttive e in meno piccole aziende agricole coltivate con cura. Fenomeni che che stanno accelerando il declino della qualità del suolo, l’uso eccessivo delle risorse idriche e il ritmo della deforestazione.

G.S. Sono molto pessimista nel brevissimo periodo e molto ottimista nel medio-lungo. Purtroppo penso che attraverseremo degli sconvolgimenti gravissimi e molto dolorosi per la collettività, per la popolazione mondiale. Dopo questo anno e mezzo di pandemia da CoVid-19 ne sono purtroppo convinto. Non credo che riusciremo ad affrontare in maniera opportuna i cambiamenti climatici. Non credo che chiuderemo bene questa situazione che stiamo vivendo. Ne sono rammaricato, ma credo che il mio sia realismo. Sono triste perché la pandemia, come quello che seguirà, sarebbe stato tutto evitabile, ma la coscienza collettiva ci ha portato qua e la velocità con cui avvengono le trasformazioni è troppo lenta rispetto a quella con cui ci si avvicina alle condizioni catastrofiche. D’altra parte si parla solo di alcune cose. Ad esempio, non si dice che siamo ormai arrivati al picco di estrazione delle risorse naturali non rinnovabili. Questo è un altro segnale che siamo arrivati alla fine di un sistema produttivo.

A.S. Che fare nel frattempo?

G.S. Noi facciamo il nostro, quello che si può fare e cerchiamo di costruire un immaginario. Quello che posso dire è che il terreno agricolo che serve per l’autonomia alimentare in Italia per un onnivoro è di circa 4.900 mq all’anno, per un vegetariano è di circa 4.600 mq, mentre per un vegano è di 1.700 mq. Quindi, si capisce bene quale sia la differenza tra i diversi regimi alimentari. La differenza tra vegetariano e vegano è data dal fatto che il primo include il consumo di latticini e uova che hanno bisogno di un sistema di allevamento.
Le politiche dovrebbero, quindi, promuovere innanzitutto un cambiamento della dieta alimentare, con una transizione verso una riduzione del consumo di carne e di prodotti derivati dagli allevamenti animali. Questo è evidente, lo sanno tutti, anche se per ora non si fa molto.
Noi vogliamo lavorare ad un progetto che ci consenta di arrivare a dire in modo molto preciso quanto dovrebbero essere ridotte le proteine animali per poter arrivare alla resilienza alimentare di un Paese come il nostro, con una riduzione importante di uso di suolo e di impatto. E, quindi, arrivare ad una riarmonizzazione dell’uitilizzo del suolo verso una corrispondenza con il reale fabbisogno di cibo per l’uomo.
È un passaggio che è possibile fare, ma ci vuole un percorso e questo tema è collegato alla seconda strategia d’azione su cui sto lavorando. Le pressioni al cambiamento devono venire sia dall’alto sia dal basso e quella dal basso è fondamentale. Se si aprono degli spazi attraverso dei bandi pubblici che vanno in una certa direzione e ci permettono di promuovere progetti di sviluppo, di ricerca, di cooperazione allo sviluppo, cerchiamo di costruire il passo successivo verso la transizione che auspichiamo. In realtà, in questo modo stiamo promuovendo ulteriori future politiche pubbliche più stringenti rispetto al riorientamento del sistema.
Credo che in questa fase sia necessario essere strategici e, quindi, essere pronti ad utilizzare tutto quello che ci viene offerto per spingere oltre la frontiera. Da questo punto di vista, non mi preoccuperei dei termini utilizzati per definire i fenomeni, mentre mi preoccuperei di costruire degli esempi che siano delle pratiche vissute. Ad esempio, posso utilizzare un bando europeo per mettere in atto un progetto che lavora sulle dimensioni economiche, di democrazia e di diritto, costruendo un contesto e un percorso che le persone possono vivere. Se le persone vivono l’esempio nella loro carne, progressivamente si disinnesca quel meccanismo del “non è possibile”, con cui siamo stati pasciuti. Quell’idea che “non è possibile un altro sistema”. Io direi che non è possibile continuare con questo sistema.
Dobbiamo andare oltre attraverso delle pratiche. L’esempio è potentissimo se funziona per davvero. C’è caso che attorno all’esempio nascano nuovi progetti, diventando un processo a macchia d’olio. È un processo di transizione che non si fa in un anno, perché probabilmente ci vorranno 40 anni per arrivare ad un sistema completamente differente. È su queste dimensioni temporali che ci dobbiamo misurare, continuando a fare il nostro lavoro.
Il cambiamento parte dalla consapevolezza interiore delle persone, ma quello che noi dobbiamo fare per facilitare questo percorso, è di costruire delle strutture che permettano a chi vuole fare questo cambiamento di poterlo fare. Rendere la strada meno in salita.

A.S. Nel caso italiano, proprio la frammentazione delle strutture aziendali agricole fa sì che i prodotti, anche di eccellenza, spesso dei prodotti unici di quel 90% di piccole e medie aziende, non abbiano, di fatto, un mercato, o meglio siano totalmente escluse dal circuito della Grande Distribuzione Organizzata che è ormai diventato il sistema logistico e distributivo dominante non solo nelle aree metropolitane, ma anche nelle piccole città e nei territori semiperiferici. Quindi, oggi il vero problema è quello di cosa fare per fare in modo che queste aziende e i loro prodotti incrocino quel crescente numero di consumatori consapevoli finali che sono alla ricerca di cibo per il proprio benessere prodotto da un’agricoltura sostenibile di prossimità con un buon rapporto qualità prezzo. Cittadini-consumatori che hanno capito che è attraverso le loro scelte personali che si può costruire un’alternativa al modello distruttivo dell’agricoltura industriale. Ci sarebbe bisogno di costruire dei sistemi distributivi diversi che siano in grado di valorizzare e distribuire, rendere accessibili, i prodotti di queste piccole e medie aziende agricole.

G.S. Questo è esattamente il tema del secondo progetto su cui sto lavorando. Abbiamo analizzato tutte le esternalità negative della GDO, ma anche cercato di capire come mai gli “alternative food networks” non sono mai veramente decollati in Italia e nel mondo. Perché le filiere alternative del cibo non sono riuscite ad emergere dalla nicchia? Se sono alternative non possono essere rimaste in un contesto di nicchia dopo 25 anni.
Intendiamoci, oggi possiamo fare questo tipo di ragionamenti, perché ci sono stati dei pionieri che hanno smosso le acque e hanno costruito dei percorsi. Grandissimo rispetto per gli “alternative food networks”, che in realtà promuovono un altro orizzonte in termini valoriali e di pratiche economiche ed ecologiche, però di fatto non sono alternativi al sistema della GDO, non sono riusciti a fare un cambio di scala.
Tra l’altro spesso sono stati assorbiti. Lo stesso biologico industriale è un esempio perfetto di questa sussunzione da parte della GDO. Il biologico nasce su iniziativa di produttori agricoli per cercare di creare un sistema di produzione e distribuzione alternativo e oggi lo troviamo in tutti i supermercati e c’è la monocoltura biologica che alla fine rappresenta una bella contraddizione.
Noi abbiamo analizzato 4 sistemi di “alternative food networks”, i GAS (Gruppi di Acquisto Solidali), i GODO (Gruppo Organizzato Domanda Offerta), le CSA (Comuntà a Supporto dell’Agricoltura) e le Food Coop modello Park Slope, che sono quelle su cui ho minori perplessità in termini di capacità di realizzare un cambio di scala. I limiti di questi sistemi hanno a che fare con il livello troppo complesso del coinvolgimento necessario delle persone coinvolte per farli funzionare. Dobbiamo creare delle strutture che siano accessibili a tutti, tenendo conto dell’accessibilità logistica e temporale, della variabilità e del costo dei prodotti. Bisogna ragionare su nuove forme di economia di scala. In un sistema cooperativistico ci possono essere delle economie di scala che sono eque per tutti coloro che partecipano alla filiera e, quindi, più inclusive, capaci di ampliare la platea dei partecipanti.
Noi abbiamo preso la matrice di Max-Neef che prende in considerazione i bisogni assiologici ed esistenziali che si presume siano uguali per tutti gli esseri umani e ai quali si risponde attraverso dei soddisfattori, ossia con delle risposte che una società dà a quei bisogni specifici. Abbiamo preso tutti i portatori presenti nella filiera agroalimentare e abbiamo cercato di individuare i soddisfattori di tutti i bisogni di tutti i portatori di interesse. Da questa analisi abbiamo individuato degli elementi progettuali che potessero essere di cerniera tra tutti i portatori di interesse. In buona sostanza, la questione è che dobbiamo trovare delle soluzioni che possano andare bene per tutti. Il consumatore ha bisogno che gli venga garantita un’accessibilità a prodotti al giusto prezzo, mentre il produttore un equo compenso per prodotti con certi contenuti ecologici, e così via.
La nostra idea è quella di realizzare una struttura prototipale che si chiama “Villaggio del cibo” e che deve consentire di realizzare un nuovo modello di produzione, trasformazione e distribuzione del cibo prodotto da un’agricoltura naturale il più possibile locale per rispondere al fabbisogno alimentare di 1.500 persone (con la possibilità di arrivare fino a 6 mila persone).
È una struttura fisica e di governance dei processi. È un supermercato gestito da una cooperativa di comunità, che è un nuovo strumento giuridico molto interessante perché non ha un mutualismo prevalente. Tutti i portatori di interesse possono farne parte e questo significa che non si difende una parte della filiera, ma l’intera filiera, mettendo in primo piano il tema dell’equità nel funzionamento della filiera.
Altro tema centrale è quello della prossimità nella costruzione dell’areale di questa struttura, con almeno un 20% dei prodotti provenienti da produttori ultralocali, localizzati in un raggio massimo di 50 km. Un 50-60% da produttori locali (entro 250 km). La rimanente parte entro i 500 km. L’obiettivo é quello di costruire un rapporto diretto di collaborazione e coprogettazione con le aziende fornitrici, facendole anche entrare nella cooperativa.
Per il resto è una Food Coop con delle persone che sottoscrivono un “patto per il cibo” (quindi con un sistema valoriale) e si occupano degli approvvigionamenti alimentari. Una struttura accessibile, con una variabilità alta di prodotti agricoli e agroalimentari (non solo quelli locali) e un’accessibilità logistica alta. Soprattutto, i prezzi potranno essere molto sostenibili per i produttori di prodotti agricoli (equo compenso), ma anche per i consumatori (equo prezzo), perché la cooperativa sarà dotata di micro-strutture modulari per la trasformazione dei prodotti agricoli e vi sarà anche una coprogettazione dei prezzi dei prodotti. Ad esempio, secondo i nostri conti, per la filiera del pane, riconoscendo il 33% in più dei costi di produzione al produttore dei cereali, si arriva ad un prezzo di breakeven di 1 euro e 26 centesimi al kg, al quale possono essere aggiunti un 15% in più precauzionale e una scontistica per i soci che si impegnano a contribuire con ore lavoro alla gestione (del 20%) e alla coprogettazione delle produzioni (del 10%). Aggiungendo questi costi, 1 kg di pane biologico locale costerà circa 2 euro per un non socio della cooperativa. Quindi, come si vede si può costruire un’economia di scala legata alla forma cooperativistica e che difende l’intera filiera.

A.S. È una soluzione organizzativa molto interessante, che potrebbe risolvere il problema della co-produzione, consentendo l’instaurazione di relazioni significative, dirette, orizzontali e continuative tra tutti gli attori delle filiere del cibo – dal produttore al consumatore, dalla terra alla tavola – facilitando la nascita e il consolidamento di comunità di co-produzione che includono produttori agricoli, trasformatori e consumatori finali. Una soluzione che abilita la comunità dei consumatori consapevoli ad orientare i suoi comportamenti di consumo a sostegno di quelle comunità di produttori che producono in modi coerenti con la loro idea di co-produzione e co-responsabilità.

G.S. La cooperativa di comunità permette di creare degli spazi di democrazia partecipativa. Il “Villaggio del cibo” sarà strutturato con uno spazio per la vendita del cibo, uno spazio per i moduli per la trasformazione delle materie prime e uno spazio per la democrazia partecipativa con un’area per la formazione permanente dei consumatori e dei produttori, e un’area per l’aggregazione sociale con ristorazione e spazi artistici e culturali. I produttori e i consumatori diventano comunità, non due gruppi antagonisti, ma due gruppi legati da rapporti di reciprocità e dalla consapevolezza nella produzione e nel consumo.
Il sistema di governance della cooperativa sarà quello della sociocrazia, nota anche come governance dinamica, ossia un sistema di gestione che ha lo scopo di arrivare a soluzioni che creino sia un ambiente socialmente armonioso sia una organizzazione ed una impresa produttiva. La sociocrazia (originalmente chiamata Metodo Sociocratico dell’Organizzazione in Cerchi, in inglese Sociocratic Circle-Organization Method o SCM) è stata sviluppata in Olanda da Gerard Endenburg, ingegnere elettronico e imprenditore, ed è una revisione dell’approccio originario sviluppato da Betty Cadbury e Kees Boeke, educatori e attivisti pacifisti.


Giordano Stella è ricercatore in agraria e attivista

  1. Si veda The structure of scientific revolutions, 1962 (tradotto in italiano nel 1969).[]
  2. Max-Neef, M. A (1981). From the Outside Looking In: Experiences in Barefoot Economics (PDF); Max-Neef, M. A., Elizalde A. e Hopenhayn M. (1991), Human Scale Development (PDF); Max-Neef, M. A. e Ekins P. (1992), Real-Life Economics: Understanding Wealth Creation, Routledge .[]
  3. Bruni L. e Zamagni s., Economia civile, Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2004.[]
  4. Scassellati A., Il contro-movimento. Si esce a destra o a sinistra dalla crisi del neoliberismo?, su questo sito.[]
  5. https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S1470160X13002422?casa_token=3WUpJvw3RAAAAAAA:1ADD5UClnL5XciWLtuv6ilKGwrjoAQq_CwC33VGm-lruYsBvtNPfF-PbZzY9vAyggzvNRd_v4g ; https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0264837719300468?casa_token=8tVWx2mMJVcAAAAA:iKLTl454uUUXMxUOzhXx0e2GziUs_1mgdLK5gd0U6Tm8W_fDeJZI58lTo8IhYfAiLURY2WEPAw.[]
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