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Un anno di Hirak. La rivolta pacifica algerina e il corona virus

di Samia
Kouider

di Samia Kouider, Sociologa –

1. Un anno di manifestazioni

Ogni martedì e venerdì Algeri, Béjaïa, Bordj Bou Arreridj, Costantina, Ghardaia, Sétif, Orano, Tizi-Ouzou, Tlemcen, così come altre grandi città dal nord al sud dell’Algeria sono state teatro di massicce manifestazioni fino al lockdown causa pandemia coronavirus decretato il 22 marzo. La domenica invece era la volta degli algerini all’estero. Questo pacifico Hirak  (in lingua araba, ”movimento”) è iniziato il 16 febbraio 2019 quando diverse centinaia di manifestanti si sono radunati a Kherrata, una piccola città del nord est per opporsi al quinto mandato del presidente algerino Bouteflika, molto malato, ricoverato a Ginevra e assente dalla scena pubblica da diversi anni. Venerdì 22 febbraio, la protesta si è diffusa in tutto il paese: centinaia di migliaia di donne e uomini di tutte le età e di ogni ceto sociale organizzati tramite social e altre reti, dopo la preghiera settimanale, invadono le strade e marciano pacificamente per chiedere i loro diritti costituzionali. Le parole d’ordine sono: “Un solo potere, il popolo“, “Per uno stato civile, non uno stato militare” e “silmya silmya”. Gli algerini esigono pacificamente l’istituzione di un effettivo Stato di diritto.

E’ un anno che l’Algeria vive un nuovo capitolo della sua storia: un’indiscutibile rottura con la sclerosi politica, sociale e culturale che ha dominato il paese dagli anni ’90, dal decennio nero del terrorismo. La società civile, finora maggioranza silenziosa e rassegnata, ha rivendicato le libertà confiscate: la libertà di marciare in tutte le città, compresa Algeri dove era vietato manifestare, la libertà di esprimersi, la riappropriazione diretta della parola, in questi anni lasciata solo ai numerosi partiti politici di “opposizione” e dozzine di giornali e TV private più o meno arruolati. Gli algerini trovano anche un’unità civile e nazionale nelle rivendicazioni perché tutte le città e i comuni di questo vasto paese conoscono gli stessi drammi: discriminazione, clientelismo, corruzione, disoccupazione, povertà ecc. senza alcuna distinzione. “il Hirak è frutto di un accumulo di esperienze dolorose, spesso tragiche ma sempre sordide, imposte dal regime agli algerini per almeno trent’anni. Dal colpo di stato militare dell’11 gennaio 1992 “scrive il giornalista Rafik Lebdjaoui su Algeria-Watch.[1]

In effetti, ad ogni marcia settimanale gli algerini esprimono, spesso con umorismo e grande creatività, il rifiuto categorico di vedere il loro paese in balia dei generali e governato da un clan antidemocratico, autoritario e senza alcuna visione del futuro. Ripudiano al issaba (la gang) che non ha prodotto altro che l’esclusione, la disperazione, lo spreco di denaro e risorse pubbliche. A ciò si aggiunge la totale perdita di credibilità delle istituzioni dello Stato comprese quelle che dovrebbero proteggere i loro diritti costituzionali. L’hashtag della mobilitazione è #YATNAHAW_ GA3 cioè “fuori tutti”.

Nonostante numerosi tentativi per frenarlo o minarlo dall’interno e centinaia di arresti arbitrari, durante le 56 settimane consecutive di marce in ogni angolo del paese, il Hirak si è continuamente aggiornato, declinato sulla base delle congiunture del momento. La gente ha marciato contro il quinto mandato del vecchio Bouteflika, contro le elezioni farsa, per la scarcerazione dei detenuti condannati per reati d’opinione ma anche contro la nuova legge sugli idrocarburi dello scorso ottobre. Con il volere del generale capo dell’esercito e la firma di un Presidente senza mandato, la legge apre agli investimenti delle multinazionali del settore e allo sfruttamento del gas di scisto, ignorando ancora l’alternativa energetica nonostante l’enorme potenziale del paese in energia solare, eolica e idrotermale.

In risposta, il regime ha fatto ricorso al vecchio farrek tassoud (dìvide et ìmpera) e alla pressione psicologica  come ad esempio quando, prima delle elezioni presidenziali di dicembre, ricorre di nuovo allo pseudo antagonismo tra arabofoni e berberofoni. Con questo stratagemma, il capo dello Stato maggiore Gaid Salah dichiara il divieto di esibire l’emblema Amazigh (berbero) e ordina una brutale repressione dei manifestanti.  Decine di giovani vengono arrestati e i tribunali costretti a deliberare su un delitto che non esiste nella legislazione del paese. Questa azione fallì miseramente: l’emblema Amazigh non è mai stato sbandierato così tanto in tutti gli angoli del paese.

Tuttavia, durante quest’anno di costante mobilitazione il movimento di protesta ha subito anche battute d’arresto: se è riuscito a spingere il presidente malato Abdelaziz Bouteflika a dimettersi, a cancellare le elezioni presidenziali del 18 aprile e del 4 luglio 2019, non è riuscito a costringere il regime a stabilire un periodo di transizione e accettare di istituire un’assemblea costituente per rifondare il sistema politico algerino. La società civile nella sua maggioranza esige la piena applicazione degli articoli 7 e 8 dell’attuale Costituzione. Ilprimo stabilisce che “il popolo è la fonte di ogni potere [e che] la sovranità nazionale appartiene esclusivamente al popolo”. Il secondo, che “il potere costituente appartiene al popolo, [che] esercita la sua sovranità attraverso le istituzioni che si dà [e] anche tramite referendum e attraverso i suoi rappresentanti eletti”. Il 12 dicembre 2019, nonostante la vasta opposizione, le elezioni presidenziali si sono infine svolte e si sono concluse con la vittoria di Abdelmadjid Tebboune 74 enne, uomo della nomenklatura, il favorito del capo dell’esercito nonché Primo Ministro di Abdelaziz Bouteflika, il presidente estromesso.  Il sentimento collettivo è che “la gang” al potere continua ad ignorare la strada anche dopo mesi di mobilitazione.

2. L’invisibilità mediatica, la sfida del movimento

“Le proteste in Algeria sono grandi, disciplinate, persistenti, non violente, 38 settimane. Incomprensibile che non ricevano quasi nessuna attenzione nei media internazionali. Il più grande paese dell’Africa, il secondo più popoloso del mondo arabo. La dimensione del terzo orientale degli Stati Uniti”. E’ il tweet del 10 novembre 2019 (38° venerdì di protesta) di David D. Pearce, ex ambasciatore degli Stati Uniti ad Algeri[2]. Gli algerini non avevano bisogno del tweet dell’ambasciatore. Il boicottaggio mediatico, lo vivono ogni giorno dall’inizio della protesta. Il giornalista straniero è assente, le manifestazioni sono coperte da giornalisti e fotoreporter nazionali, tra cui diversi corrispondenti di alcuni media internazionali e arabi che ne fanno cenno spesso in fondo alle notizie. La rara visibilità nei media internazionali è spesso opera di giornalisti e intellettuali algerini espatriati che fanno da eco ai loro colleghi sul campo. Il governo lo ha capito e gli arresti arbitrari di giornalisti e attivisti del movimento sono regolarmente denunciati da organizzazioni per i diritti umani. Il più recente è Khaled Drareni, giornalista freelance fondatore di CasbahTribune, RadioM e corrispondente per TV5 Monde. Fu brutalmente aggredito e arrestato mentre era al lavoro. Sono criticati per tutto fino al ridicolo come il caso – per nominarne solo uno tra le centinaia – di Said Boudour, giornalista indipendente e attivista della Lega Algerina per la Difesa dei Diritti Umani (LADDH) convocato dalla Corte di Orano (350 km a ovest della sua città Algeri) “per un post su Facebook” come riferiscono la LADDH e il Comitato Nazionale per la Liberazione dei Prigionieri (CNLD), impegnati per il rilascio dei “prigionieri di opinione e politici “arrestati dall’inizio del movimento di protesta”.

Gli algerini hanno continuamente denunciato la censura subita dalle piattaforme dei social media, in particolare Facebook sospettato di fedeltà al regime. Molti accounts di attivisti, informatori, oppositori ma anche cittadini comuni sono stati chiusi uno dopo l’altro, non appena segnalati. Gli emigrati algerini hanno manifestato fuori dalla sede centrale di Facebook a Parigi,[3] Bruxelles, Londra e Madrid e nella Silicon Valley per esprimere la loro indignazione per le “restrizioni imposte all’opposizione in Algeria dai  giganti dei social media americani attraverso l’antenna che appartiene agli Emirati Arabi” e per inviare un messaggio forte a Mark Zuckerberg. Saïd Salhi, vicepresidente della Lega Algerina per la Difesa dei Diritti Umani, conferma che il suo account è stato bloccato più volte e dichiara al quotidiano EL WATAN “Si tratta di attacchi mirati contro chiunque abbia la voce del Hirak o qualsiasi altro contraddittorio. Dopo il blocco dei media tradizionali ora è la volta dei social media: l’obiettivo è soffocare le voci che diffondono il movimento. È una pratica sistematica e penso che peggiorerà … È una guerra di informazioni elettroniche, è un problema. I social sono i media alternativi per contrastare quelli convenzionali (radio, televisione)”. Secondo Ali Kahlane, vice presidente del think tank CARE in effetti “su una popolazione di 42.450.000 abitanti, l’Algeria ha oltre 22 milioni di account Facebook. Gli utenti di Internet seguono le notizie il 52,34% su Facebook, il 36,73% su YouTube e il 5,2% su Twitter. Fin dall’inizio del movimento popolare, Facebook è diventata la piattaforma per i contatti e condivisioni tra attivisti poi una vera e propria arena politica in cui si discutono le diverse posizioni politiche”[4].

3. Il Hirak della diaspora algerina 

E’ proprio grazie al web e alle condivisioni di informazioni sui social che, dall’avvento della protesta, la maggioranza della diaspora algerina ha aderito al movimento. Parigi, Londra, Montreal, Washington, New York, Tokyo e molte altre grandi città sono stati teatro di sit-in settimanali per contribuire alla rifondazione di uno stato algerino moderno democratico. Diverse marce in Belgio, Canada, Spagna, Stati Uniti, Francia hanno avuto luogo chiedendo l’allontanamento di tutta la casta al potere e in solidarietà con i numerosi prigionieri per reati di opinione. Alla chiamata, tra gli altri, del collettivo “Libérons l’Algérie”, un insieme di organizzazioni fondate da algerini all’estero, centinaia di manifestanti si sono mobilitati in particolare in Francia, dove risiede la maggior parte della diaspora. Nella loro dichiarazione congiunta, si sottolinea subito che “il nostro paese sta vivendo un momento senza precedenti, è anzi storico perché tutte le categorie della società algerina, compresa la nostra diaspora, si stanno mobilitando in strada per sollecitare l’allontanamento dell’intero regime. È un’insurrezione popolare che copre l’intero territorio algerino ed è fondamentalmente cittadino e particolarmente pacifico. “ Il ricercatore Didier Le Saout[5], che ha raccolto diverse testimonianze di emigranti algerini a Parigi  riporta: “la protesta nelle piazze  è anche una risposta alla politica dello Stato algerino nei confronti dei suoi cittadini. Le autorità hanno fatto tutto”, continua Amar, “per farli sentire in colpa. Inoltre, hanno costituzionalmente escluso gli algerini della diaspora …. Non sono autorizzati a candidarsi alla presidenza o ad assumere un posto ministeriale. Vedi un po’. E sai quanto costa quest’anno il biglietto aereo (per Algeri)? 850 euro”. Amar vive l’aumento dei prezzi della compagnia aerea nazionale come un collocare l’emigrato tra le file degli indesiderati: “È un modo, continua Amar, per ostacolare e punire la diaspora per la sua mobilitazione e il suo sostegno”.

Durante la campagna elettorale, nessun candidato alla presidenza della repubblica prese impegni e neppure menzionò i problemi degli emigrati algerini. Eppure durante tutte le elezioni che l’Algeria ha conosciuto dall’avvento del pluralismo politico trent’anni fa, il voto degli espatriati è ambito, percepito come un barometro di ciò che accadrà dopo, incluso il tasso generale di partecipazione. Nel 1995, durante le elezioni presidenziali che portarono al potere il generale Liamine Zeroual, le immagini di migliaia di elettori algerini in Francia che si precipitavano ai seggi elettorali dal primo giorno avevano ampiamente contribuito alla credibilità del voto nell’opinione pubblica internazionale. Come nel 1995, lo svolgimento delle elezioni presidenziali del 12 dicembre 2019 è stato presentato dal regime e dai suoi alleati internazionali come l’unica soluzione alla crisi. Ma l’Algeria del 2019 non assomiglia a quella del 1995, allora drammaticamente colpita dal terrorismo. Inoltre, le caratteristiche sociodemografiche della diaspora algerina sono cambiate in 25 anni: siamo alla terza generazione della tradizionale emigrazione ma è anche in una diaspora sparsa per il mondo e composta da cervelli in fuga, giovani donne e uomini di alto livello d’istruzione spinti ad andarsene con qualsiasi mezzo e ovunque per mancanza di opportunità e futuro nel paese. Tra il 2000 e il 2013, sotto il regime di Bouteflika, 840.000 algerini hanno lasciato il paese contro 110.000 durante gli anni ’90,  gli anni bui del terrorismo, “una grave emorragia delle nostre élite universitarie”.[6]

Tutti s’informano, si moltiplicano le chat attraverso le quali si organizzano e partecipano al Hirak nelle principali capitali; un’opportunità per fare giustizia contro l’esclusione subita da loro e dalle loro famiglie. Il  professor M’hamed Benkherouf,  psicologo residente in Francia e presidente  dell’“Alliance internationale des compétences algériennes établies à l’étranger” (Alleanza internazionale delle competenze algerine all’estero) conosce bene la comunità algerina in Francia, in particolare i harragas[7]. A questo proposito, in un’intervista rilasciata alla rivista economica eBourseDZ.com dice “la comunità algerina stabilita in Francia, in Europa o in qualsiasi altro luogo non era certo felice di lasciare il proprio paese.  Spesso ci fu una politica ben pianificata per spingere le competenze algerine, l’intellighenzia, i laureati a lasciare il paese, ostacolando qualsiasi possibilità. L’Alleanza sostiene il Hirak, senza riserve, contribuendo a estenderlo all’estero. Abbiamo le stesse aspirazioni, gli stessi desideri di questo movimento popolare da cui proveniamo. Abbiamo visto … un drastico calo dei tentativi di emigrazione clandestina in Europa. Sono in una buona posizione per confermarti questo. Ma ciò non significa che le domande di visto siano interrotte; ce ne sono ancora alcune … Ma all’improvviso c’è un cambio di mentalità; l’algerino si rende improvvisamente conto che questo paese è il suo paese e che ora ha voce in capitolo nelle decisioni politiche ed economiche, che può cambiare il corso delle cose e che può contribuire a migliorare la sua situazione e quella del suo paese”[8].

“La convergence pour le changement démocratique en Algérie (CCDA)”[9]  un raggruppamento di comitati di algerini residenti in Algeria e all’estero, sottolinea nella sua piattaforma che  “La comunità algerina all’estero … è presente soprattutto ogni domenica per portare il suo solido sostegno  a questa rivoluzione attraverso la caccia agli oligarchi, in fuga all’estero con i loro guadagni illeciti, davanti alle autorità giudiziarie dei paesi ospitanti: questa comunità si è sentita colpita in primo piano dalla politica di esclusione fatta dall’attuale sistema mafioso. L’emigrazione all’estero è una diretta conseguenza del nepotismo sistemico e dell’emarginazione sistematica di competenze non arruolate al regime. Il più grande disprezzo per la diaspora è stato costituzionalizzato nel 2016 con l’emendamento dell’articolo 51 della Costituzione che viola il diritto all’uguaglianza degli algerini davanti alla legge”.

Stavolta il clan al potere non ha più la rete di supporto all’estero e nessun candidato ha fatto campagna elettorale presso gli algerini all’estero. Inoltre, in tutti i comizi elettorali la diaspora è stata completamente ignorata. Non sorprende quindi se la maggioranza degli emigrati algerini ha partecipato al boicottaggio delle elezioni presidenziali di dicembre 2019 e ha organizzato sit-in di protesta di fronte a numerosi consolati. Il carattere pacifista delle mobilitazioni e un efficace servizio d’ordine erano la regola per inviare un messaggio inequivocabile -“siamo persone civili”-   anche al paese in cui vivono che troppo spesso li discrimina. Il civismo si manifesta anche con i bracciali verdi e i gilet arancione di coloro che sono addetti alla raccolta dei rifiuti e alle pulizia delle piazze o strade alla fine dell’evento. Emblematico è il video pubblicato sulla pagina ufficiale della polizia belga che, dopo una manifestazione contro le elezioni, ringrazia e si congratula con gli algerini per il loro pacifismo e la loro civiltà. L’Autorità nazionale indipendente, un’organizzazione creata dall’ex presidente ad interim per le elezioni presidenziali, dichiara il tasso del 7,52% della partecipazione al voto all’estero, il tasso è solo a doppia cifra in Tunisia (15,81 %), ad Abu Dhabi (14,42) e Lione in Francia (11,63). In Italia ha votato l’8,73% degli iscritti sulle liste elettorali.

Mai dalla guerra d’indipendenza, cioè dal 1962, gli algerini, che siano al paese o all’estero, hanno conosciuto una tale empatia, una tale unione.

4. Verso una nuova Algeria

I successi della massiccia protesta popolare che ha portato milioni di algerini a manifestare non hanno però ancora raggiunto il “palazzo della politica”. Il movimento non ha partecipato alle ultime elezioni presidenziali, non ha alcuna responsabilità negli arresti di ex ministri, generali, leader di partito e altri alti funzionari accusati di corruzione e appropriazione indebita di proprietà pubblica: quella è solo una guerra interna al clan al potere. Il movimento e i suoi leaders non sono stati ascoltati e ancor meno coinvolti nella stesura del programma del nuovo governo.  

I risultati di questa costante e pacifica rivoluzione sono altrove e sono notevoli. Il Hirak ha dimostrato di essere un movimento civico unitario nazionale riunendo tutte le categorie sociodemografiche, indipendentemente dal genere, l’età, l’etnia, la regione o il ceto sociale. Questa adesione massiccia trova le sue ragioni nell’ampio consenso sulle rivendicazioni di giustizia, libertà e dignità gridate o cantate ogni martedì, ogni venerdì e davanti a carceri e tribunali.  Non solo, discussioni e analisi sono ovunque nelle scuole, nelle università, nei caffè, dal parrucchiere come al mercato, nell’hammam o a casa. Ragazze e ragazzi di meno di 25 anni (sono quasi la metà dell’intera popolazione) finora completamente esclusi dalla politica si sono immersi in dibattiti su argomenti come l’Assemblea costituente, il processo di transizione, gli articoli 7, 8 e 102 della Costituzione, la storia del paese, etc…La politica è diventata di moda e gli algerini hanno iniziato a credere che possono essere attori della loro stessa storia. Il protagonismo della società civile quindi esiste oggi e qualunque sia la sua visibilità altrove e il suo esito futuro, il paese profondo avrà finalmente ritrovato la voce. Avrà sperimentato un nuovo modo di agire politico, di pensare alle generazioni future sulla base di realtà e bisogni concreti, di porre questioni regionali, nazionali ed internazionali. Ha riproposto con forza la centralità della questione democratica, ha tolto il velo sui danni della corruzione e sulle disuguaglianze non solo nella condivisione delle risorse del paese, ha messo al centro le questioni ambientali, ecc.  Infine, ed è rilevante per un paese di giovani e giovanissimi, ha riportato al presente i principi ispiratori dei padri fondatori della Repubblica algerina e della rivoluzione per l’indipendenza: alcuni slogan lo testimoniano  “Algeria libera e democratica” “Liberiamo l’Algeria” “Non ci piegheremo” “Avete tradito la rivoluzione” “Uno Stato civile e non militare”.

Venerdì 13 marzo 2020, il 56èsimo, sfidando il divieto di assembramento istituito la vigilia per prevenire l’epidemia del coronavirus, migliaia di algerini sono usciti lo stesso in diverse città del paese. La posta in gioco è alta: per alcuni fermare le marce è mettere fine alla protesta e lasciare spazio alla repressione, per altri invece è un atto di responsabilità.  In un editoriale sul sito di RadioM, Said Djaafer, un noto giornalista e membro attivo del movimento, scrive “Dobbiamo fermare le marce e le manifestazioni. La pandemia del coronavirus è grave. La fine delle marce non è una sconfitta, non sta concedendo una vittoria del potere sull’Hirak, tutt’altro. Molti l’hanno detto e scritto, e possiamo solo ripeterlo: l’hirak ha già ottenuto l’essenziale mettendo in luce, grazie alla sua insurrezione pacifica e intelligente, la mostruosa corruzione del regime e dei suoi uomini. Questo regime non può più contare sul patriottismo per reggere, gli algerini hanno messo in moto, senza violenza e con notevole energia creativa, il processo di cambiamento. Fra le più brillanti parole d’ordine del  Hirak abbiamo “Netrabaw ga3”  e “Netwa3aw ga3 ” ossia “educhiamoci tutti” “siamo consapevoli tutti “. Con questa crisi globale a causa del coronavirus, lo dobbiamo più che mai. Anche se il regime fa di tutto, per ragioni che non hanno nulla a che fare con l’amore di patria, per isolare l’Algeria, noi facciamo parte del mondo. La pandemia ci riguarda, ci minaccia. Ci minaccia ancora di più poiché il nostro sistema sanitario è degradato, incapace di gestire un’epidemia…la paura di perdere la grande breccia aperta nel conquistare lo spazio pubblico, lo spazio nazionale non deve portarci all’ostinazione suicida… Siamo già diversi e migliori grazie al Hirak”[10].

Tuttavia, molti non si illudono che la crisi del coronavirus ed il “coprifuoco” decretato dal presidente nel giro di pochi giorni, possa minare questa lunga marcia verso la democrazia e la libertà. L’apparato di sorveglianza e controllo di massa contro il Covid-19. è lo stesso contro il quale il paese si è rivoltato. Dovunque nel mondo gli imperativi di salute pubblica si scontrano con principi democratici fondamentali come la libertà di movimento, la protezione dei dati personali. L’algerino che per troppo tempo ha vissuto l’imperativo della sicurezza nazionale contro il terrorismo oggi, a ragione, non sa se temere solo il corona virus.


[1]     Algeria-Watch, 28 mai 2019. https://algeria-watch.org/?p=72057

[2]   https://twitter.com/daviddpearce/status/1193342156657823744?lang=en

[3]   https://www.dailymotion.com/video/x7o0fr5

[4]https://www.elwatan.com/a-la-une/comptes-bloques-ou-signales-facebook-censure-t-il-les-opposants-algeriens-21-11-2019

[5] Didier Le Saout ‘’Faire hirak à Paris. Les mises en scène d’une révolution contre le «système algérien»‘’ https://doi.org/10.4000/anneemaghreb.5381 p.131-146

[6] huffpostmaghreb.com, 20 settembre 2014

[7] Neologismo algerino per chi emigra per via illegale

[8] http://bourse-dz.com/le-pr-mhamed-benkherouf-decortique-six-mois-de-hirak/

[9] https://algeriepart.com/2019/09/04/diaspora-creation-de-la-convergence-pour-le-changement-democratique-en-algerie-pour-soutenir-le-hirak/

[10] https://www.radiom.info/arreter-les-marches-est-imperieux-le-hirak-doit-nous-aider-a-vaincre-nos-coleres-editorial/

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