editoriali

Un Draghi è per sempre

di Franco
Ferrari

I due giornali che meglio rappresentano pensieri e desideri delle classi dominanti italiane (Corriere della Sera e Sole 24 Ore) hanno più volte sottolineato nei giorni scorsi che Draghi determinerà scelte che vincoleranno anche le future compagini governative. Ben al di là della durata, ancora incerta, dell’attuale Governo. E non lo rilevavano certamente per deprecare un fatto che porterà inevitabilmente ad imbrigliare la dialettica politica futura. Al contrario, tutto ciò viene visto come una garanzia che chiunque prevalga alle prossime elezioni non potrà deragliare dalla strada tracciata ed è bene che le forze politiche ne siano consapevoli.

Si auspica una democrazia “embedded”, ritenuta condizione necessaria per consentire all’Italia di uscire dalla crisi prodotta dalla pandemia che si è innestata su una lunga stagnazione ventennale. Soprattutto di uscirvi senza modificare i rapporti di forza favorevoli conquistati in un trentennio di egemonia liberista che hanno modificato il senso comune del Paese e spostato decisamente a destra tutto il sistema politico.

Le scelte di Draghi, quelle contenute nel Piano, sottoposto a passo di carica all’approvazione del Parlamento, e le “riforme” ad esso connesse (fisco, giustizia, concorrenza, ecc.) hanno l’ambizione di ristrutturare e rilanciare il sistema economico e sociale italiano, magari lasciando per strada qualche settore meno produttivo e profittevole, rafforzandone il blocco economico e finanziario centrale. Occorrerà far fronte ad una fase che prevedibilmente porterà ad uno scontro globale fra la Cina da un lato ed il blocco atlantico, guidato dagli Stati Uniti. Cercando comunque di rafforzare al suo interno la dimensione europea, a partire del consolidamento del ricorso all’indebitamento comune. Un passaggio senza il quale non regge nemmeno il rafforzamento del ruolo della BCE come prestatore di ultima istanza per gli Stati.

La paura delle classi dominanti italiane in questo passaggio di fase, al di là delle esagerazioni retoriche, è reale. Per questo l’affidamento a Draghi riguarda non solo la contingenza e l’uscita dalla crisi, ma prevede la capacità dell’ex Presidente della BCE, di rimettere in moto un intero modello di sviluppo, effettuando le ristrutturazioni produttive necessarie e adeguando a questa ristrutturazione tutta la sovrastruttura giuridica necessaria.

È probabile che il Governo, fatti salvi sempre possibili incidenti di percorso, debba restare in carica almeno fino alla conclusione del percorso di “riforme” che difficilmente sarà completato prima del 2022. Il Piano di Draghi potrebbe influire sulle scelte di governo dei prossimi anni in tre modi diversi.

In primo luogo per l’indirizzo del piano di investimenti contenuto nel PNRR, nel quali sono contenuti impegni che vanno anche oltre l’ammontare dei fondi messi a disposizione dall’Unione Europea. E sul quale ci sarà uno stretto controllo e condizionamento da parte della Commissione di Bruxelles. In secondo luogo l’insieme dei provvedimenti legislativi connessi, che dovranno garantire alcune innovazioni importanti ma garantendo l’autonomia delle imprese dall’intervento dello Stato. Il timore espresso più volte in questi mesi dai principali mezzi d’informazione era che tra gli effetti di lungo periodo della crisi vi fosse una richiesta di maggiore presenza dello Stato nella direzione dell’economia. Evitare che lo Stato riprenda un ruolo importante nella determinazione delle politiche economiche ed industriali di lungo periodo è presumibilmente anche l’obbiettivo di Draghi. Infine il Piano prevede un certo grado di indebitamento che si rifletterà sulle politiche di bilancio dei prossimi anni. Non sappiamo se l’allentamento dei vincoli di previsti dai trattati europei durerà a lungo. Al momento tutti spiegano che bisogna spendere, che le politiche di austerità seguite alla crisi finanziaria del 2008-2010 sono state un errore e così via. Ce lo ricorda anche chi fino a poche settimane fa sosteneva il contrario. Ma la decisione di tornare ad imporre regole più restrittive potrà essere utilizzata politicamente in qualsiasi momento.

Questo ripropone anche il tema del vincolo esterno che è collegato all’idea della democrazia “imbrigliata”. In diversi passaggi decisivi del capitalismo italiano si è scelto di introdurre una qualche forma di condizionamento, partendo dalla convinzione che le forze politiche, per quanto ormai conquistate al paradigma liberista, restassero sempre troppo permeabili a spinte dal basso, che si traducevano in maggiore spesa pubblica. La natura del vincolo esterno poteva cambiare nel tempo ma questa è sempre stata la convinzione di fondo che ha mosso l’azione di settori decisivi delle classi dominanti. Così fu per la decisione presa, quasi privatamente, da Andreatta e Ciampi di separare Tesoro e Banca d’Italia. Decisione per effetto della quale il debito pubblico italiano è fortemente cresciuto. In quel caso il vincolo esterno era garantito dal mercato finanziario privato. Così fu in buona parte anche la decisione di sostenere i trattati di Maastricht e tutta l’impostazione successiva.

Il vincolo esterno, con buona pace dei “sovranisti” di destra e di sinistra, è stato in realtà un modo per esternalizzare le politiche perseguite dall’establishment economico-finanziario e aggirare la sua cronica debolezza nel costruire un ampio consenso alle proprie politiche.

La stessa vicenda del ricorso al MES ne è un’ennesima prova. Per mesi è stato sostenuto quotidianamente come una scelta indispensabile per fronteggiare le conseguenze della pandemia sul sistema sanitario. Non ricorrervi era presentato come un crimine, frutto di ossessioni ideologiche. Col cambio di Governo il tema è stato completamente rimosso dal dibattito. Nessuno lo chiede più. Nemmeno dall’Europa è venuta alcuna sollecitazione in tal senso. Anche in questo caso ciò che interessava era l’introduzione, attraverso il MES, di una qualche forma di controllo esterno sulle politiche di bilancio italiano.

Democrazia “imbrigliata” e ricorso al vincolo esterno, sono due elementi che anche in questa fase ripropongono il modo con il quale il capitalismo italiano si è sempre proposto di gestire le fasi di cambiamento e che Gramsci ha individuato nella “rivoluzione passiva”. La scelta di puntare su Draghi e sul controllo politico da parte di un gruppo di tecnici e di figure del mondo imprenditoriale per gestire il processo di ristrutturazione produttiva del capitalismo italiano, sembra riproporre nuovamente questa visione radicata nella borghesia italiana. Ma l’uscita dalla crisi avrebbe bisogno di tutt’altro: un mutamento radicale del blocco sociale dominante e una spinta dal basso nella direzione del rinnovamento della struttura economica e sociale. Riportando in politica e nelle istituzioni il conflitto sociale dalle quali è stato sostanzialmente espulso.


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