La diffusione della povertà in Italia ha raggiunto livelli altissimi; le statistiche indicano in circa 5 milioni e mezzo le persone in povertà assoluta e in 8 milioni quelle in povertà relativa. Un tema divenuto oramai ineludibile è il contributo dato a questo fenomeno drammatico dal lavoro povero.
Solo alcuni dati. Secondo l’Inps il 23% dei lavoratori italiani guadagna meno di 780 euro al mese; Per il Presidente della Banca d’Italia il 30% dei lavoratori Italiani guadagna meno del 60% del salario mediano, cioè meno di 11600 euro all’anno, 892 euro al mese per 13 mensilità.
Una cifra cui corrisponde un salario netto sul filo della soglia di povertà relativa per un lavoratore singolo senza considerare il necessario adeguamento degli indicatori di povertà in seguito a un inflazione che negli ultimi due anni ha ridotto il potere d’acquisto intorno al 20%; per la Banca d’Italia nel solo 2022 per il quintile più povero dei lavoratori, il 20%, l’aumento dei prezzi è stato del 17,9%.
Sono questi i risultati di 30 anni di politiche economiche neoliberiste tendenti soprattutto a comprimere i salari e aumentare le disuguaglianze, della moderazione salariale accettata in cambio di promesse di miglioramenti futuri mai arrivati e dell’incapacità, crescente negli anni, della contrattazione collettiva di tutelare il lavoro.
Una condizione, quella della povertà lavorativa sollevata a livello europeo dalla Commissione UE e in Italia dalle decine di sentenze di tribunali contro forme di sfruttamento e riduzione dei salari illegali, ma anche contro aziende che erogano paghe base orarie letteralmente da fame in applicazione di contratti nazionali firmati da sindacati confederali. Il caso più eclatante è quello della vigilanza privata con paghe da 4,60 euro l’ora, ma ce ne sono altri che non si discostano poi moltissimo da quella cifra, attestandosi sui 6, 7 euro l’ora, assolutamente insufficienti per rispettare la prescrizione dell’art. 36 della costituzione in base al quale “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro svolto e in ogni caso sufficiente a garantire a se e alla propria famiglia una vita dignitosa”.
Sappiamo bene che oltre alle basse retribuzioni orarie esistono altre cause responsabili dei salari indegni; si va dalla precarietà estrema che produce discontinuità lavorativa al part time involontario fino alle mille irregolarità del lavoro grigio dove ore e paghe dichiarate non corrispondono mai al lavoro svolto e a quanto effettivamente versato al lavoratore.
Come Unione Popolare abbiamo ritenuto importante aggredire la questione con la proposta di legge di iniziativa popolare per il salario minimo ritenendolo un nodo centrale e nell’intento di sollevare l’attenzione e costruire una mobilitazione non solo su questo, ma su tutti i temi dei quali i bassi salari sono la risultante.
Una scelta confortata dalle molte indagini che indicano i bassi salari come la principale causa del malessere sociale diffuso specie tra i giovani e, non a caso, un recente sondaggio indica nel 64% gli italiani favorevoli all’introduzione di un salario minimo.
La nostra proposta è chiara e netta fin dal primo articolo: “Ogni lavoratore di cui all’art. 2094 c.c., visto l’art. 36, comma 1, della Costituzione ha diritto, con riferimento alla paga base oraria, ad un trattamento economico minimo orario non inferiore a 10 EURO lordi l’ora”.
Significa che ogni lavoratore dovunque lavori e qualsiasi mansione svolga, non può ricevere nel livello di inquadramento più basso meno di 10 euro al lordo dei contributi e delle tasse che deve pagare. Vuol dire una retribuzione lorda mensile di 1730 euro per 173 ore lavorative e un netto di circa 1350 euro.
Nel definire la cifra abbiamo ritenuto irricevibile l’indicazione, proveniente da più parti compresa la direttiva europea, per un salario minimo corrispondente al 60% della mediana delle retribuzioni che avrebbe comportato una paga oraria tra i sei e sette euro e un mensile netto tra 850 e 950 euro, pari o prossimi alla soglia di povertà relativa per un lavoratore singolo.
Una soglia che, come si diceva, andrebbe rivista alla luce dell’inflazione a due cifre e che cresce di almeno il 50% nel caso di lavoratori con un familiare a carico, condizione attualissima vista l’esplosione del fenomeno delle famiglie monoparentali la maggior parte delle quali hanno una donna come capofamiglia.
Proprio per l ruolo svolto dall’inflazione nel ridurre progressivamente i salari reali dopo l’abolizione della scala mobile, la proposta di legge prevede nel secondo articolo che “Con decreto del Ministero del Lavoro, il minimo salariale si rivalorizza alla data del primo gennaio e del primo luglio di ogni anno sulla base dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i paesi dell’Unione Europea (IPCA)”.
Oltre alla previsione di un articolato sistema di sanzioni crescenti da applicare nei casi di inadempienza, ci sembra importante sottolineare altri tre contenuti della nostra proposta di legge.
Il primo riguarda la prescrizione che oltre alla paga base il lavoratore ha “diritto al pagamento della tredicesima mensilità, delle retribuzioni differite, delle ore di lavoro straordinario, degli scatti di anzianità e di tutte le altre competenze previste dai CCNL di settore”; il secondo è l’obbligo della “applicazione al lavoratore/lavoratrice dei contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali che prevedono un trattamento economico minimo orario, superiore all’importo del trattamento economico minimo legale”.
Infine con l’articolo 3 si estende la disciplina della legge al lavoro non subordinato sia quando organizzato direttamente dal committente sia quando ciò sia fatto attraverso piattaforme digitali.
Sappiamo che sarebbe stato astrattamente giusto proporre con la legge una paga oraria più alta dei dieci euro previsti, per esempio 12 come in Germania, ma bisogna tener presente che l’Italia parte da un livello salariale meglio molto più basso di quello tedesco e che quindi già così la nostra proposta se approvata avrebbe un impatto politico e sociale molto grande. Stimiamo in 5 milioni le lavoratrici e i lavoratori che avrebbero miglioramenti di stipendio, non solo quelli che hanno paghe da fame dunque, ma moltissimi collocati a vari livelli di inquadramento previsti dai contratti nazionali.
Concludo con tre notazioni di carattere generale. Non condividiamo l’idea che il salario minimo legale indebolirebbe la contrattazione, al contrario, come dimostra l’esempio tedesco, la rafforzerebbe spingendo verso l’alto tutti i livelli d’inquadramento.
Ci teniamo a sottolineare che la nostra proposta di salario minimo non è in contraddizione con la prosecuzione della lotta per l’introduzione di un vero reddito di cittadinanza ritenendo anzi importante che le due battaglie procedano insieme per contrastare sfruttamento e ricattabilità del lavoro.
Un ultima considerazione per esprimere la piena condivisione di quanto affermato dalla direttiva europea laddove ricorda come una legge sul salario minimo ridurrebbe le disuguaglianze, contrasterebbe le disparità di genere a causa della prevalenza femminile nelle fasce salariali più basse, porterebbe un beneficio all’economia sostenendo i consumi, contrasterebbe un modello economico e produttivo fondato su bassi salari spingendo le imprese a investire in innovazione e ricerca.
Antonello Patta