Il 10 aprile 1998, un quarto di secolo fa, veniva solennemente firmato a Belfast l’Accordo di Venerdì Santo, dal giorno specifico in cui venne sottoscritto, detto altrimenti Accordo di Belfast. La solennità era giustificata dal fatto che questo accordo doveva porre fine al conflitto “etnonazionale” (chiamiamolo così per comodità, anche se così non si rende certo giustizia alla sua complessità) che aveva devastato l’Irlanda del Nord nel trentennio precedente, causando la morte di circa 3.500 persone su una popolazione di un milione e mezzo di abitanti. Al tempo stesso, l’Accordo era il culmine e il frutto di un “processo di pace” iniziato una decina di anni prima e che era proseguito con alti e bassi. C’era stata la Dichiarazione di Downing Street del 1993, firmata dai primi ministri britannico e irlandese, in cui tra l’altro si dichiarava, da parte britannica di non avere «interessi egoistici, strategici o economici nell’Irlanda del Nord», e da parte irlandese, di essere disposti a rinunciare alla rivendicazione costituzionale del territorio delle Sei Contee per affermare il principio che l’unificazione dell’Irlanda sarebbe avvenuta solo con il consenso della maggioranza della popolazione, a nord come a sud. E c’erano stati i primi cessate il fuoco delle principali formazioni paramilitari, repubblicane e lealiste, nel 1994. C’era stata nel 1996 l’elezione di un Forum per determinare chi avrebbe preso parte ai negoziati di pace, e c’era stata un’intensa opera di mediazione da parte di una folta schiera di attori, non solo dei governi britannico e irlandese, ma anche del governo americano e della società civile locale per appianare le numerose difficoltà che sorgevano di volta in volta, anche poco prima della firma dell’Accordo di Belfast.
In effetti, si trattava di un accordo storico. Di primo acchito, già per la varietà dei soggetti non governativi che l’avevano sottoscritto. C’erano le firme dei partiti più moderati allora maggioritari nelle rispettive comunità protestante e cattolica, l’Ulster Unionist Party e il Social Democratic and Labour Party. E c’erano quelle dei partiti che non prendevano posizione sulla questione nazionale, quale l’Alliance Party, di ispirazione liberale, fondato nel 1970 e la ben più recente Women’s Coalition, nata come raggruppamento di donne di diversa provenienza comunitaria, intenzionate a contribuire al processo di pace con uno sguardo e un punto di vista differenti, e poi una “coalizione laburista”. Ma c’erano pure quelle dei partiti vicini ai gruppi paramilitari, come il Progressive Unionist Party e l’Ulster Democratic Party da un lato e lo Sinn Féin dall’altro. La prima novità del processo di pace degli anni Novanta, anche rispetto ai precedenti tentativi di risoluzione del conflitto, era infatti quella di includere i rappresentanti politici del mondo che esprimeva le formazioni paramilitari, purché queste si impegnassero ora a ricorrere solo a metodi democratici e pacifici. L’unico partito di rilievo che si era rifiutato di sottoscrivere l’Accordo era il Democratic Unionist Party (DUP), guidato dal reverendo Ian Paisley, ma allora sembrava facile consegnarlo a un passato di intransigenza reazionaria, di suprematismo esclusivista e di rigidità fondamentalista.
Ma l’Accordo era storico soprattutto per i contenuti. Esso riconosceva la legittimità sia della volontà di mantenere l’Irlanda del Nord nel Regno Unito, sia dell’aspirazione all’unificazione con la Repubblica d’Irlanda, affermava quindi la pari dignità di ogni identità, e vietava qualsiasi discriminazione. Ogni nordirlandese aveva il diritto di essere britannico, irlandese, o entrambi, di avere cioè la doppia cittadinanza o di cambiarla. Allo stesso modo, le istituzioni previste dall’Accordo ambivano a coinvolgere la “totalità delle relazioni” esistenti tra le due isole. Venivano istituiti per l’Irlanda del Nord un’assemblea legislativa eletta con il sistema proporzionale e con l’obbligo del consenso intercomunitario per le questioni di maggior rilievo, e un esecutivo “consociativo”; per la dimensione Nord-Sud si prevedevano un “consiglio interministeriale”, un’“associazione interparlamentare”, istituita nel 2012, e un forum consultivo rappresentativo della società civile (ma che in realtà non è mai stato attuato, almeno nelle modalità inizialmente contemplate); per la dimensione Est-Ovest erano previsti una Conferenza intergovernativa britannico-irlandese, un Consiglio britannico-irlandese con i rappresentanti della Repubblica d’Irlanda, del Regno Unito, dell’Irlanda del Nord, della Scozia, del Galles, dell’Isola di Man e delle isole del Canale della Manica, e l’allargamento a tali realtà decentrate dell’Assemblea interparlamentare britannico-irlandese istituita anni prima.
Punti importanti dell’Accordo riguardavano poi la dismissione delle armi, la liberazione dei prigionieri politici, la valorizzazione della lingua irlandese e dell’Ulster Scots (quest’ultimo quale compensazione per gli unionisti, anche se come varietà linguistica esso è in effetti trasversale alle due comunità), e più in generale della diversità culturale, i diritti umani. L’Irlanda del Nord diventava così un territorio su cui gli stati interessati rinunciavano a contendersi la sovranità (che comunque restava e resta saldamente in mano britannica, a meno che un referendum, convocato su iniziativa degli stessi britannici, non veda la maggioranza della popolazione esprimersi altrimenti). Un territorio in cui, in principio, non c’è una nazione maggioritaria riconosciuta come “titolare” della sovranità in virtù della storia o dei rapporti di forza, e una minoranza nazionale destinata a una perpetua subordinazione politica e culturale, bensì un territorio in cui entrambe le nazionalità godono della stessa dignità e legittimità anche nelle proprie aspirazioni – un territorio cioè culturalmente pluralista di fatto e di diritto, si direbbe “postnazionale”, inserito in una rete di rapporti che possono far pensare a primi accenni di sovranità condivise e di polities transnazionali.
L’Accordo di Venerdì Santo fu legittimato da una larga maggioranza nei due referendum che si tennero nelle due parti d’Irlanda il 22 maggio di quello stesso anno. Nell’Irlanda del Nord votò l’81% degli aventi diritto, e i sì furono il 71%, maggioritari in entrambe le comunità. Ma mentre la quasi totalità dei cattolici votò a favore, tra i protestanti non si andò oltre il 57%. In altri termini, una consistente minoranza di unionisti assolveva lo stato nordirlandese, la sua storia e le sue istituzioni, si opponeva a ulteriori concessioni, e riteneva anzi che i problemi fossero provocati dai “terroristi”, dai malcontenti e dall’“arrendevolezza” dei britannici nei loro confronti. E segnalava in tal modo che l’applicazione dell’Accordo non sarebbe stata facile.
E in effetti i problemi non tardarono a manifestarsi. Innanzitutto per quell’“ambiguità costruttiva” che caratterizzava il testo dell’Accordo, e che aveva fatto sì che le parti concordassero su determinati punti intendendo cose del tutto diverse. Per esempio, l’attuazione dell’Accordo riguardo alla consegna delle armi da parte dei paramilitari o il rilascio dei prigionieri politici, o alla formazione di un nuovo corpo di polizia locale, implicava approcci completamente differenti a seconda della valutazione che si dava sull’Irlanda del Nord, sulle contestazioni alla sua legittimità e sul trentennio di lotta armata. Ulteriori occasioni di conflitto si sono presentate regolarmente, come a proposito dei percorsi delle tradizionali marce orangiste (l’Ordine di Orange è una sorta di massoneria costituita alla fine del Settecento per mantenere la supremazia protestante nella politica e nella società) o dell’esposizione delle bandiere sugli edifici pubblici. Quindi disposizioni dell’Accordo significative dal punto di vista simbolico impiegano molto tempo per venire attuate, come il riconoscimento ufficiale dello status della lingua irlandese, diventato legge solo nell’estate del 2022.
L’Assemblea e l’Esecutivo dell’Irlanda del Nord hanno subito ripetute interruzioni (o “sospensioni”) a causa dei disaccordi tra le parti, con il passaggio dei poteri nuovamente a Londra fino al raggiungimento di un nuovo accordo. Attualmente sono appunto sospesi, e le ragioni saranno illustrate in seguito. In sostanza, non è possibile separare nettamente una fase di conflitto da una di pace. Certamente, le morti riconducibili alla violenza politica sono oggi rare, ma quest’ultima si è spesso riconvertita in violenza criminale. Le ferite sul corpo della società faticano a rimarginarsi; significativamente, dall’Accordo di Belfast a oggi 5.000 persone hanno deciso di porre fine alla loro vita, ben più dei 3.500 morti negli anni della lotta armata1. La violenza contro le donne è pure in notevole aumento2. L’ostilità e la segregazione intercomunitaria permangono, o quantomeno non si sono ridotte nella misura auspicata. Ancora oggi la società nordirlandese non è in pace.
Una delle critiche che sin dall’inizio si sono mosse all’Accordo di Venerdì Santo è stata quella di cristallizzare le identità delle due comunità e di istituire una competizione tra di loro, invece di favorire il miglioramento delle relazioni intercomunitarie o la crescita di identità politiche “altre”. Com’è noto, nel giro di pochi anni, i partiti “moderati” unionista e nazionalista che erano stati maggioritari nelle rispettive comunità negli anni del conflitto e del processo di pace furono scalzati, quali partiti più votati, da quelli più radicali, rispettivamente il DUP e lo Sinn Féin, come se in questa fase alquanto fluida le comunità volessero affidare i propri interessi ai partiti più combattivi nella loro difesa. In realtà questo passaggio di consegne non è stato di per sé negativo, in quanto ha protetto l’Accordo stesso da possibili contestazioni da parte di forze più oltranziste. Significativamente, gli anni successivi all’Accordo di St. Andrews del 2006, reso possibile dalla “strana coppia”, il reverendo Ian Paisley, leader del DUP, e Martin McGuinness, figura di spicco dello Sinn Féin (un momento immortalato nel film The Journey), furono quelli di maggiore stabilità delle istituzioni decentrate nordirlandesi, dal 2007 al 2017, con i leader del DUP (Ian Paisley, Peter Robinson e Arlene Foster) come Primo Ministro e Martin McGuinness come Vice Primo Ministro.
Rispetto tuttavia al Forum eletto nel 1996 da cui uscì l’Accordo del 1998, il panorama politico nordirlandese si era ulteriormente polarizzato. La Women’s Coalition rimase fuori dall’Assemblea già alle elezioni del 2003, e si sciolse tre anni dopo. Persero rilevanza pure i partiti vicini alle formazioni paramilitari lealiste, i quali avevano prospettato un unionismo di tipo diverso, espressione dei bisogni e delle esperienze della classe operaia protestante, lontano dalle rigidità e dal fondamentalismo oltranzista del DUP. In realtà essi non poterono o non seppero elaborare una proposta politica di respiro che trovasse consenso negli ambienti di riferimento. L’Ulster Democratic Party si sciolse già nel 2001; il Progressive Unionist Party, orientato più a sinistra, esiste ancora, ma dal 2011 non ha più rappresentanti all’Assemblea, e ne elegge solo qualcuno a livello locale.
In questo contesto polarizzato e su questo tessuto sociale sempre fragile è sopraggiunta la Brexit, fortemente perseguita dal DUP, ma non voluta dalla maggioranza degli abitanti nella maggioranza dei territori. Da un lato, il problema della posizione dell’Irlanda del Nord in un assetto post-Brexit non era mai stato considerato nella campagna referendaria del 2016; dall’altro lato l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea minaccia gli stessi fondamenti dell’Accordo di Belfast. Era stata la comune appartenenza alla UE a consentire a Regno Unito e a Repubblica d’Irlanda la riformulazione della questione della sovranità in relazione al territorio nordirlandese, simboleggiata dalla sostanziale assenza di confine tra le due parti d’Irlanda. Il profilarsi di un confine minaccia anche il diritto di ogni abitante dell’Irlanda del Nord di definirsi e di essere britannico, irlandese o entrambi. Il Protocollo sull’Irlanda del Nord, firmato nel 2020 dal Regno Unito e dall’Unione Europea, intende scongiurare la formazione di un confine “duro” in Irlanda e tutelare i diritti garantiti dall’Accordo di Belfast, ma ha suscitato l’opposizione di tutti i partiti unionisti, incluse alcune personalità che negoziarono personalmente l’Accordo del 1998, in quanto il confine doganale passa tra le due isole, e il territorio nordirlandese verrebbe quindi reso meno “britannico”. La Brexit ha portato incertezza e pericolose involuzioni, che non riguardano soltanto una comunità unionista convinta di averci solo rimesso dal processo di pace. Un esempio di tali involuzioni è l’affermazione nel 2021 dell’allora leader conservatore della Camera dei Comuni Jacob Rees-Mogg, il quale, riferendosi al Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord, pure conservatore, che avviò il processo di pace, ha dichiarato che: «Qualcuno ha detto una volta che il Regno Unito non ha interessi egoistici o strategici nell’Irlanda del Nord. Questo lo contesto». Seguita qualche mese dopo da quella del leader laburista Keir Starmer, il quale ha dichiarato che nel caso di un referendum sullo “status costituzionale” dell’Irlanda del Nord, avrebbe fatto campagna contro l’unificazione irlandese – in violazione dello stesso Accordo del Venerdì Santo, che impegna Londra alla neutralità3.
Per protestare contro il Protocollo, il primo ministro nordirlandese DUP Paul Givan diede le dimissioni nel febbraio 2022, determinando la caduta dell’Esecutivo e la necessità di nuove elezioni per l’Assemblea, che si tennero il 5 maggio. Il risultato fu una sonora sconfitta per il progetto della Brexit e quanto implicava per l’Irlanda del Nord.
Lo Sinn Féin, con la sua vicepresidente Michelle O’Neill, è diventato il primo partito con il 29% dei voti. Questo in sé non è la novità più significativa, poiché l’aumento dei voti è stato molto contenuto e il numero dei seggi invariato. Semmai accentua una tendenza che si era già verificata alle elezioni per il Parlamento di Westminster nel 2019, quando i partiti nazionalisti irlandesi, Sinn Féin e Social Democratic and Labour Party elessero insieme più parlamentari del DUP, unico partito unionista ad ottenere seggi. La novità del 2022 ha riguardato invece il crollo di quasi sette punti percentuali del DUP, che ha preso così poco più del 21%. Un consistente aumento di voti è andato all’Alliance Party, che ora è al 13%, ma anche alla piccola Traditional Unionist Voice (il cui nome è tutto un programma), che ha tuttavia ha soltanto mantenuto il suo unico seggio. Gli altri partiti che, come l’Alliance, non si dichiarano né nazionalisti né unionisti, non sono andati molto bene. I Verdi hanno perso i loro due seggi, People Before Profit ha pure perso voti, ma è riuscito a mantenere il suo seggio. In ogni caso, le istituzioni nordirlandesi rimangono sospese per la continua opposizione del DUP al Protocollo e, molto probabilmente, alla circostanza di occupare il posto di vice Primo Ministro in un governo presieduto da Michelle O’Neill, come prescrive l’Accordo.
Come si vede, gli elettori hanno confermato il loro rifiuto di un progetto, quello della Brexit, che rischia di portare indietro l’orologio della storia. Il che non significa necessariamente che presto si supererà la polarizzazione comunitaria, che l’unionismo quale ideologia si avvierà inevitabilmente al tramonto, o che chi abbandona l’identità unionista abbraccerà “binariamente” l’identità nazionale irlandese e voterà al referendum per l’unificazione politica dell’isola – per quanto nel medio termine quest’ultima opzione ci possa apparire, dall’esterno, come la sola in grado di strappare l’Irlanda del Nord dal limbo civile e politico in cui l’ha catapultata la sciagurata e irresponsabile scelta della Brexit.
La società nordirlandese continua a caratterizzarsi per un alto tasso di segregazione comunitaria, che è particolarmente accentuata nei quartieri proletari. Si vive separati per ragioni di sicurezza, come negli anni del conflitto armato, anche se – come a Belfast – ci si mischia nelle vie dello shopping nel centro cittadino, e il proprio quartiere, con i murales e le “linee della pace” (i muri divisori tra l’una e l’altra comunità) è diventato un’attrazione reclamizzata dal locale Ufficio del Turismo. Se si è protestanti si va nelle scuole statali dove si impartisce una cultura britannica, se si è cattolici si va nelle scuole cattoliche, finanziate dallo stato, dove si impartisce una cultura irlandese. Dal 1981 ci sono in realtà le “scuole integrate”, ma restano sempre troppo poche per far fronte alla domanda. Le politiche neoliberali perseguite negli ultimi decenni4 non si sono ovviamente proposte di colmare i divari e gli squilibri sociali. C’è stato anzi una sorta di livellamento verso il basso di entrambe le comunità. Di questo ne ha risentito soprattutto la classe operaia protestante, che è stata privata del suo tradizionale vantaggio relativo su quella cattolica per le politiche di impiego equo e per la decimazione dei posti che una volta la occupavano nei cantieri navali e nell’industria, e che vive ora con rancore tale scivolamento di status. Il processo di pace ha inoltre mancato di affrontare specificamente il miglioramento delle relazioni intercomunitarie, nella convinzione che l’accordo tra i partiti sarebbe stato sufficiente, e non sorprende che in tale contesto l’Irlanda del Nord spicchi per l’aumento dei reati legati al razzismo (contro i nuovi migranti) e ad altre forme di discriminazione.
Questo naturalmente non esaurisce tutto il quadro. Nella società nordirlandese si intraprendono dal basso innumerevoli iniziative e progetti per la riconciliazione tra le comunità e il miglioramento delle condizioni di vita, e che vedono coinvolti ex paramilitari (senza che nessuno rinunci alle proprie aspirazioni nazionali o “costituzionali”), donne, gruppi religiosi, associazioni di artisti, centri culturali, ecc. Tanti nell’Irlanda del Nord hanno maturato una notevole esperienza di relazioni e di gestione di conflitti. Questa esperienza rimane però sostanzialmente ignorata al di fuori delle Sei Contee, quando dovrebbe invece fare essa stessa parte del bagaglio politico e culturale di chi riflette su pace, guerra, violenza, convivenza – praticamente tutti quanti noi.
Il processo di pace nell’Irlanda del Nord è iniziato in epoca di “fine della storia”. Analogamente ad altri processi di pace che hanno visto la partecipazione più o meno a distanza degli Stati Uniti (come quello in Sudafrica, o quello fallito in Palestina), si trattava di chiudere annosi conti aperti e di inaugurare un mondo ormai pacificato, economicamente e ideologicamente liberale sotto l’egemonia occidentale. La retorica postnazionale è stata fondamentale per sollecitare il consenso nella regione e all’estero – d’altra parte, l’integrazione europea non era entrata in una fase decisiva con il Trattato di Maastricht, gli stati nazionali non erano ormai superati, non eravamo ora tutti europei? E se nell’ex Jugoslavia ci si ammazzava proprio per creare stati nazionali omogenei, e i piani di pace che si elaboravano si basavano sulla separazione etnica e nazionale e sulla limitazione della democrazia locale, non confermavano l’arretratezza di quei luoghi e di quelle popolazioni in confronto alle europeissime Isole Britanniche? Tuttavia, nonostante il sostegno dell’UE e la sintonia con lo spirito del tempo, l’Unione Europea avesse sostenuto il processo di pace sin dall’inizio, non si è avviata una riflessione in Europa su cosa avesse da insegnare l’Irlanda del Nord nell’approccio ai conflitti comunitari o a quelli definiti sbrigativamente “etnonazionali”. In qualche modo, esso è rimasto nella percezione collettiva degli europei come un affare che riguardava in sostanza il mondo anglofono di qua e di là dell’Atlantico. Fatto sta che appena un anno dopo la firma dello storico Accordo, gli europei erano pronti a sottoscrivere l’idea della “guerra umanitaria” in nome dei diritti umani della popolazione kosovara senza pensare – questo è il punto – che con la scelta delle bombe fosse in gioco ben altro. Allo stesso modo, possiamo ignorare che quelli che ora non sembrano temere l’escalation e l’allargamento della guerra in Ucraina sono gli stessi che per indifferenza, ignoranza o sbadataggine hanno trascinato una realtà fragile come quella dell’Irlanda del Nord nel dramma della Brexit?
Venticinque anni dopo l’Accordo di Venerdì Santo, si può ben dire che è esso stato una pietra miliare, non solo per l’Irlanda del Nord. Al tempo stesso, a differenza dei decisori degli anni Novanta, siamo adesso ben consapevoli che non basta di per sé un accordo “giusto” per riconciliare comunità traumatizzate da trent’anni di conflitto armato e magari divise nelle proprie aspirazioni politiche da secoli. E soprattutto sappiamo che i “dividendi economici della pace” non arriveranno per tutti grazie al cessate il fuoco e ai meccanismi del mercato. Dobbiamo continuare ad ascoltare, dobbiamo continuare ad imparare. Per costruire la pace, nell’Irlanda del Nord e altrove.
Francesca Lacaita
- Cit. in Colin Coulter et al., Northern Ireland a generation after Good Friday: Lost futures and new horizons in the ‘long peace’, Manchester, Manchester University Press, 2021, edizione Kindle, pos. 154.[↩]
- Ibid., pos. 265.[↩]
- Cit. in Geoffrey Bell, The Twilight of Unionism. Ulster and the Future of Northern Ireland, London, Verso Books, 2022, edizione Kindle, rispettivamente pos. 2909 e 2925.[↩]
- Cfr. Colin Coulter et al., Northern Ireland a generation after Good Friday, cit., pos. 333.[↩]