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Un salario minimo adeguato per l’Unione Europea

di Giovanni
Orlandini

Il 28 ottobre scorso è stata presentata dalla Commissione europea la proposta di Direttiva su “Salario minimo adeguato nell’Unione Europea“ COM(2020) 682 final.

La proposta nasce dopo mesi di dibattito istituzionale e confronti con le parti sociali. La sua gestazione non è stata però priva di contrasti; così come tutt’altro che agevole si preannuncia la strada per la sua eventuale definitiva approvazione. Diffidenze e resistenze nei confronti dell’iniziativa della Commissione sono emerse sia dal fronte datoriale che sindacale, nonché da parte di diversi Stati membri, specie del nord Europa.

La necessità di superare questi ostacoli spiegano il contenuto della proposta. Con essa non si intende incidere sui meccanismi di determinazione dei salari (c.d. “wage setting systems”) presenti nei diversi Stati, né tanto meno modificare gli equilibri e le caratteristiche dei sistemi di relazioni sindacali (cfr. art. 1). La futura Direttiva intende svolgere una funzione “promozionale”: nei paesi dove non esiste il salario minimo legale, sostenendo la contrattazione tra le parti sociali; nei paesi dove esiste una legge che fissa un minimo legale, indicando criteri per garantirne l’”adeguatezza”.

Campo d’applicazione e sostegno alla contrattazione

Nel campo d’applicazione della proposta di Direttiva è incluso qualsiasi titolare di un contratto di lavoro (employment contract) o di una relazione di lavoro (employment relationship) come definita dal diritto nazionale, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia. Ciò permette di riconoscere il diritto ai minimi salariali sancito a livello europeo a quanti rientrano nella nozione di “worker” adottata dai giudici europei. Una nozione, questa, per la verità dai confini non ancora esattamente delineati, ma nella quale possono rientrare i lavoratori parasubordinati (nel nostro ordinamento, i lavoratori etero-organizzati ex art. 2, d.lgs. 81/15), compresi quanti lavorano tramite piattaforma digitale.

Nei confronti di tutti i lavoratori rientranti nell’ambito di applicazione della proposta, gli Stati sono tenuti a promuovere la contrattazione in materia salariale, al fine di aumentarne la percentuale di copertura (art. 4). In particolare gli Stati hanno l’obbligo di “adottare misure” per rafforzare la capacità delle parti sociali di negoziare a livello nazionale (settoriale o intersettoriale) e per promuovere un contesto favorevole al confronto negoziale (par. 1). Nella situazione di Stati con tassi di copertura contrattuale particolarmente bassi (cioè inferiori al 70%), la futura Direttiva impone di definire per legge o con accordi tra le parti sociali un quadro di regole per favorire l’attività negoziale e di adottare un action plan. Pertanto, in paesi come l’Italia ove si registrano percentuali di copertura superiori, il sostegno alla contrattazione non richiede alcun intervento di legge e neppure un accordo tra governo e parti sociali.

Le norme destinate ai paesi dotati di minimo legale

Gli Stati in cui esiste un salario minimo legale sono chiamati a definire in maniera chiara e stabile i criteri per determinare i minimi salariali di legge, aggiornandoli periodicamente in modo da renderli “adeguati” a garantire condizioni di vita e di lavoro dignitose (decent working and living conditions). La proposta fa esplicito riferimento agli standard internazionali nell’indicare agli Stati i parametri valutativi per stabilire l’adeguatezza dei minimi legali. Ciò permette di dar rilievo – seppur indirettamente – al c.d. Kaitz index, che identifica la soglia di “decenza” nel 60% del salario lordo mediano nazionale o nel 50% di quello medio. A questo parametro dovrebbero dunque attenersi gli Stati, che sono altresì chiamati a definire i criteri per calcolare e aggiornare i minimi salariali tenendo anche conto del loro potere d’acquisto, dei tassi di crescita dei salari lordi e degli indici di produttività del lavoro (art. 5 della proposta).

Le disposizioni “orizzontali”

Con le disposizioni “orizzontali” contenute nel capitolo III della proposta si intende istituire un sistema di monitoraggio da parte della Commissione sull’andamento delle dinamiche salariali nei singoli paesi diversi Stati, basato sulla periodica trasmissione di dati anche disaggregati (per genere, età, settore, dimensione aziendale) da parte degli Stati. Un obbligo, questo, che imporrebbe all’Italia di dotarsi di un sistema di contrattazione più trasparente e regolato rispetto a quello oggi esistente (art. 10).

Merita attenzione infine l’art. 9 col quale si sancisce l’obbligo per gli aggiudicatari di appalti e concessioni di rispettare la retribuzione prevista dai contratti collettivi applicati nel settore e nell’area geografica pertinente; con ciò legittimando ulteriormente l’utilizzo delle clausole sociali di equo trattamento sul piano dell’ordinamento UE, dopo le aperture contenute nelle Direttive nn. 23, 24 e 25 del 2014.

Possibile impatto della futura Direttiva

Con l’intervento legislativo del 28 ottobre, giustificato alla luce del principio di sussidiarietà, la Commissione intende ridurre le dinamiche depressive dei salari, che, senza un coordinamento sovranazionale, gli Stati tendono ad alimentare sfruttando il dumping reso possibile dagli eccessivi squilibri retributivi esistenti all’interno dell’UE.

Difficile, se non impossibile, prevedere se la proposta di Direttiva possa assolvere a un simile compito. Se, come sostiene la stessa Commissione, la Direttiva fosse in grado davvero di produrre un aumento dei minimi salariali nella metà degli Stati membri, beneficiando tra i 10 e i 20 milioni di lavoratori a basso reddito, ne uscirebbe senz’altro ridotto il vantaggio competitivo di quanti sfruttano il mercato unico solo per beneficiare del più basso costo del lavoro dei paesi economicamente più deboli. Ma, d’altra parte, gli squilibri salariali tra gli Stati non possono certo essere superati con una iniziativa legislativa.

Non si può non osservare come sia stata la stessa Commissione, nell’ambito della governance economica, a indicare la strada della concorrenza giocata sul costo del lavoro come via per recuperare competitività nei paesi più colpiti dalla crisi economico finanziaria del 2008. Il sopravvenire della crisi Covid-19, ancor più devastante della precedente, sembra aver indotto l’organo di governo dell’UE a un ripensamento delle ricette adottate negli anni dell’austerity. Ma non basta una proposta di intervento sul salario minimo per invertire la rotta: si dovrà valutare anche in che modo s’intenderà sostenere le dinamiche salariali e la contrattazione di categoria nei prossimi cicli del Semestre europeo.

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