Intervista di Alberto Deambrogio a Roberto Pietrobon
“Ci siamo”. Due semplici parole, quasi uno slogan. Le hanno scelte due docenti di una scuola primaria di un quartiere popolare di Biella per fare una cosa altrettanto semplice, per molti versi esemplare e, a suo modo dirompente. Dopo le terribili settimane di lockdown hanno deciso di mettere uno stop all’inerzia e di incontrare finalmente in presenza i loro bambini e le loro bambine, fuori dalla perturbante pratica della didattica a distanza dove la macchina, lo schermo tremolante del computer, ha lungamente rappresentato il limite doloroso alla relazione educativa ed umana piena. Roberto Pietrobon e la sua collega Sonia Zanni hanno dunque saputo interpretare pienamente il kairos, il momento giusto e opportuno, non solo per ribadire l’insopportabilità di una situazione, ma anche per mettere direttamente in gioco le loro persone, la loro passione di insegnanti con un’azione che vale sia per il suo segno di critica consapevole, sia per l’energia, si spera contagiosa, propria dell’esempio possibile, dell’innesco di ulteriori e durature pratiche. Fu così, per ricordare una radice lontana ma sempre suggestiva, anche nel ’69 operaio italiano in cui il sentimento diffuso di ingiustizia e d’oppressione venne liberato e trasformato in capacità emancipativa dai primi lavoratori che “salendo su un tavolo” osarono dire che la misura era colma.
A Roberto Pietrobon chiedo: come è maturato in te questo senso di saturazione, di insoddisfazione per una condizione che a poco a poco si è dilatata a dismisura, tanto che ancora oggi non si riesce (stanti le asfittiche misure governative) a vederne una fine certa?
Le scuole in Piemonte sono chiuse dal 22 febbraio. Mentre la produzione industriale continuava – incurante del virus con tutti gli effetti devastanti che conosciamo – le studentesse e gli studenti piemontesi (ma anche lombardi, veneti, emiliano-romagnoli) erano chiusi in casa senza che nessuno si preoccupasse di loro se non gli insegnanti che arrangiandosi come potevano, tra video su youtube o nei gruppi whatsapp, provando a mantenere una continuità didattica, nei fatti impossibile. La scuola, almeno nel primo ciclo dell’obbligo, è fatta per l’ottanta per cento di relazione umana. A poco è servito quando ad inizio aprile si è potuto sperimentare la famosa DAD (didattica a distanza) con google meet o con altri strumenti che permettessero le video lezioni di gruppo. La relazione non si può avere dietro a uno schermo. Questo è il motivo per il quale, appena abbiamo potuto, ci siamo visti “in presenza”.
Tu e la tua collega avete progettato una prima uscita in sicurezza nella natura dove poter riprendere i fili del discorso educativo a 360 gradi. Puoi descrivere quella giornata in cui la componente dell’intelligenza sensibile ha avuto sicuramente un grande ruolo e dove hanno trovato spazio discipline “canoniche” accanto ad altre pratiche?
Innanzi tutto vorrei, per quanto possibile, trasmettere la gioia infinita che ho provato nel rivedere “de visu” tutti i nostri e le nostre alunne. È stata una “liberazione”, innanzi tutto rispetto a una frustrazione che ho accumulato in questi mesi: avrò spiegato bene il nuovo argomento? Avranno tutti capito? Sarò stato chiaro? Ebbene questa prima “merenda didattica” è andata benissimo. Prima di tutto perché i bambini erano felicissimi di rivedersi e perché siamo riusciti ad alternare momenti più “canonici” come la comprensione di un testo o la risoluzione delle divisioni (argomento spiegato nella DAD) a quelli più “liberi” come una piccola sequenza di yoga del famoso “saluto al sole” (surya namaskara, in sanscrito) che insieme ad altre pratiche facciamo già dallo scorso anno, perché un corpo sano – parafrasando i latini – è la precondizione per una mente sana e lo yoga, che significa “unione”, è proprio la sintesi tra questi due parti del sé.
I bambini hanno interamente subito questo periodo senza avere possibilità reali di raccontarlo in prima persona. Si è parlato di loro “in nome e per conto”, ma quasi nessuno ha sottolineato l’estrema esigenza di un’elaborazione personale dei diretti interessati, capace di emergere come dato esperienziale e come vissuto interiore. Avete potuto affrontare quest’ordine di problemi e come pensate di tenere aperto questo importantissimo canale di espressione?
Proprio sperando che saremmo riusciti a vederci e anche per capire quale era l’impatto di questa didattica a distanza, durante una delle mie due video lezioni settimanali avevo “interrogato” i bambini, due settimane fa, per chiedergli cosa pensassero della “scuola al computer”. In coro, tutti e tutte, mi avevano risposto che non gli piaceva perché, soprattutto, non potevano stare insieme e perché – a causa di connessioni e strumenti digitali non sempre all’altezza, per usare un eufemismo – non riuscivano a seguire bene le nostre video lezioni. Senza contare i bambini e le bambine che si sono “persi” in questi mesi. Un danno enorme, di entità ancora difficile da quantificare, che dimostra come questa esperienza di didattica a distanza sia, nei fatti, fallita miseramente.
Riflettendo sulla tua e vostra esperienza mi è venuto in mente che essa ha recuperato in pieno una delle caratteristiche salienti dell’insegnamento di Rodari: la comunità è una risorsa. Quest’anno cade l’anniversario per i cento anni dalla nascita del grande maestro di Omegna, il quale da buon ottimista non ingenuo sapeva che le tempeste possono sempre arrivare e a quel punto occorre appellarsi, appunto, allo spirito solidale della comunità. Tu e Sonia avete costruito la vostra iniziativa esattamente facendo ricorso a tutte le energie che potevano venire da relazioni comunitarie ad iniziare dai genitori dei bambini. Puoi descrivere questo processo positivo senza evitare di rimarcare tutti gli aspetti anche dialettici e le difficoltà incontrate? Come l’hanno presa i vostri dirigenti scolastici? Quali altri “terminali sociali” sono stati utili?
Pensa che proprio poche settimane prima del lockdown stavamo organizzando la nostra annuale visita d’istruzione proprio al Parco Rodari di Omegna… Eh sì, il nostro Gianni aveva proprio ragione “la comunità è una risorsa” ma, lo è ancora di più, in questo caso, quella che i pedagogisti definiscono “comunità educante” formata da tutti gli attori della scuola: studenti, insegnanti, genitori, personale scolastico. In questi mesi abbiamo sperimentato che laddove si è provato a costruire questo intreccio, già da prima, le cose hanno funzionato meglio. Se non fosse stato per i genitori dei nostri e delle nostre bambine non sarebbe stato possibile vederci dal vivo. Sono loro che hanno organizzato la “merenda didattica”, sono loro che hanno istruito i figli per rispettare le direttive sanitarie, sono loro che hanno capito quanto fosse importante rivedersi per dirci: “noi ci siamo”. La nostra Dirigente Scolastica è stata informata dell’iniziativa ma in questi mesi, e soprattutto a settembre, i presidi saranno investiti di enormi responsabilità sulla sicurezza nelle nostre aule. Una situazione davvero paradossale che sconfina anche in risvolti penali individuali dei singoli dirigenti. Il solito scaricabarile all’italiana…
La scuola dovrebbe essere prima di tutto un luogo aperto, un incontro tra diversità in grado di sollecitare l’apprendimento e l’autonomia reciproca. La discussione, il mutuo aiuto, nonché imparare a pensare, analizzare, far ricerca, creare, dubitare dovrebbero essere trama e ordito quotidiani. In realtà con il modello di confinamento che abbiamo vissuto, e che i bambini continuano a vivere più di altri, si è avuta invece omogeneizzazione; è come se questi ultimi fossero inseriti a forza in uno spazio di vetrina. Non è questa una falsa attenzione, che nasconde una concezione asfittica della vita? Voi andrete avanti anche nelle prossime settimane con la vostra iniziativa: quali ulteriori idee avete per poterla implementare?
Il grido di dolore che arriva dalla scuola italiana è stato fino ad ora soffocato prima da una giusta preoccupazione rispetto agli aspetti sanitari legati al Covid-19 ma poi dal fatto che il paese si è solamente concentrato sugli effetti economici della crisi legata alla pandemia. Otto milioni di studenti sono diventati invisibili. “Il manifesto” ha pubblicato, venerdì, con grande evidenza una lettera appello di importanti pediatri italiani che analizzano gli effetti sanitari e psicologici del lockdown ben oltre il rischio di contrarre il virus. C’è la ragionevole certezza che i danni di questi mesi avranno ripercussioni anche sulla salute ben oltre il coronavirus. Per questo, se la situazione sanitaria lo permetterà, cercheremo di replicare il nostro appuntamento ogni settimana fino a luglio. Lunedì, infatti, abbiamo già svolto la nostra seconda “merenda didattica”.
C’è però un altro aspetto della tua domanda che mi interessa analizzare e che mi fa piacere accennare sommariamente sulle colonne di “Transorm”: il valore del sapere. La sinistra, negli ultimi trent’anni in Italia, si è concentrata, senza successo, nel tentativo di contrastare la selezione di classe che ha interessato sempre di più la scuola secondaria e l’università. Dalle “sperimentazioni” alle superiori ai crediti formativi, dalla cosiddetta alternanza scuola-lavoro a tutti i ragionamenti sugli “ascensori sociali” interrotti nel ciclo scolastico. Ci si è totalmente dimenticati però da dove nasce tutto: dal primo ciclo dell’obbligo ovvero dalla scuola primaria. Ci sono tantissimi aspetti trascurati, dallo stato delle nostre aule e dei nostri edifici fino ad alcuni effetti distorti e devastanti dell’autonomia scolastica inaugurata da Luigi Berlinguer 20 anni fa. Ma c’è, ancora di più, un aspetto che definirei teorico: come nasce il bisogno di sapere, il piacere della conoscenza e quindi la possibilità che l’istruzione sia uno strumento per il cambiamento. Nei bambini e nelle bambine tutto questo avviene stimolando la curiosità. Il compito più importante di noi docenti è favorire nei 5 anni quel “seme” che diventerà, a seconda delle personalità, la “pianta” del cittadino del futuro. Più la curiosità sarà forte e stimolante più il bisogno di conoscenza e anche di cambiamento sarà “rivoluzionario”. Un insegnante può stimolare la curiosità solo se ha una relazione duratura e quotidiana con i propri e le proprie studentesse. Ecco perché sono molto preoccupato per settembre e, credo, lo dovremmo essere tutti. Se teniamo al futuro di questo paese.
Roberto Pietrobon, docente presso la Scuola Primaria “Villaggio Lamarmora” di Biella, dottore in scienze pedagogiche, insegnante di Yoga per bambini e adolescenti, giornalista pubblicista presso il manifesto e il Biellese.
2 Commenti. Nuovo commento
Complimenti bravissimi. Fermiamo questa inutile DaD. Con questi esempi si può continuare. E soprattutto ripartire a settembre senza le paranoie, o le disinfestazioni inutili, plexiglass e museruole. Perché non pensano a proteggere seriamente le case di riposo, le piccole fabbriche e gli ospedali, cioè i luoghi dove sono avvenute le stragi evitabili?
Il “10 politico” a tutte le bambine ed i bambini Questa la proposta che vorrei diffondere, nel momento in cui gli insegnanti delle primarie sono impegnati negli scrutini e, secondo l’ordinanza ministeriale, dovrebbero “valutare” persino i più piccoli. La scuola sarà una “comunità educante” quando l’aspetto della valutazione non occuperà più le menti degli adulti coinvolti in tale processo. E poi, ci vorrà ancora molto altro. Attenzione, il “10 politico” non è un atto di “buonismo” pedagogico ma piuttosto un gesto di insubordinazione e di boicottaggio verso chi, anche in tempi di emergenza, vuole mantenere una facciata di squallida normalità. Per chi volesse leggere l’appello, questo è il collegamento:
https://www.tecnicadellascuola.it/la-proposta-del-10-per-tutti-gli-alunni-della-primaria