Ho sempre pensato, e sono ancora oggi convinto, che la sorte di una nascente forza politica sia legata soprattutto alla sua capacità di intercettare una necessità, un bisogno reale della Storia e dare risposta a quel bisogno. Una convinzione che trovo confermata dalla rinascita di una destra estrema e dalla più grave crisi della Sinistra dalla nascita della Repubblica che sono probabilmente i due rovesci della stessa medaglia.
Se si guarda con onestà intellettuale e senza intenti polemici, alla vicenda dell’Italia unita, non è difficile vedere che il successo politico della destra – estrema o moderata conta relativamente poco – nel nostro Paese è nato sempre in un momento di profonda crisi economica. Non a caso Pietro Grifone, economista antifascista confinato a Ventotene, durante la permanenza nell’isola scrisse una storia del capitale finanziario in Italia nella quale individuò nel fascismo il regime del capitale finanziario.
Una storia di parte? Tutt’altro. Che cosa fu, in effetti, il fascismo se non lo strumento attraverso il quale il Padronato svuotò il campo dalle macerie dell’economia bellica e postbellica, ottenne il progressivo svuotamento delle Istituzioni democratiche, ebbe in regalo uno Stato spogliato in concreto di buona parte delle sue attribuzioni economiche? È una forzatura osservare che, allora come oggi, i padroni volevano – ed ebbero – mani libere per l’iniziativa privata? Ieri come oggi un governo politico di estrema destra corrispondeva perfettamente alle esigenze del potere economico. Ieri come oggi una borghesia che rischia la proletarizzazione, composita ma sostanzialmente formata all’inganno delle “libertà liberali”, non esita a far sua la rovinosa scelta dei vertici di classe. Allora come ora però, disgregata dalle polemiche, dalle frettolose scissioni, dall’illusione di trovarsi di fronte a un “momento” difficile, la sinistra affonda nelle sue contraddizioni ed esce dalla scena.
Un ruolo decisivo l’hanno avuto in entrambi i casi le vicende della Russia. I padroni sfruttano nel primo dopoguerra la paura del bolscevismo, utilizzano abilmente la guerra ucraina oggi, sventolando la parola “nobile” – libertà – per massacrare la Costituzione antifascista e per fare gli interessi del capitale e abbandonare al proprio destino milioni di sventurati.
Ieri come oggi ad aprire la breccia è indiscutibilmente – sia pure per ragioni diverse – la crisi dei partiti di sinistra. E qui, se dalla storia del potere si passa a quella dei popoli, l’Unione Popolare diventa immediatamente una necessità inderogabile. Soprattutto in un Paese in cui la storia della Repubblica antifascista, l’hanno scritta l’incontro e lo scontro tra i valori della sinistra di ispirazione laica e marxista e quelli della nebulosa cattolica. Un percorso che non può riprendere, eppure deve ricominciare, perché la sinistra laica e marxista non c’è più; è passata armi e bagagli nel campo neoliberista che è, di fatto, quello capitalista.
Le sole forze in campo schiettamente e indiscutibilmente anticapitaliste sono quelle che cercano di creare Unione popolare. Certo, gli ostacoli da superare per giungere alla sua nascita ufficiale non sono pochi, ma credo che nessuno sia insormontabile perché in comune abbiamo tutte e tutti questa caratteristica che segna un confine direi geografico: un al di qua e al li là d’un fiume o, meglio, d’un mare. Il mare di disperazione generato dal capitalismo omicida, che uccide la povera gente e le possibilità di vita del genere umano sul pianeta. Ben altro che la fine della Storia e del Conflitto. È l’inizio di una storia nuova.
Rose e fiori, quindi? Naturalmente no. Una grave conseguenza del tracollo dei partiti ha prodotto una prima immediata difficoltà. Quale forma avrà Unione Popolare? Nel Coordinamento la forma partito provoca reazioni negative – per molti è il “vecchio” – e quella di un movimento trova più consensi ma non convince fino in fondo. Emerge così l’idea del “nuovo”. Poiché di nuovo e di “novatori” faccio davvero fatica a parlare, perché si contrappongono a “vecchio” e mi fanno venire in mente Renzi e la “rottamazione”, vorrei fare qui alcune considerazioni. Le ritengo necessarie, per provare a uscire da un’ambiguità latente e tentare di delineare le premesse perché, diviso in gruppi, il Coordinamento possa lavorare con spirito davvero unitario e collettivo. Taglierò con l’accetta per non annoiare e non fare di un breve intervento uno strumento di tortura.
Per quanto mi riguarda, ogni forma e ogni sua traduzione in strutture organizzative sono legate indissolubilmente a esperienza politiche, luoghi specifici e momenti storici ben definiti. Se questo è vero – e mi pare difficile lo sia – nessuna di tali esperienze è probabilmente ripetibile e utilizzabile in un contesto storicamente e temporalmente diverso.
Posso naturalmente sbagliare, ma noi partiamo da una “certezza” che certa in effetti non è: diciamo che la forma-partito è superata e lo facciamo, benché poniamo tra i nostri massimi obiettivi la difesa della Costituzione. Dimentichiamo, però, che i partiti sono pilastri nell’architettura costituzionale. Non sosteniamo esprimiamo due concetti in profondo contrasto tra loro? A me pare proprio di sì.
Questo, senza dire che alla guida del Paese c’è oggi paradossalmente un partito di estrema destra, geneticamente ostile alla Costituzione, che però è probabilmente l’unico organizzato secondo criteri rispondenti al modello “costituzionale”. Questo suggerirebbe di non avventurarsi subito sulla via di un non meglio identificato “nuovo”, ma di individuare piuttosto il punto di rottura a partire dal quale i vecchi partiti sono andati in crisi.
È necessario farlo, per capire se la crisi è un dato patologico, legato alla natura dei partiti stessi, incapaci di stare al passo con i tempi, o piuttosto a scelte politiche sbagliate, che hanno condotto i partiti alla loro progressiva degenerazione e di conseguenza a quella della politica. Se, per fare un esempio, collochiamo nel suo momento storico conclusivo il disastro dei partiti di sinistra – quello cioè in cui, uno dietro l’altro, alcuni eventi posero agli allora dirigenti domande urgenti, abbiamo davanti questi eventi: muro di Berlino che cade, dissoluzione dell’URSS, inizio dell’affermazione del neoliberismo, crollo elettorale del PCI, il più grande partito comunista occidentale.
È in questa condizione storica che il PCI giunge a sciogliersi. Pensiamo davvero che Occhetto e compagni intendono tradire? Io che dal PCI fui espulso alla fine degli anni Sessanta, penso di no. Penso che in quel momento vivono un dramma. Sono di fronte a se stessi e si sentono colpevoli, credono che il fallimento storico del mondo dell’est sovietico, in cui hanno davvero creduto, nonostante le parziali prese di distanza, segni la superiorità del mondo capitalista rispetto a quello sovietico, marxista e leninista. Se ne convincono e scelgono di conseguenza. Inizia così l’avvicinamento al liberismo. È l’attraversamento di un deserto. Ci vorranno decenni, ma l’esito inevitabile è il PD. Quel PD, che oggi, naufragando, ci indica due cose: il confine da cui stare fuori, la forma organizzativa da cui stare lontani. Lontani come da ogni fusione a freddo, da ogni progetto che stravolge la Costituzione.
In perfetta buona fede, durante il terribile viaggio nel deserto, ci fu chi in quegli anni ritenne sbagliato il cambio di campo – e nacque Rifondazione Comunista – e chi ruppe con ogni forma di organizzazione politica. I no global, per esempio, massacrati a Napoli e a Genova. Nel corso degli anni, le due anime di ciò che restava della sinistra si sono incontrate e più volte scontrate – lo fanno ancora nel Coordinamento – hanno sempre condiviso buona parte dei valori, ma si sono alla fine sempre divise fatalmente proprio sul tema della forma organizzativa. Erano davvero incompatibili? L’esperienza di Luigi De Magistris a Napoli ha dimostrato che non è così. Pagavano entrambe, però, tre prezzi insostenibili. Il lavoro distruttivo del PD anzitutto, che, fatto passare abilmente per sinistra, ne minava ogni credibilità. Scontavano poi, agli appuntamenti elettorali, le conseguenze dell’appello al “voto utile”, l’accusa di estremismo, toccata a chi dava vita al conflitto e di opportunismo, rivolta a chi si illudeva di poter recuperare il PD.
La Meloni al governo chiude questa fase, e probabilmente – ma direi finalmente – la vicenda degli ultimi trent’anni diventa il terreno naturale in cui cercare le autentiche radici del “nuovo”. Quello che nasce senza forzature dalla nostra vicenda storica. Credo che, se abbiamo deciso di stare assieme la consapevolezza di questa storia viva da qualche parte nella nostra coscienza. La consapevolezza che finalmente una forza di sinistra geneticamente anticapitalista abbia bisogno di un’anima conflittuale, che parli ai militanti, alle avanguardie e sia complemento dell’altra, che può parlare al ceto medio proletarizzato. Due anime fuse in una formazione che apra contraddizioni in un elettorato che vota Meloni per disperazione e da sole non sono in grado di rispondere ai problemi del nostro tempo. Questa consapevolezza può interrompere un meccanismo storico operante da sempre nella sinistra: quello della scissione, dell’antagonismo, della lotta fratricida. Può interromperlo e imporne un altro: quello della complementarietà, dell’integrazione e dell’(U)unione.
Questo è “nuovo”? In certo senso sì, anche se nel 1892 il PSI nasce da questa conquista: le lotte possono anche riuscire, ma i loro risultati si avvertono solo se una presenza politica nelle istituzioni le fa vivere nelle leggi. Il nuovo ha un valore più nobile se contiene la parte sana di un’esperienza antica. Abbiamo un bisogno disperato di questo nuovo modo di confrontarci. Un modo che preveda una reciproca legittimazione e una unità che non nasca dalle nostre convinzioni, ma dalla necessità di essere nelle lotte, sapendo che il loro valore e il loro successo deve obbligatoriamente vivere là dove si decide. In altre parole, occorre convincersi che questa è la nostra funzione storica, stare uniti e che la assolveremo solo se riusciremo a trovare il “nuovo” che cerchiamo. Quello che sarà figlio della nostra storia.
Giuseppe Aragno
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