Ricordare che anno sia stato il 2022 per il carcere è necessario per cercare di evitare che quello appena iniziato ne sia l’inerziale continuazione e lavorare invece per determinare una rottura rispetto ad approcci e pratiche custodialiste che hanno fatto del carcere un contenitore di esclusione sociale, marginalità e sofferenza psichica (una “discarica sociale”, come viene spesso definito con un’espressione forse efficace ma certamente disturbante), molto più che la “soluzione” al problema di difesa sociale dalla criminalità.
L’anno passato ha fatto registrare un numero monstre di suicidi, 84, di gran lunga la cifra più elevata da quando i dati vengono sistematicamente registrati (1992) e incomparabile con i numeri della popolazione generale. Il carcere, del resto, non è un luogo qualsiasi e le condizioni di vita sono, anche al di là della materialità, confrontabili solo con quelle di altri luoghi di privazione della libertà (centri di detenzione per migranti, residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza ecc.). Ma ogni suicidio, dovunque avvenga, ha motivazioni complesse e spesso inconoscibili fino in fondo, perfino per le persone più vicine. È irrispettoso, quindi, attribuire a una sola causa tutti questi suicidi e lo è altrettanto addebitare quelli degli agenti di polizia penitenziaria (4 nello stesso periodo di tempo) agli eccessivi carichi di lavoro, come pure è stato fatto.
È tuttavia possibile individuare alcuni elementi comuni ai suicidi dei detenuti, la cui analisi può e deve indurre ad attuare misure che abbiano l’obiettivo di prevenirne il maggior numero possibile. Tali elementi emergono chiaramente dallo studio in corso dell’autorità garante dei diritti delle persone private della libertà personale sui suicidi negli istituti penitenziari1. Si verificano più frequentemente, per esempio, nei periodi in cui si riducono la presenza di personale e di soggetti della comunità esterna e le attività, a cominciare da quella scolastica (17 dei suicidi del 2022 si sono consumati ad agosto). Quando le persone libere vanno meritatamente in ferie, evidentemente, aumenta la percezione di isolamento e di un tempo “vissuto nel nulla meramente privativo”2. Ne consegue la necessità di impiegare tutti gli strumenti disponibili – e di immaginarne di nuovi3 – per riempire quel tempo, per attribuirgli un senso.
Non basta perciò aumentare le occasioni di lavoro, che pure è necessario. Intanto perché i detenuti hanno bisogno di soldi per tutte quelle esigenze, a cominciare da un cibo diverso4, che l’amministrazione non soddisfa e che le famiglie (quando ci sono) potrebbero non riuscire a soddisfare. Ma l’insistenza sul lavoro5 come strumento di contrasto ai suicidi (come si è ascoltato dopo l’ennesimo) suona come la misura, non come una delle misure da adottare e sembra riecheggiare l’educazione e la rieducazione alla produzione propria della “nascita della prigione”. Riempire di senso il tempo non può esaurirsi nell’essere impegnati per un tot di ore al giorno in un’attività di qualche tipo, foss’anche professionalizzante. Chi vive in carcere non ha davanti un mondo di possibilità, anche se è giovane (e molti detenuti non lo sono), anche se la sua permanenza in carcere non è destinata ad essere lunga (l’Italia ha però pene elevate e lunghe carcerazioni preventive). Ma avere il lavoro come sola possibilità non è sufficiente. Le attività di istruzione e formazione sono scarse almeno quanto il lavoro, per esempio, e si concentrano prevalentemente negli istituti più grandi (e, in questi, nelle sezioni maschili). Il contributo del volontariato (anch’esso più attivo dove si trova un maggior numero di persone), che porta in carcere anche attività sportive e culturali, è stato fortemente ridimensionato dalle misure assunte durante la pandemia e stenta a riprendere6.
Altri elementi utili alla ricostruzione del contesto in cui si sono verificati i suicidi sono relativi alla durata della carcerazione (ci si uccide di più nei primi mesi di detenzione), alla posizione giuridica (in misura più che proporzionale i suicidi avvengono tra persone in attesa di giudizio), alla condizione di fragilità o vulnerabilità (pregressi atti di autolesionismo o tentativi di suicidio). Nei primi 3 mesi dall’arresto si concentra quasi la metà dei suicidi del 2022 e se questo dato non li “spiega”, deve però indurre a riflettere su quanto la cesura che la detenzione opera sia devastante e per alcuni, forse, insopportabile. La presenza di figure di sostegno (psicologi, innanzitutto, decisamente insufficienti negli organici) potrebbe aiutare ad attutire l’impatto con un universo “altro”, sconosciuto e sconcertante. E, soprattutto, sarebbe necessario permettere la continuità dei contatti con il proprio “fuori” affettivo, attraverso un maggior numero di colloqui e telefonate, come è avvenuto durante la pandemia da Covid, con l’utilizzo delle videochiamate via internet, che ha consentito anche ai detenuti stranieri di non spezzare del tutto i rapporti precedenti, di tenersi ancorati al proprio mondo.
Non sono le questioni di “sicurezza” a impedire la messa in atto di queste misure né di altre, come la possibilità di avere spazi in cui vivere l’intimità e la sessualità: è l’idea, nemmeno implicita, che il carcere debba essere afflittivo, che la prigione debba essere l’unica forma di pena per i condannati e quasi l’unico strumento di prevenzione dei reati. Ne derivano tassi di carcerazione elevati, sovraffollamento, insufficienza delle cure fisiche e psicologiche per i detenuti e condizioni di lavoro difficili per il personale a ogni livello, elementi che non si può dire abbiano determinato i suicidi ma che certamente costituiscono il contesto nel quale si sono verificati.
È stessa miope logica custodialista che non riesce a vedere oltre il carcere ad aver riportato dentro, alla fine dello scorso anno, circa 700 persone che, per effetto delle misure adottate nel 2020 per ridurre il rischio di contagio da Covid, erano state autorizzate a trascorrere fuori dal carcere anche la notte, essendo già ammesse a un regime, quello cosiddetto di semilibertà, che permette ordinariamente di uscire al mattino per rientrare la sera, svolgendo attività lavorativa all’esterno. Non aver prorogato quella misura, che si è rivelata efficace non solo rispetto all’obiettivo fissato, ma anche in termini di “successo” rieducativo, con scarsissimi episodi di infrazione delle misure imposte, è stato un errore non inaspettato ma ugualmente grave e, anche in un’ottica di pura efficacia, del tutto insensato. Ma essere garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione penale, come la presidente del Consiglio ha affermato di essere, significa anche questo: assumere decisioni guardando ai “segnali” che si mandano invece che al merito.
Maria Pia Calemme
- L’anticipazione di alcune delle conclusioni dello studio, con dati aggiornati al 30/11/22 (79 suicidi), è pubblicata sul sito del garante.[↩]
- Ibid.[↩]
- Sullo stesso tema rmando alla lettura di un precedente articolo, Il vero crimine è stare con le mani in mano.[↩]
- Le gare per la fornitura del cibo nelle carceri italiane (il vitto) si aggiudicano con il criterio del massimo ribasso, come molte altre gare, e la spesa media dell’amministrazione nel 2021 è stata di 3 al giorno euro per detenuto (colazione, pranzo e cena).[↩]
- La stragrande maggioranza dei detenuti che ha un lavoro in carcere (oltre 18.500) è dipendente dell’amministrazione penitenziaria e svolge lavori di pulizia interna, manutenzione, lavanderia, cucina ecc.[↩]
- Come emerge anche dalla ricerca Al di là dei muri delle Acli.[↩]