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Un profilo aggiornato della Russia di Putin

di Franco
Ferrari

Avevamo tentato, nel novembre scorso, una valutazione della situazione russa, delle sue dinamiche e delle sue contraddizioni, nell’ambito di un bilancio complessivo che come Transform!Italia avevamo abbozzato sul mondo ad una trentina d’anni di distanza dal crollo del muro di Berlino[1]. Era un tentativo che richiederebbe ovviamente sostanziali approfondimenti, ricorrendo a informazioni, analisi e valutazione degli specialisti, così come si è tentato di fare, alcune settimane fa, per la realtà cinese sempre su questo sito[2].

Anche per la realtà russa la recente pubblicazione da parte del Mulino di una precisa e aggiornata sintesi su “La Russia di Putin” (215 pagine, 14 euro), di cui è autrice la Professoressa Mara Morini, docente di Politics of Eastern Europe e di Scienza Politica all’Università di Genova, ci fornisce ulteriori elementi di riflessione. Il testo si basa su un accurato esame della pubblicistica scientifica occidentale e russa, il tutto rielaborato in modo da fornire un quadro ricco e puntuale della realtà politica, sociale, economica dello Stato di cui Putin è il dominus incontrastato, nonché della sua proiezione internazionale.

Seguendo un ordine logico diverso da quello del testo della Professoressa Morini (che parte dall’istituzione presidenziale e dal sistema politico per poi affrontare le questioni relative all’economia e alla società) estrapolo alcune questioni che mi sembrano di maggiore rilievo.

Un capitalismo “patrimoniale”

Innanzitutto viene suggerita una definizione della natura del capitalismo russo dalla quale può essere utile partire. Saremmo in presenza di un “capitalismo patrimoniale” (p. 133) o, con una formula analoga, di un “capitalismo statale-patrimoniale” (p. 141). Nella prima fase del passaggio al capitalismo “la società post-sovietica si è riorganizzata velocemente formando un’oligarchia amministrativo-finanziaria che ha concentrato le risorse naturali e il capitale nelle mani delle grandi corporazioni”.

Putin, eletto Presidente nel 2000, è intervenuto promettendo nella campagna elettorale che lo ha insediato per la prima volta nel ruolo che tuttora ricopre, di “distruggere gli oligarchi come classe” (curioso richiamo al programma staliniano di distruzione della classe dei kulaki, i contadini medi e benestanti).  Obbiettivo raggiunto dato che “molti oligarchi sono stati costretti ad andare all’estero, mentre chi è rimasto ha seguito le regole, ha pagato le tasse” (p. 134). Non sembra però che la realtà russa sia diventata oggi meno oligarchica, ma che gli oligarchi rimasti hanno dovuto riconoscere il primato del potere politico putiniano. Da questo punto di vista non sembra del tutto infondata la definizione data dai comunisti russi sul carattere “bonapartista” del ruolo di Putin.

Il Presidente russo ha dedicato “il primo mandato alla fase di re-statalizzazione delle principali risorse naturali ed economiche del Paese”. Sarebbe questo ruolo dello Stato a determinare il carattere “patrimoniale” del capitalismo russo.

Nell’insieme il bilancio economico della direzione di Putin, a venti anni dalla sua “presa del potere”, è abbastanza contrastato. In generale l’economia presenta elementi di stagnazione, le diseguaglianze sono cresciute, resta molto forte la dipendenza dagli introiti derivanti dall’esportazione di materie prime grazie alle quali si sono avuti alcuni anni di forte crescita. L’economia russa ha trovato un suo relativo assestamento e le significative spese sociali, non sono facilmente intaccabili senza il rischio di una caduta del consenso per il blocco di potere dominante, come si è verificato in occasione del recente tentativo di riformare il sistema pensionistico.

Un sistema “superpresidenzialista”

Formalmente il sistema istituzionale russo è simile al semipresidenzialismo francese, dato che prevede un Presidente della Repubblica con un forte ruolo politico, accompagnato da un capo del governo. Nei fatti questo assetto si è trasformato in “superpresidenzialismo” in quanto al “rafforzamento dei poteri del presidente corrisponde una carenza di pesi e contrappesi” (p. 21), per effetto della “debolezza delle altre istituzioni democratiche” e soprattutto del Parlamento (p. 17).

Mentre il potere di El’cin si era andato via via indebolendo a causa della perdita di consensi dovuti alla crisi economica e sociale, alla mancanza di una solida base parlamentare e alle scelte spesso contradditorie dello stesso presidente, Putin ha attuato una serie di iniziative tali da crearsi un blocco di potere più solido e direttamente dipendente dal suo controllo.

Tra queste anche la formazione, nel 2001, di un “partito dominante”: Russia Unita (p.23). Questa formazione politica viene descritta come “una macchina elettorale delle élite regionali” (p.65)  mentre ideologicamente viene percepita come “un partito di centro sulle questioni economiche e di politica estera, essendo più orientato verso l’Occidente”. Vi sono al suo interno varie correnti che però confluiscono  in una piattaforma politica vaga, da “partito piglia-tutto”. La costruzione del consenso deve però molto alle “pratiche clientelari” (p. 66). Sarebbe stato utile un riferimento alle relazioni internazionali che ha intessuto negli anni Russia Unita al fine di metterne meglio a fuoco il profilo ideologico.

Molto succinto e poco approfondito il riferimento alla principale forza di opposizione parlamentare, il Partito Comunista delle Federazione Russa (PCFR) di cui si rileva la “relazione complicata e controversa” con il regime putiniano (p. 68)[3].

Il bilancio complessivo sulla realtà politico-istituzionale della Federazione Russa, che si basa sull’impostazione metodologica di Giovanni Sartori (assai schematica e discutibile, a parere di chi scrive) secondo il quale i regimi politici si dividono in “democratici e non democratici”, escludendo la possibilità di regimi intermedi, porta la Professoressa Morini  a “inserire la Russia nella categoria dei regimi non democratici sia per la mancanza di condizioni minime dei regimi democratici (pluralismo d’informazione, pluralismo partitico, elezioni libere e segrete, rule of law, diritti civili e politici)…in contrapposizione ai regimi liberaldemocratici rappresentativi” (pp. 195-196).

La Russia di Putin è uno Stato aggressivo?

Nei media italiani viene a volte presentata la Russia come uno Stato che promuove una politica estera aggressiva, tesi grazie alla quale vengono approvate una serie di azioni politiche occidentali quali le sanzioni economiche, l’allargamento della Nato, la conseguente partecipazioni italiana a manovre militari svolte ai confini del territorio russo.  La ricostruzione dei rapporti tra Russia e occidente (Usa e Unione Europea) nel capitolo ad essa dedicato non mi pare confermare questa narrazione. La Professoressa Morini ricorda che nel dicembre del 1991, l’allora presidente americano Bush padre descrisse la fine della guerra fredda come una vittoria degli Stati Uniti e dei “valori americani” (p.189), un’impostazione che ha largamente definito il rapporto con la Russia post-socialista.

L’autrice ricorda poi una serie di atti dell’Occidente che hanno “sempre più minato i suoi confini e la posizione in ambito internazionale” a partire dall’espansione della Nato a est e dai bombardamenti della Serbia. Da questo deriva che “l’assunto più diffuso degli analisti di relazioni internazionali è che gli sforzi di indebolire i sistemi democratici da parte della Russia non sono altro che una conseguenza di decenni di imposizione di forme ‘aliene’ di governance negli stati post-comunisti e in Medio Oriente” (p. 163). Anche sulla questione della Crimea, “annessa” o ritornata alla Russia (da cui era stata staccata da Khrusciov che l’aveva “annessa” all’Ucraina, ma in contesto ben diverso dall’attuale) il libro non si adagia alle abituali semplificazioni della propaganda mediatica.

Per ragioni di tempi di pubblicazione, la recente riforma costituzionale che potrà consentire a Putin di restare ancora al potere per molti anni senza dover necessariamente ricorrere alla cosiddetta “tandemocrazia”, che lo ha visto svolgere il ruolo di capo del governo quando non poteva per limiti costituzionali continuare a svolgere la funzione di Presidente della Repubblica, viene solo accennata. Le modeste opposizioni che si sono registrate di fronte a questa proposta confermano che il controllo di Putin sulla Federazione è ancora forte, ma è anche un segno di debolezza di un regime che non ha ancora dimostrato di poter funzionare a prescindere dal suo “uomo forte”.

Se è vero che “ai russi poco importa la concentrazione di potere in un unico organo istituzionale. Interessa che la propria condizione economica migliori o non subisca brusche frenate” (p. 196), allora sarà proprio l’andamento economico della Russia nel mondo post-Covid19 a poter aprire qualche crepa significativa nel sistema putiniano.


[1] https://transform-italia.it/putinismo-bonapartista-malattia-senile-del-capitalismo/.

[2] https://transform-italia.it/che-ve-ne-sembra-della-cina/.

[3] Sulle vicende dei comunisti russi dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, segnalo due volumi molto interessanti ma risalenti ormai a diversi anni fa: J. B. Urban and V. Solovei, Russia’s Communists at the crossroads, Westview Press, Boulder-Oxford, 1997 e L. March, The Communist Party in post-soviet Russia, Manchester University Press, Manchester-New York, 2002.

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