transform! Italia cerca di accogliere articoli che esprimono anche posizioni diverse da quelle che ne caratterizzano la linea editoriale, ciò soprattutto al fine di favorire un efficace dibattito.
Devo però ammettere che da una prima lettura dell’articolo di Alfonso Pascale Fame zero con l’agricoltura conservativa e tecnologica, apparso sull’ultimo numero, ho avuto un certo fastidio per la distanza che mi separava dai contenuti espressi, tanto che mi sono chiesto se fosse stato il caso di pubblicarlo. Poi mi sono reso conto che lo spirito che caratterizza quell’articolo può ben rappresentare una sorta di riferimento come cattivo esempio di ciò che va cambiato.
L’articolo in questione ripropone in sostanza l’attuale modello di agricoltura industriale con qualche aggiustamento in senso ambientale; mi sembra, in sostanza una operazione di greenwashing. L’articolo mi ricorda l’entusiasmo e l’enfasi con cui le grandi organizzazioni internazionali salutarono, verso la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, la cosiddetta “Rivoluzione Verde”.
Con quello “slogan”, l’industrializzazione dell’agricoltura ha assunto un ruolo determinante nell’imposizione di meccanismi di controllo politico-economico sugli agricoltori di tutto il mondo.
Quella “rivoluzione” si autoproclamava come la soluzione ai problemi della fame nel del mondo. Ma, come si può rilevare da un numero rilevante di dati e studi, non solo non ha risolto i problemi di sottonutrizione, ma ne ha aggravato le cause strutturali. A esempio guardando i dati FAO, si nota come la percentuale di persone denutrite in India (paese “pilota” delle “rivoluzione verde” ha avuto uno strano andamento dopo una iniziale riduzione, ha avuto una successiva risalita. Lo stesso è avvenuto in Africa centro-sud. In sostanza oggi abbiamo ancora circa 800 milioni di persone denutrite, ma in compenso abbiamo oltre due miliardi di obesi.
In realtà, almeno sino ad oggi, la causa principale per cui sempre più persone nel mondo hanno difficoltà ad accedere al cibo, non è la carenza di cibo, ma la mancanza di soldi per comprarselo. Va infatti sottolineato come nei magazzini indiani le scorte alimentari di questi ultimi decenni siano più che abbondanti.
In realtà il vero ed importante effetto della “rivoluzione verde” è stato l’emigrazione forzata di milioni di contatini dalle campagne alle bidonville delle megalopoli del terzo mondo.
In proposito è interessate osservare come anche nei paesi più avanzati si sono avuti fenomeni simili. Ad esempio negli USA nel corso del ‘900 il numero di contadini è passato da circa 32 milioni a meno di 3 milioni, in compenso in consumo di energia per il combustibile agricolo è passato da numeri non significativi a oltre 1.000 MJoule.
Ciò ci porta a notare come mentre prima della rivoluzione industriale, l’agricoltura era la principale fonte di energia della società, oggi, invece, l’agricoltura ne è uno dei principali consumatori, sia per l’energia necessaria a muovere le macchine agricole, sia per quella necessaria a produrre fertilizzanti e fitofarmaci, sia per quella per spostare gli alimenti da una parte all’altra del mondo.
Ma, come si può notare dall’articolo, tra le principali preoccupazioni di Alfonso Pascale vi sono cose come i droni e i robot per permettere l’agricoltura di precisione.
L’ultimo capitolo della “rivoluzione verde” è stato quello dell’introduzione degli OGM che, mentre non si sono dimostrati, sino ad oggi, particolarmente efficaci per il miglioramento delle produzioni agricole, hanno aggravato la dipendenza da fertilizzanti e fitofarmaci, rendendo ancor più dipendenti gli agricoltori dalle multinazionali agricole, da cui devono comprare sementi e pesticidi.
Naturalmente oggi, vista forse la crescente caduta di consenso verso gli OGM tradizionali, sono stati riproposti approcci simili (gli NTB) che lasciano irrisolti i problemi connessi agli OGM, in primo luogo quelle relativo ai brevetti a alla proprietà. Anche in questo caso l’articolo di Alfonso Pascale si schiera con forza (senza se e senza ma) con gli NBT. Sul tema NBT varrebbe la pena di fare un approfondimento, per capire quanto si possa cogliere di positivo in questa tecnica. Ma certamente non è accettabile la posizione di coloro (compreso Alfonso Pascale) che vorrebbero escludere questi prodotti dalla normativa che regola gli OGM.
Ma è il caso di analizzare più attentamente l’articolo di Pascale, dove si passa dal lodare “l’agricoltura conservativa”, a da difendere l’agricoltura e gli allevamenti intensivi che però sono chiamati “tecnologici”. Per quanto riguarda “l’agricoltura conservativa”, vale la pena di ricordare che molte di quelle cui pratiche (rotazione delle culture, coperture dei suoli ecc.) erano ben note nelle tradizioni contadine prima che venissero cancellate e poi riscoperte dai nuovi difensori dell’agricoltura industriale.
In particolare alcuni paragrafi sono illuminanti delle posizioni che si vogliono difendere, come quello in cui si critica (per così dire da destra) la Commissione europea:
“Ma le Comunicazioni della Commissione (Farm to Fork e Biodiversity), che traducono l’applicazione della strategia Green Deal in agricoltura, non vanno in questa direzione. Indicano strumenti non adeguati a consentire al settore primario di partecipare alla transizione ecologica da protagonista. Da una parte, prescrivono di incentivare a dismisura i sistemi biologici, che riducono la produttività. Dall’altra, non affrontano i problemi normativi che impediscono l’uso di tecnologie genetiche. E, di fatto, negano l’importanza dell’innovazione necessaria per praticare una intensificazione sostenibile delle produzioni.”. In sostanza si accusa la Commissione di volere troppo biologico e di non liberalizzare gli NBT.
O quello dove si afferma che, non dimostrati miglioramenti delle emissioni di gas serra dell’agricoltura e degli allevamenti a cui si accenna, possano essere persi:
“Ma c’è il plausibile rischio che tali esiti positivi andranno perduti qualora si abbandoneranno i processi produttivi basati su meccanizzazione, miglioramento genetico usando le tecnologie più recenti, fitofarmaci e fertilizzanti chimici.”
In un’altra parte dell’articolo ci si pone la domanda:
“Se la crisi pandemica e i cambiamenti climatici propongono a livello planetario la sfida della transizione ecologica per la neutralità climatica e, contestualmente, quella dell’eliminazione della fame, l’UE deve porsi oppure no l’obiettivo dell’intensificazione sostenibile per fare in modo che gli agricoltori europei possano essere protagonisti?”
E poi si continua con:
“Per sopperire all’incremento della richiesta alimentare di una popolazione mondiale in continua crescita vi sono due vie: o aumentare le superfici coltivate a scapito delle foreste e delle praterie naturali, o incrementare la produttività di ogni ettaro coltivato, migliorando le attuali tecnologie e incrementando le conoscenze. Rinunciare alle produzioni tecnologiche e passare alle agricolture e zootecnie estensive, avrebbe risultati disastrosi sia in termini di produzione sia di impatto ambientale globale.”
Per commentare questi passi potrebbe essere sufficiente ricordare a Pascale, alcune cose:
- che ancora oggi l’agricoltura che fornisce cibo alla maggior parte della popolazione mondiale (circa il 70%) non è l’agricoltura industriale (chiamata da Pascale “tecnologica”), ma è la piccola agricoltura contadina e famigliare;
- nel nostro Paese, molte superfici agrarie sono abbandonate dai contadini per motivi economici determinate da questioni legate al modello industriale di produzione e di commercio (politiche internazionali dei prezzi, prezzi imposti dalla Grande distribuzione, criminalità organizzata, ecc..), che non ne permettono la sopravvivenza;
- oggi oltre il 30% delle terre coltivate sono riservate a produrre mangimi per gli allevamenti industriali (o tecnologici). Non è forse questo (quello degli allevamenti intensivi) il primo problema da affrontare? Tanto per gli aspetti sanitari connessi (non ultimo quello relativo al salto di specie dei virus, per non scordare quello della crescita delle resistenze agli antibiotici per l’eccessivo uso negli allevamenti, o della induzione ad una cattiva alimentazione), quanto per gli aspetti ambientali (deforestazione, emissioni di gas serra (il 14,5 delle emissioni totali secondo la FAO) e di altri inquinati).
Nell’articolo, Alfonso Pascale, ci offre anche una breve analisi a-critica del PNRR, dove naturalmente non si nota che nel Piano manca qualsiasi riferimento all’agricoltura biologica, e che i contenuti riguardano solamente gli aspetti della logistica, le tecnologie per l’agricoltura di precisione e il solare nelle aziende agricole (in sostanza ciò che riguarda il modello industriale).
Insomma l’articolo di Pascale difende in toto un modello agricolo che, in questi decenni, ha prodotto gravi danni ambientali, sociali ed economici. Un modello di agricoltura senza contadini! E, forse un domani, un modello di agricoltura senza terra.
Riccardo Rifici