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Ucraina: la guerra di Putin la guerra di Biden

di Ernesto
Screpanti

(Testo di un seminario tenuto presso L’Osservatorio Europeo il 4 ottobre 2022)

 

“Ciò che colpisce nell’attuale politica degli Stati Uniti è che cerca d’impedire un
processo storico che sembra inevitabile: il processo d’integrazione euroasiatica.”

(Prashad, 2022, 6)

 

La guerra d’Ucraina può essere spiegata a tre livelli di profondità. È una guerra d’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, una guerra inter-imperiale per interposta nazione tra NATO e Russia, una guerra degli USA contro la Germaneu, l’Europa a trazione tedesca. Tutte e tre le spiegazioni sono valide. Qui mi concentro sulla terza. Preliminarmente però devo fornire due chiarimenti teorici.

Il primo riguarda la definizione di “sistema imperiale”. Un mondo dominato dagli imperi non è un caotico complesso di contrasti inter-imperiali. Normalmente funziona come un sistema abbastanza ordinato di relazioni internazionali, cosa che è resa possibile dal fatto che è regolato da una struttura di potere al vertice della quale c’è una potenza egemone. Questa potenza assolve quattro funzioni fondamentali di governance globale, ponendosi come motore dell’accumulazione, banchiere, sceriffo e avanguardia culturale (Screpanti, 2014). Funziona come motore dell’accumulazione in quanto ha un grosso apparato industriale, un grosso Pil e un’elevata propensione alle importazioni, cosicché la sua crescita produttiva traina la crescita degli altri paesi. Se mantiene un consistente deficit commerciale e/o un consistente deficit del conto finanziario esporta moneta. In tal modo fornisce al resto del mondo uno strumento di riserva e di pagamento internazionale, e questa è la funzione di banchiere globale. Inoltre, l’impero egemone può essere uno sceriffo globale in quanto possiede le più potenti forze armate del mondo, così da poter disciplinare i paesi canaglia, cioè quelli che non rispettano le regole del gioco. Infine, in forza dell’enorme surplus che estrae da tutto il mondo, l’impero egemone investe massicciamente nella ricerca scientifica e tecnologica ponendosi all’avanguardia del progresso tecnico; non solo, ma date le sinergie tra le diverse dimensioni del lavoro intellettuale, la potenza egemone riesce anche a esportare nel mondo la propria cultura e l’ideologia delle proprie classi dominanti. Nello svolgere questi servizi, l’impero egemone ottiene due grossi vantaggi economici. Può mantenere un sistematico deficit commerciale, in virtù del quale consuma più di quanto produce, e un sistematico deficit nel movimento dei capitali, con cui s’impossessa di risorse e capacità produttive di altri paesi. Può farlo perché paga i deficit esterni creando moneta. In sostanza estrae un surplus di merci e risorse dal resto del mondo pagandolo con “carta”.

Un sistema imperiale s’inceppa se il potere dell’egemone viene sfidato da altri imperi emergenti. Quando ciò accade, il mondo entra in una grande crisi sistemica che coinvolge l’economia, la politica e la cultura. Ciò è accaduto, ad esempio, nella prima metà del ventesimo secolo, quando l’egemonia britannica, che aveva retto il mondo per un secolo, fu sfidata dall’impero tedesco e da quello americano. La grande crisi sistemica di allora è durata 31 anni, dal 1914 al 1945. In mezzo ci sono state due grandi guerre, due grandi rivoluzioni, la grande crisi del ’29, la stagnazione degli anni ’30, il crollo del gold standard e la nascita del fascismo. La crisi si risolse con la sconfitta dell’imperialismo tedesco, il ridimensionamento di quello inglese e l’emergere degli Stati Uniti come nuova potenza egemone.

La mia tesi è che all’inizio di questo millennio siamo entrati in una nuova grande crisi sistemica a causa del successo di due potenze imperiali, Cina e Germaneu, che stanno sfidando l’egemonia americana.

Il secondo chiarimento riguarda la necessità di separare la politica dall’economia. Anche sul piano delle relazioni internazionali esiste un’autonomia del politico. Da una parte c’è una spinta all’accumulazione capitalistica, che punta a estendere il dominio del capitale su scala mondiale attraverso l’internazionalizzazione delle imprese, l’espansione del commercio estero, lo sviluppo delle catene internazionali del valore. I soggetti di questo processo costituiscono la classe dei capitalisti. Le loro relazioni economiche si evolvono attraverso processi di competizione oligopolistica. Dall’altra parte c’è un’autonoma spinta all’espansione degli imperi politici e all’aumento del loro potere. I soggetti di questo processo costituiscono il ceto dei politici di professione. Le loro relazioni passano per la competizione geostrategica.

All’interno di ogni impero politici e capitalisti cercano d’influenzarsi reciprocamente. Di solito ci riescono abbastanza bene, nel qual caso le azioni politiche ed economiche tendono a essere reciprocamente funzionali. Ma non sempre ciò accade, perché i due gruppi di soggetti hanno interessi diversi, gli uni mirando all’accumulazione di potere, gli altri all’accumulazione di capitale. Si tratta di vedere se, pur in presenza di contrasti disfunzionali temporanei, alla fine si afferma un predominio della spinta politica o di quella economica.

La tesi che sosterrò è che i conflitti geopolitici attuali, che sono finalizzati alla conquista dell’egemonia imperiale, risultano disfunzionali agli interessi del grande capitale multinazionale.

Cos’è la Germaneu?

A volere essere precisi, più che “Europa a trazione tedesca” Germaneu intende significare “Germania con il suo impero neo-mercantilista europeo”. Per capire il senso delle politiche neo-mercantiliste tedesche si deve riflettere sul modo in cui è stata usata l’Unione Economica e Monetaria.

  1. La moneta unica ha impedito agli altri paesi europei di difendersi dalla concorrenza tedesca con le svalutazioni del cambio
  2. Ha impedito all’Euro di rivalutarsi quanto si sarebbe rivalutato il Marco se non ci fosse stata l’UEM
  3. L’euro comunque si è consolidato come moneta forte nei confronti del dollaro, dello yuan e del rublo, così favorendo l’importazione di materie prime, gas e petrolio a basso costo
  4. I governi tedeschi hanno praticato sistematicamente politiche fiscali restrittive in modo da evitare un’eccessiva crescita dei salari e del costo del lavoro
  5. In questo modo hanno fatto trainare il Pil dalla crescita delle esportazioni più che da quella della domanda interna
  6. È stato imposto uno statuto della Banca Centrale Europea che normalmente costringe l’autorità monetaria a fare politiche restrittive più che espansive
  7. Sono state imposte politiche di austerità anche agli altri paesi europei, così contribuendo a mantenere bassa la crescita salariale e rendere economicamente conveniente l’estensione europea delle catene del valore tedesche
  8. Le imprese tedesche hanno praticato una sistematica politica d’investimenti diretti esteri greenfield in Europa per produrre semilavorati e componenti a basso costo del lavoro, e allo stesso tempo hanno esteso gli investimenti brownfield in modo da impossessarsi di imprese dinamiche ed efficienti del made in Italy, del made in France eccetera.

Concentriamoci sul punto 8. La Germaneu ha una struttura economica a cerchi concentrici. Al centro c’è un primo cerchio che è costituito dalla Repubblica Federale Tedesca. Intorno c’è un secondo cerchio composto di una serie di paesi con economie fortemente integrate con quella tedesca. Joseph Halevy parla di un “blocco tedesco”; il Fondo Monetario Internazionale, di una “catena del valore Tedesco-Centroeuropea”. Secondo Halevi, nel cerchio delle economie più strettamente integrate con quella tedesca compaiono: Belgio, Olanda, Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Austria, Svizzera. Non c’è l’Italia in quanto tale. Ma io ci metto la Padania, per motivi che spiegherò più avanti.

L’ultimo cerchio è costituito da tutti gli altri paesi dell’Unione Europea i quali, secondo i progetti del cancelliere tedesco Scholz, dovrebbero quanto prima arrivare al numero di 36 e includere le repubbliche dei Balcani occidentali, l’Ucraina, la Moldova e la Georgia. Dal punto di vista della Germania ciò che accomuna tutti i paesi europei è il fatto che, insieme, costituiscono il più grosso mercato di sbocco delle merci e dei capitali tedeschi. Nel 2021 il 53% delle esportazioni tedesche andava in paesi dell’EU, mentre verso gli Stati Uniti e la Cina andavano il 9% e il 7%. Nel 2020 lo stock d’investimenti diretti esteri della Germania verso gli Stati Uniti era pari a 2.639 milioni di dollari, quello verso Francia, Olanda, Polonia, Italia e Austria a 44.990.

Per dare un’idea dell’economia del secondo cerchio mi avvarrò soprattutto dei contributi di Casiraghi (2021), D’Eramo (2022), Halevi (2022) e Scassellati (2022b). Da quando esiste l’EU tutti i paesi del cerchio hanno progressivamente intensificato gli scambi commerciali con la Germania. E tutti hanno potuto aumentare le esportazioni verso la Cina anche in forza di un’azione di traino svolta delle esportazioni tedesche e dalle interconnessioni industriali create dalle imprese tedesche. Il blocco del secondo cerchio si può suddividere in tre gruppi di paesi. Il gruppo nord-occidentale, composto da Olanda e Belgio; il gruppo di Visegrád, di cui fanno parte Polonia, Cechia, Slovacchia e Ungheria; e il gruppo meridionale, che contiene Austria, Svizzera e Padania. Nel 2021 la Germania aveva dei leggeri deficit commerciali con la Cechia, la Slovacchia e l’Ungheria e godeva di un surplus verso tutti gli altri paesi del secondo cerchio.

I due paesi del gruppo nord-occidentale hanno un elevatissimo interscambio commerciale con la Germania. Nel 2021, l’Olanda era il terzo partner, dopo Cina e USA; Belgio e Olanda insieme erano il primo. Ormai costituiscono il più grosso hub logistico della Germaneu, soprattutto nel porto di Rotterdam. Importano input produttivi dal resto del mondo e li riesportano in Germania. Hanno un settore manifatturiero tecnologicamente avanzato e competitivo.

I paesi del gruppo di Visegràd si sono specializzati nella produzione di automobili tedesche di fascia bassa e componenti per quelle di fascia alta, oppure, come l’Ungheria, nella produzione di elettrodomestici tedeschi. Importano tecnologie dalla Germania e producono beni e componenti a basso valore aggiunto, fornendo alle multinazionali tedesche un vantaggio competitivo connesso ai bassi salari e a trattamenti fiscali di favore. In molti casi le imprese tedesche fanno produrre in questi paesi componentistica e poi assemblano le merci finali ad alto valore aggiunto in patria. Il volume di scambi che la Germania ha con Polonia, Cechia, Slovacchia e Ungheria è più alto di quello che ha con la Cina.

I paesi del gruppo meridionale sono dotati di apparati industriali efficienti, dinamici e innovativi. Nella classifica mondiale della complessità economica, la Svizzera occupa il secondo posto (dopo il Giappone), la Germania il quarto e l’Austria il sesto. L’indice di complessità economica esprime tra l’altro l’emergere continuo di innovazioni, la presenza di un’organizzazione gerarchica con interazioni numerose e complicate, la capacità dei soggetti economici di evolvere apprendendo. Svizzera e Austria importano molto dalla Germania e vi esportano molto, specialmente beni capitali tecnologicamente avanzati, anche per l’industria militare. Mantengono comunque un deficit commerciale.

Quanto alla Padania – che merita di spenderci qualche parola in più, se non altro per mettere in chiaro che appartiene al secondo cerchio della Germaneu – pare condividere alcune caratteristiche del gruppo meridionale e alcune del gruppo di Visegràd. Infatti è dotata di un apparato industriale dinamico e tecnologicamente avanzato, come i paesi del gruppo meridionale, e nello stesso tempo tende a funzionare come catena del valore subordinata alle multinazionali tedesche, come i paesi del gruppo orientale. Tra le nazioni del secondo cerchio l’Italia è quella con il maggior numero di robot industriali per 10.000 addetti (224 nel 2020), mentre nell’Area Euro è seconda solo alla Germania (371). E occupa il 14° posto nella classifica della complessità economica. Sembrerebbe non molto alto. Eppure è più alto di quelli del Belgio (21°) e dell’Olanda (27°), oltre che della Francia (16°), della Polonia (23°) e della Spagna (32°). Le imprese delle regioni settentrionali dell’Italia esportano in Germania beni del made in Italy di alta qualità e molti tipi di semilavorati e prodotti intermedi, anche in settori avanzati come la meccanica di precisione, la meccatronica, le componenti elettro-meccaniche e le plastiche per l’automotive tedesco d’alta gamma. Ciò spiega perché l’interscambio commerciale Italia-Germania è piuttosto forte. In sostanza è di questo tipo: l’Italia esporta soprattutto beni intermedi dei settori della siderurgia, dei macchinari e del chimico-farmaceutico; poi importa i prodotti finiti assemblati in Germania, soprattutto del settore dei mezzi di trasporto e del chimico-farmaceutico. La Germania è il principale partner commerciale dell’Italia, che ha tuttavia un sistematico deficit degli scambi. Nel 2021 le esportazioni italiane ammontavano a 77,12 miliardi di dollari e le importazioni a 88,55, per un interscambio complessivo di 165,67 miliardi, il terzo (dopo quelli di Olanda e Polonia) tra i paesi del secondo cerchio. Circa il 39% di questo interscambio coinvolgeva la Lombardia nel 2017, ma era forte anche quello di Veneto (17%), Emilia-Romagna (12%) e Piemonte (11%). Tra tutte le altre regioni, quella con il più alto interscambio era il Lazio (7%). Nel 2020 lo stock di investimenti diretti esteri tedeschi in Italia ammontava a 7.142 milioni di dollari (quello detenuto in Svizzera a 4.737). Le catene del valore tedesche in Italia si avvalgono in parte di beni prodotti da affiliate di imprese multinazionali tedesche, in parte di beni prodotti in imprese partecipate da multinazionali tedesche e in parte di beni prodotti da imprese italiane autonome. Nel 2015 (l’anno più recente per cui sono riuscito a trovare questo tipo di dati) il numero d’imprese tedesche che detenevano partecipazioni in imprese italiane era pari a 1.357, più alto di quello di qualsiasi altro paese, compresi gli USA (1.138). E il numero d’imprese italiane partecipate da multinazionali tedesche era pari a 2.144. Il 3,7% del fatturato totale realizzato dalle partecipazioni estere delle imprese tedesche era realizzato in Italia, secondo solo a quello realizzato in Svizzera (4%) tra i paesi del secondo cerchio. Infine faccio notare che la restrizione alla Padania come regione integrata globalmente tramite gli investimenti diretti esteri è giustificata anche dal fatto che circa l’80% di questo tipo d’investimenti in Italia si disloca nelle regioni dell’Italia settentrionale.

Un “miracolo geologico” che si chiama Russia

È stata definita “miracolo geologico” perché è ricchissima di risorse minerarie. Detiene il 23% delle riserve mondiali di petrolio, il 33% di quelle di gas e il 50% di quelle di carbone. Ha anche il 10% delle riserve mondiali di terre rare, collocandosi al quarto posto nel mondo dopo Cina, Vietnam e Brasile. Inoltre nel suo sottosuolo si trovano abbondanti riserve di manganese, mercurio, potassio, bauxite, cobalto, cromo, stagno, nichel, fosfati, rame, tungsteno, zinco, alluminio, titanio, uranio, stagno, apatite, sali potassici, magnesite, argento, oro, platino e diamanti. Non solo, ma ha enormi estensioni di terreno fertile per la produzione agricola. E non parliamo delle immense foreste che alimentano la sua fiorente produzione di legname e carta e le industrie di trasformazione del legno.

Non ci si deve perciò meravigliare quando si scopre che la moderna Russia ha una bilancia commerciale sistematicamente in surplus, con circa il 43% delle esportazioni costituito da risorse energetiche, il 17% da altre risorse minerarie e l’8% da prodotti agricoli. Naturalmente sto parlando della situazione prebellica. Particolarmente importanti sono state le esportazioni di energia verso la Germaneu. Il petrolio russo giunge in Europa tramite l’oleodotto Druzhba, mentre il gas è trasportato in Germania dal gasdotto Yamal-Europa (che attraversa la Polonia), e fino qualche giorno fa anche dal North Stream 1 (che passa per il mar Baltico).

In compenso, il settore manifatturiero è poco sviluppato, a parte l’industria pesante e degli armamenti. E piuttosto debole è la capacità innovativa. Nel 2021 la spesa russa in ricerca e sviluppo ammontava a 38 miliardi di dollari, mentre quella statunitense era di 679, quella cinese di 551 e quella tedesca di 143. Si capisce che i principali mercati di sbocco delle esportazioni russe erano i paesi più bisognosi di energia e materie prime, cioè i più industrializzati dell’Eurasia: Cina, Germania e Olanda. E indovinate quali erano i paesi da cui la Russia importava di più? Be’, erano quelli tecnologicamente più avanzati: Cina, Germania e Stati Uniti, con la Germaneu al primo posto.

In particolare la Germania ha giocato un ruolo importante nella reindustrializzazione della Russia post-sovietica, esportandovi macchinari e impianti, contribuendo all’ammodernamento e all’estensione delle reti di trasporto e trasferendovi tecnologie avanzate. La stessa cosa ha fatto la Cina, ma non quanto la Germania e l’EU.

La Russia è importante per la crescita economica della Germaneu non soltanto perché vi esporta materie prime ed energia, ma anche perché è la regione dove passano le reti di trasporto delle merci che la Germania e l’EU scambiano con la Cina (Pepe, 2019), e si ricordi che la Cina è il paese con cui la Germania ha il più grosso interscambio commerciale (292,85 miliardi di dollari nel 2021).

Si può dire che nell’ultimo quarto di secolo si è venuta a creare una robusta complementarità tra Russia e Germaneu. Funziona così: la Russia esporta prodotti agricoli e minerari e reimporta prodotti finiti e beni capitali. È un rapporto di simbiosi che si è andato rafforzando nel tempo, al punto che oggi nessuno dei due paesi può crescere a ritmi sostenuti senza il contributo dell’altro.

Così stretta è tale simbiosi, e la risultante convergenza strategica, che il Centro Studi di Geopolitica della Duma ha definito “Gerussia” la regione cui appartengono i due stati – un nuovo insieme geopolitico la cui potenza sarebbe superiore a quella della somma delle parti. Berlino d’altronde coltiva questo rapporto esclusivo almeno da quando Kohl ricevette il nullaosta russo alla riunificazione tedesca, se non vogliamo risalire addirittura all’Ostpolitik di Brandt (Santangelo, 2016). E tutti i successivi cancellieri tedeschi, fino al 2021, si sono orientati in questa direzione: da Schroeder, che per la sua politica filorussa è stato premiato con la presidenza della Gazprom, e perciò è ora fortemente criticato in Germania; alla Merkel, che si è adoperata per la sottoscrizione degli accordi di Minsk e più in generale per il rafforzamento delle relazioni privilegiate Germania-Russia, e anche lei è oggi criticata per questo.

The empire strikes back

Della crisi dell’egemonia americana si è parlato già negli anni ’70, in un dibattito cui hanno partecipato specialmente economisti statunitensi. Quel dibattito era tutto concentrato sul problema di un indebolimento interno degli Stati Uniti dal quale sarebbe emersa una serie d’incapacità: di tenere in piedi il gold exchange standard stabilito a Bretton Woods; di sconfiggere il Vietnam; di reggere la concorrenza industriale giapponese e tedesca; di mantenere la leadership culturale, scientifica e tecnologica. Poi l’accordo del Plaza (con cui Giappone e Germania sembravano rimessi in riga), l’affermazione del dollar standard (con cui veniva ristabilito il potere monetario) e il crollo dell’impero del male (con cui usciva di scena il principale rivale militare) parvero aver risollevato le sorti dell’egemonia americana.

All’indomani del disfacimento dell’URSS negli Stati Uniti si cominciò a parlare di un “nuovo ordine mondiale”. Paul Wolfowitz, allora sottosegretario alla difesa nel governo di George H. W. Bush, scrisse un Defense Planning Guidance nel quale sosteneva che la politica americana avrebbe dovuto mirare a impedire l’emergere di qualsiasi potenziale futuro concorrente globale e che avrebbe dovuto portare nell’orbita strategica americana tutti gli stati che erano appartenuti alla sfera d’influenza Sovietica (New York Times, 1992). Successivamente Zbigniew Brzezinski (1997, 209) propose una nuova strategia imperiale in forza della quale gli Stati Uniti avrebbero dovuto porsi come “l’arbitro chiave delle relazioni di potere eurasiatiche”, così diventando “la potenza suprema del mondo”. A tal fine avrebbero dovuto far leva sull’Ucraina, inglobandola nella NATO. Fece anche osservare che questa strategia avrebbe reso l’Europa e la Germania più dipendenti dagli Stati Uniti.

Senonché nel passaggio di millennio emersero i veri fattori della crisi imperiale, cioè due grandi imperi mercantili, quello cinese e quello tedesco, che si sentirono finalmente in grado di lanciare la sfida. È nota l’ostilità di varie amministrazioni statunitensi nei confronti del mercantilismo cinese e di quello tedesco-europeo, cioè delle politiche che hanno portato i due imperi emergenti a realizzare enormi surplus commerciali e a crescere così rapidamente da minacciare il primato americano nel volume del Pil, mentre lo hanno già abbattuto nel volume della produzione manifatturiera. Della Cina inoltre si paventa la rapida crescita militare e il forte dinamismo tecnologico; della Germaneu anche la capacità di produrre una moneta che fino a qualche anno fa sembrava voler scalzare il dollaro nella funzione di principale strumento di riserva internazionale. È evidente che se la sfida della Cina e quella della Germaneu si dovessero saldare, cosa che potrebbe avvenire sul terreno degli scambi commerciali con e attraverso la Russia, gli Stati Uniti verrebbero surclassati in tutte e quattro le funzioni di governance globale. Si capisce perciò che quell’ostilità è andata gradualmente crescendo, a volte in modo anche ridicolo, fino a esprimersi nella salvinesca genialità di Trump, che credeva di disciplinare i due rivali con le politiche protezioniste, riuscendo invece a danneggiare soprattutto le esportazioni americane.

Con Biden, o meglio, con il think tank politico-militare che gli sta dietro – un gruppo bipatisan di falchi liberali e neoconservatori che fa capo soprattutto al Council on Foreign Relations (Foster, Ross e Veneziale, 2022, 34, 37) – si è affermato un metodo più raffinato: l’uso della NATO per creare un cordone di “sicurezza” sempre più stretto e aggressivo intorno alla Cina e alla Russia. Riguardo alla Germania, pare che il think tank americano abbia individuato nell’imperuzzo di Putin l’anello debole del neoimperialismo tedesco, e che abbia capito di poter colpire economicamente quest’ultimo colpendo militarmente il primo. Un piano dell’Army Research Division della Rand Corporation (Dubbins, 2019) prevedeva che la Russia avrebbe dovuto essere attaccata, attraverso le sanzioni, nel punto in cui era più vulnerabile, cioè la sua dipendenza dalle esportazioni di energia; e che in tal modo sarebbe anche aumentata la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti, dai quali avrebbe dovuto importare più petrolio e gas naturale liquefatto.

Quanto alla Cina, bisogna intanto dire che quello che Xi Jinping vorrebbe far passare per “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi” si è ormai rivelato come una forma di “vero e proprio capitalismo di mercato con caratteristiche cinesi”, sicché gli Stati Uniti la osteggiano “non tanto per motivi ideologici, come ai tempi della guerra fredda contro l’Unione Sovietica, ma per motivi commerciali, economici, finanziari, tecnologici” (Salmoni, 2022, 111-2). Di conseguenza i paesi della NATO (2022, 5) l’hanno identificata come la principale minaccia “ai nostri interessi, alla nostra sicurezza, ai nostri valori”:

La PRC impiega un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta e il suo potere globali, pur rimanendo opaca sulla strategia, le intenzioni e la crescita militare. Le perfide operazioni cibernetiche della PRC e la sua retorica del confronto e della disinformazione hanno di mira gli Alleati e mettono a rischio la sicurezza dell’Alleanza. La PRC cerca di controllare settori chiave dell’industria e della tecnologia, infrastrutture critiche, materiali strategici e catene dell’offerta. Usa la leva economica per creare dipendenze strategiche e rafforzare la propria influenza, si sforza di sovvertire l’ordine internazionale basato sulle regole, inclusi i domini spaziali, cibernetici e marittimi.

Si capiscono le provocazioni del gruppo di battaglia della portaerei nucleare Uss Ronald Reagan nel Mar Cinese Meridionale, le crociere della settima flotta intorno a Taiwan, la visita di cortesia di Nancy Pelosi, la richiesta americana di ammettere Taiwan all’ONU, l’aumento della fornitura d’armi all’isola, l’addestramento americano di forze speciali taiwanesi. Sembrerebbe che l’intento sia quello di trascinare Xi Jinping in una trappola taiwanese come quella in cui è caduto Putin in Ucraina. Dopo di che, giù con le sanzioni alla Cina e le armi a Taiwan. Il termine tecnico è “ucrainizzare Taiwan”.

Nel frattempo, la SEATO essendo stata sciolta nel 1977, pare che gli USA stiano lavorando per fondare una NATO asiatica (Carpenter, 2020). E tanto per cominciare, nel 2021 hanno creato l’AUKUS, l’alleanza militare anti-cinese tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, baluardo dell’imperialismo anglo-sassone in Asia. Poi, sempre nel 2021, hanno rivivificato il Quad plus (Quadrilateral Security Dialogue), un’alleanza informale anti-cinese di cui fanno parte Stati Uniti, Australia, India, Giappone, Nuova Zelanda, Sud Corea e Vietnam.

La guerra economica USA-Germaneu

Ma sul confronto USA-Cina non mi voglio dilungare, essendo qui interessato soprattutto a quello USA-Russia e a quello USA-Germaneu. È noto che l’attuale guerra d’Ucraina – indubbiamente una guerra d’aggressione – è stata preceduta da una serie di provocazioni: dalla strage di Odessa e dal defenestramento di Yanukovich, fino all’approvazione nel 2020 della nuova strategia di sicurezza di Zelensky con l’obiettivo dell’adesione all’Alleanza atlantica. E non dimentichiamo le violazioni degli accordi di Minsk, fatte da entrambe le parti, ma più gravemente da Kiev, il cui governo si è rifiutato di riconoscere l’autonomia alle regioni russofone – un’autonomia che avrebbe potuto contrastare la decisione di aderire alla NATO.

Così la guerra d’Ucraina è diventata una trappola in cui la Russia è caduta con grande orgoglio, e in cui rischia di restare invischiata per diversi anni. Per la precisione, si tratta di una guerra convenzionale d’occupazione, scatenata dalla Russia, che si svolge in parallelo con una “guerra ibrida” americana basata prevalentemente su sanzioni economiche, azioni propagandistiche e disinformative e guerra cibernetica. “Prevalentemente” non vuol dire “esclusivamente”. L’impegno militare americano in Ucraina è massiccio, passando per la fornitura di armi, l’addestramento di truppe e perfino l’uso dei servizi Starlink (una rete satellitare d’accesso a internet) per il coordinamento del fuoco dell’artiglieria ucraina. È un impegno in una “proxy war”, iniziata nel 2014 con l’invio di istruttori americani alle forze armate ucraine, che finora è costata agli USA qualcosa come 50 miliardi di dollari (Foster, Ross e Veneziale, 2022, 10).

Il fatto più importante, dal punto di vista dei contrasti inter-imperiali, è che le conseguenze economiche della guerra d’Ucraina non ricadono solo sull’Ucraina e la Russia. Ricadono ampiamente anche sulla Germania, che da lungo tempo andava tessendo una tela di strette relazioni commerciali con la Russia e con la Cina (con la quale nel 2020 aveva fatto sottoscrivere all’EU un importante accordo commerciale, il Comprehensive Agreement on Investment). Agli Stati Uniti era infine diventato chiaro che la Germaneu stava rendendosi indipendente da loro attraverso lo sviluppo delle relazioni economiche euro-asiatiche. D’altra parte, sul piano diplomatico-militare, già dal 2016 era stata varata una Strategia globale dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza, seguita dall’istituzione del Piano d’azione per la difesa europea e del Fondo europeo per la difesa, tutti provvedimenti con cui si mirava ad aumentare l’autonomia dagli USA rilanciando il multilateralismo (Salmoni, 2020, 229-44). Tuttavia in epoca più recente, per la precisione il 21 marzo 2022, il Consiglio Europeo ha approvato la “Bussola Strategica”, un piano volto a rafforzare la capacità di difesa europea che si muove piuttosto nell’alveo della NATO e nel rispetto dell’egemonia americana.

Probabilmente è vero quanto sostiene Lang (2021, 70), e cioè che “il principale conflitto nel mondo, oggi, è tra gli Stati Uniti e l’Europa, non tra gli Stati Uniti e la Cina”. Ebbene le conseguenze geopolitiche della guerra d’Ucraina sono tali da aver precluso per diversi anni a venire lo sviluppo delle relazioni simbiotiche dell’EU con la Russia e probabilmente anche di aver indebolito quelle commerciali con la Cina.

Vediamo intanto alcune delle conseguenze economiche più immediate. E partiamo dai seguenti dati:

  Crescita Pil      Inflazione
2021 2022 2021 2022
 USA 5,7 2,3 4,7 7
 Area Euro 5,4 2,6 2,6 7
 Germania 2,9 1,2 3,2 7,2
 Russia 4,7 -7,5 6,7 16,2
 Cina 8,1 3,3 0,8 2

I dati del 2021 sono reali. Quelli del 2022 sono stime, probabilmente un po’ ottimistiche. Ad agosto negli USA c’era un’inflazione annuale dell’8,3%, nell’Area Euro del 9,1%, in Germania del 7,9%, in Russia del 14,3% e in Cina del 2,5%.

Le cifre che saltano subito agli occhi sono quelle della Russia, che è in profonda crisi economica e tende all’iperinflazione. Il paese potrebbe entrare in una lunga stagflazione. È vero che le esportazioni e il surplus commerciale hanno continuato a crescere, ma questo è stato un effetto dell’aumento dei valori piuttosto che dei volumi. Il rublo, dopo il crollo dei primi giorni di guerra (0,0075 dollari = 1 rublo), si è rivalutato arrivando a un livello (0,0191) perfino superiore a quello d’anteguerra (0,0131). Questa però è l’unica nota positiva. I salari sono diminuiti di -7,2%, -6,1% e -3,2% nei mesi di aprile, maggio e giugno. E sono diminuite anche le importazioni di beni capitali e i trasferimenti di tecnologia dalla Germaneu. Molte imprese sono rimaste senza pezzi di ricambio, altre senza input produttivi. A giugno la produzione manifatturiera è diminuita di -4,5% su base annua. L’effetto più grave di lungo periodo potrebbe essere l’innesco di un processo di deindustrializzazione, tanto più grave in quanto la Russia non figura tra i paesi maggiormente industrializzati del mondo. Il che ci fa capire che il fattore tempo gioca contro la Russia. E ha ragione Janet Yellen (2022, 3), la ministra del tesoro americana, quando osserva che gli Stati Uniti, l’EU e gli altri paesi sanzionatori del G7 hanno potuto imporre costi significativi all’economia Russa perché in passato hanno assorbito circa la metà del suo commercio mentre le loro istituzioni finanziarie hanno facilitato gran parte dei suoi investimenti.

Ma le sanzioni stanno colpendo pesantemente anche i sanzionatori. Come ho detto, le stime mostrate in tabella sono un po’ ottimistiche. I tassi di crescita del Pil tedesco sono stati dello 0,8% nel primo trimestre del 2022 e dello 0,1% nel secondo trimestre. Quelli dell’Area Euro dello 0,7% e dello 0,8%. Né è difficile prevedere che il quarto trimestre si chiuderà con un tasso di crescita molto basso o negativo e che nel 2023 l’intera economia europea entrerà in una recessione, se non una profonda crisi. D’altra parte si stima che un buon 10% dell’industria tedesca finirà fuori mercato per carenza d’energia e per eccesso d’inflazione. E qualcuno arriva a prevedere addirittura una perdita di base industriale del 25%. È dunque evidente che “le sanzioni contro la Russia sono in realtà delle sanzioni contro la Germania e la competitività della sua industria” (Ferrero, 2022), oltre che contro tutta l’Europa.

L’inflazione era cresciuta già da prima dello scoppio della guerra, ma si pensava che fosse un fenomeno temporaneo dovuto alle strozzature dell’offerta determinate dalla crisi Covid. Senonché la guerra ha scatenato le aspettative degli speculatori. Inizialmente sono state soprattutto aspettative inflazionistiche che hanno fatto aumentare i prezzi dell’energia e dei prodotti agricoli e quindi hanno innescato una inflazione da costi generalizzata. Nonostante la crescita dei salari nominali, i salari reali dell’Area Euro nel terzo trimestre del 2022 sono diminuiti di -5% su base annua. I redditi reali delle famiglie più povere, in cui è più alto il peso dei consumi di energia e cibo, sono diminuiti ancora di più (Schnabel, 2022, 2). Quindi hanno cominciato a farsi sentire le aspettative pessimistiche dei consumatori. Anche le aspettative degli imprenditori sull’andamento della domanda sono peggiorate, nonostante l’aumento dei profitti causato dall’inflazione. Le aspettative pessimistiche di consumatori e imprenditori, trasferendosi ai mercati finanziari, hanno spinto al ribasso tutte le borse. In tal modo, peggiorando le condizioni di finanziamento delle imprese, vengono ulteriormente scoraggiati gli investimenti cosicché le aspettative pessimistiche di famiglie e imprese e si autorealizzano. Intanto, già a luglio 2022 la produzione manifatturiera dell’Area Euro era diminuita di -2,7% su base annua.

A peggiorare le cose ci si mettono le politiche monetarie. Per far fronte all’alta inflazione le Banche centrali alzano i tassi d’interesse. I meccanismi attraverso cui agisce questo tipo di politica sono due. Innanzitutto c’è un effetto-cambio: il rialzo dei tassi d’interesse fa rivalutare il cambio e quindi riduce l’inflazione importata. E poi c’è un effetto-salari: il rialzo dei tassi d’interesse innesca la recessione in quanto riduce i consumi di beni durevoli (case, automobili eccetera, che sono finanziati in debito) e quindi scoraggia gli investimenti; la disoccupazione aumenta; la combattività operaia e la densità sindacale si riducono poiché cresce la paura di perdere il posto di lavoro; rallentano i salari monetari; l’inflazione ha ridotto quelli reali, la recessione impedisce il recupero; a quel punto le imprese possono smettere di alzare i prezzi. In sintesi, il rialzo dei tassi d’interesse riduce l’inflazione perché consente di redistribuire il reddito dai salari ai profitti bloccando la spirale inflazionistica a spese dei lavoratori. È a questo tipo di politica che si pensa quando si dice che la politica monetaria viene usata come frusta del movimento operaio.

Attualmente è in corso una guerra dell’inflazione e dei tassi tra Fed e BCE. La Banca americana è stata più pronta e determinata di quella europea: dal 16 marzo ha rialzato i tassi cinque volte, portando il federal funds rate a un intervallo 3-3,25%, e si prevedono ulteriori rialzi anche nel 2023. La BCE ha tentennato un po’. Ha alzato i suoi tassi di 0,50% a luglio e di 0,75% a settembre, portando il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginale all’1,50%. Non si sa cosà farà nel prossimo futuro. Ma sono prevedibili ulteriori rialzi, se si darà retta alla raccomandazione di mettere in atto un “robusto controllo” dell’inflazione tramite il rialzo dei tassi d’interesse – raccomandazione proveniente da Isabel Schnabel (2022), membro tedesco del Comitato Esecutivo della BCE.

La BCE deve far fronte alla speculazione sul debito pubblico di alcuni paesi, specialmente l’Italia. Si trova tra Scilla e Cariddi: se insiste con le operazioni di reinvestimento nei titoli in scadenza, per impedire l’aumento degli spread e dei rendimenti dei titoli più rischiosi, deve mantenere bassi i tassi d’interesse, così mandando ai mercati segnali sbagliati riguardo alla determinazione nel combattere l’inflazione. Se invece alza decisamente i tassi, rischia di scatenare una crisi del debito simile a quella del 2011-2, anzi, molto peggiore. Ebbene nel bimestre agosto-settembre la BCE, non solo ha alzato i tassi, ma ha anche smesso di sostenere i titoli dei paesi periferici. E c’è stato un aumento generalizzato dei rendimenti. Quello dei Bund tedeschi a 10 anni è passato da 0,71% (2 agosto) a 2,19% (7 Ottobre). Quello dei BTP a 10 anni è passato da 3,03% (2 agosto) a 4,69% (7 ottobre).

Una conseguenza della crescita del differenziale dei tassi Fed-BCE è stata che l’euro si è svalutato rispetto al dollaro, passando dal cambio di 1,17 dollari per 1 euro (20 settembre 2021), a quello di 0,97 (7 ottobre 2022) – una svalutazione del 20%. E la tendenza è al ribasso. Ma c’è un’altra causa, anche più importante di quella monetaria, dietro la tendenza alla svalutazione dell’euro. In futuro i paesi europei dovranno importare dagli Stati Uniti maggiori quantità di gas, petrolio, beni agricoli e risorse minerarie, che tra l’altro costeranno di più di quelli russi, e non parliamo delle importazioni di armi. Quindi la bilancia commerciale USA-EU peggiorerà per l’Europa, cosicché la svalutazione dell’euro assumerà le caratteristiche di una tendenza di lungo periodo (Hudson, 2022).

Siccome le materie prime e l’energia non russe sono in gran parte pagate in dollari, accadrà che la Germaneu continuerà a importare inflazione. A questo punto si tratta di vedere chi sarà più bravo a mettere in ginocchio i sindacati in modo da frenare la crescita dei salari monetari. Il più bravo vincerà la guerra dell’inflazione. Credo che i più bravi siamo noi europei, con la nostra lunga esperienza nell’uso disciplinare delle politiche restrittive. Da più parti già si sentono urla di battaglia per un ritorno all’austerità, a partire da quelle di Scholz. Una giustificazione è che, se la sostenibilità del debito non può essere assicurata dalla BCE, allora diventa necessario assicurarla con politiche fiscali “oculate”. Il fatto è che per colpire i salari le politiche fiscali sono anche più efficaci di quelle monetarie.

C’è da temere un effetto “apprendista stregone”. L’entrata dell’economia reale in recessione, con i tassi d’interesse che continuano a crescere, fa aumentare il disavanzo pubblico: sale la spesa per il servizio del debito e scendono le entrate fiscali. L’inflazione potrebbe mantenere alto il tasso di crescita del Pil nominale (quello che conta nel calcolo del rapporto debito/Pil), e quindi questo rapporto potrebbe non aumentare per un po’ di tempo. Ma non appena l’inflazione comincerà a ridursi apprezzabilmente si scateneranno le aspettative di una crescita del rapporto debito/Pil. Debito alto e crescente in un’economia in recessione vuol dire alta probabilità di default. È facile immaginare l’inferno che si scatenerebbe in un paese con un debito pubblico al 151%. Considerando che siamo in buona compagnia (Grecia 193%, Portogallo 127%, Francia 113%, Spagna 118%) ci si può aspettare che dall’Italia e dal Sud Europa parta una crisi devastante per tutta la Germaneu. Insomma dalla crisi ucraina, non solo l’economia Russa, anche quella europea potrebbe uscire malconcia.

Tuttavia l’effetto geopolitico più importante della guerra è un altro: è il troncamento del legame privilegiato che si stava consolidando tra Germaneu e Russia. Scholz, Draghi e tutti gli altri servi europei degli Stati Uniti hanno ormai identificato Putin come il nemico pubblico numero 1. Fino a ieri gli stringevano la mano, ora hanno scoperto che è un tiranno. Gli fanno le sanzioni e rompono accordi commerciali già firmati. Mandano soldi e armi a Zelensky e minacciano l’invio di forze speciali in Ucraina. Da parte sua la volpe siberiana brandisce l’arma nucleare mentre si annette il 15% del territorio ucraino, forte di un plebiscito farsesco condotto col metodo della raccolta porta a porta.

Nel 2021 era stata completata la costruzione del North Stream 2, che corre parallelo al North Stream 1 e ne doveva raddoppiare la portata. Gazprom ha la maggioranza delle azioni della società che lo gestisce, ma varie compagnie europee detengono pacchetti rilevanti. Era stato fortemente voluto dalla Germania e fortemente osteggiato dagli USA. Ebbene, una volta completatane la costruzione è stato bloccato dalla decisione del governo tedesco di non concedere le certificazioni e le autorizzazioni finali. Ma questa avrebbe potuto essere una politica temporanea, modificabile nel prossimo futuro. Così, per consolidarla, sia il North Stream 1 sia il 2 sono stati sabotati, in modo che siano inutilizzabili per molti anni a venire. Nessuno può dire con certezza chi è il sabotatore, ma si sa che la CIA aveva preavvertito il governo tedesco di questa possibilità. D’altronde in una intervista del 7 febbraio 2022 Biden aveva dichiarato che “se i russi invadono, cioè se i carri armati e le truppe russe attraversano nuovamente il confine ucraino, non ci sarà più neppure un Nord Stream 2, lo azzereremo”. E a una giornalista che sollevava dubbi rispose: “Te lo prometto: saremo in grado di farlo”. Basta non essere un giornalista Rai-Mediaset per capire che “questi attentati sono destinati a impedire l’apertura di una trattativa con la Russia” (Ferrero, 2022). E se non mi credete, guardatevi questo video su Contro.tv (2022): https://youtu.be/En7NzinMc60

Per di più, la nuova via della seta, la BRI (Belt and Road Initiative), potrebbe diventare un vicolo cieco. Quest’iniziativa cinese era particolarmente importante per tutta l’Eurasia, specialmente per l’Italia, la Russia e la Germania, visto che la rotta marittima avrebbe dovuto terminare a Genova e Trieste per poi proseguire via terra fino alla Germania, mentre il percorso continentale avrebbe dovuto passare attraverso il Kazakhstan e la Russia per giungere in Germania. Gli Stati Uniti l’avevano fortemente contrastata e avevano provato a lanciare un’alternativa atlantica, la B3W (Build Back Better World) con cui intendevano sottrarre all’influenza cinese molti paesi in via di sviluppo. Comunque non avevano avuto successo nel tentativo di fermare la BRI… fino allo scoppio della guerra. Ora è proprio la Germania ad avversarla, sia per punire la Cina, che è il più importante alleato della Russia, sia per colpire proprio la Russia.

Fatto sta che oggi il principale beneficiario del conflitto ucraino sono gli Stati Uniti, mentre il principale perdente è la EU (Scassellati, 2022a, 5). Si sta realizzando il progetto americano di una “nuova guerra fredda”, cioè di una ridefinizione e riproposizione dei rapporti geopolitici su cui si fondava l’egemonia USA nell’era della vecchia guerra fredda: la delimitazione di un impero del male comprendente Russia e Cina e la riduzione della Germaneu ad appendice atlantica degli USA. Così, nell’interesse dell’umanità e a difesa dei “nostri valori”, la NATO (2022, 5) potrà impegnarsi a contrastare “la partnership strategica tra la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa e i loro sempre più forti tentativi di minare l’ordine internazionale basato su regole”.

 

La piccola Eurasia, la grande Eurasia o il secolo cinese?

“Eurasia” è un concetto geopolitico sviluppato soprattutto dal pensiero di destra. In Russia, dove ha una lunga storia, è stato recentemente riproposto dal filosofo tradizionalista Aleksandr Gelevich Dugin in funzione anti-moderna, anti-europea e anti-occidentale. Denota un’area geografica che abbraccia la Russia con il suo tradizionale impero asiatico, un territorio che va da Minsk a Vladivostok. Potremmo definirla “piccola Eurasia” per distinguerla dalla “grande Eurasia”. Questa definisce un territorio che comprende Europa e impero russo e che si estende da Lisbona a Vladivostok. È stata vagheggiata, tra gli altri, da Charles De Gaulle e dal nazista belga Jean Thiriart, in funzione anti-americana.

A più riprese Putin ha parlato di Eurasia, sebbene in modo ambiguo. Da una parte ha fatto riferimento alla tradizionale identità eurasiatica della Russia, e nel 2014 ha dato vita a un’EAEU (Unione Economica Euro-Asiatica, oggi composta da Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan e Kirgyzstan) con cui tentava di allargare i confini dell’influenza russa a quelli dell’ex-URSS. Dall’altra, quando ancora s’illudeva, non ha mancato di evocare una grande Eurasia “da Lisbona a Vladivostok” come base per una più forte cooperazione economica con l’Europa (Horváth, Boros e Puhl, 2021, 35-6). L’EU l’aveva incoraggiato nel 2018 con il varo di una strategia mirante a Connecting Europe and Asia, con la quale intendeva migliorare la connettività Euro-Asiatica nei trasporti, nel commercio dell’energia, nelle reti digitali, nello scambio di risorse umane e nella definizione di regole e standard.

La piccola e la grande Eurasia sono idee che condividono l’ostilità verso gli USA e la NATO. Si differenziano in una cosa: la piccola è ostile anche all’Europa. Ed è su questa diversità che si sta giocando il conflitto in Ucraina. Non sembri paradossale, ma è un fatto che allo stato attuale delle cose Biden e Putin convergono nel tentativo di schiacciamento della Russia nella piccola Eurasia e di inasprimento dei contrasti tra Russia e Germaneu – Biden programmaticamente, Putin forse un po’ meno. E non si può dar torto a Lucio Caracciolo quando osserva che “Putin fa il gioco di Biden”.

Il nuovo ordine mondiale prefigurato dall’amministrazione americana prevede una struttura geopolitica mondiale in due blocchi, in uno dei quali sarebbero confinati la piccola Eurasia di Putin e la grande Cina di Xi Jinping. Al vertice della struttura ci starebbero gli Stati Uniti. E già si comincia a parlare di un nuovo accordo di Bretton Woods. Questo, nei disegni della ministra del Tesoro americana Yellen (2022), sarebbe un calco del vecchio, salvo un aumento delle dotazioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale e la creazione di una nuova organizzazione del commercio capace di sanzionare i paesi emergenti che praticano dumping sociale e fiscale ma non i paesi dominanti che praticano il dumping tecnologico con la difesa dei diritti di proprietà intellettuale. Nessun cenno a un’eventuale eliminazione del diritto di veto USA sul Fondo Monetario e la Banca Mondiale, tantomeno alla possibilità di emettere una moneta internazionale che non sia il dollaro.

La EU ha reagito con entusiasmo alla chiamata alle armi di Biden e con fermezza al rigurgito anti-europeo di Putin. Non solo ha deciso le sanzioni alla Russia e la vendita di armi all’Ucraina, ma si è anche rifiutata di riconoscere l’EAEU come partner negoziale, così come ha rigettato la richiesta russa di essere consultata nelle iniziative volte a integrare nell’EU i paesi ex-sovietici.

La guerra d’Ucraina è uno dei casi in cui l’autonomia del politico genera dinamiche geostrategiche che contrastano con gli interessi economici del grande capitale. Infatti è interesse delle imprese multinazionali abbattere tutte le frontiere e tutti gli ostacoli al libero movimento del capitale, del lavoro e delle merci, in modo da favorire quel processo concorrenziale al ribasso che porta al livellamento dei salari e dei costi su scala mondiale. Le politiche governative che piacciono all’imperialismo globale delle multinazionali sono quelle di dumping sociale, fiscale e ambientale (Screpanti, 2014). Una volta stabilito un sistema ordinato di pagamenti internazionali, al capitale cosmopolita non gliene frega molto di quale sia l’impero egemone.

Nel caso specifico che ho affrontato qui, mi sembra che il grande capitale multinazionale, non solo europeo, ma anche cinese, russo e americano, abbia interesse a evitare i conflitti che generano sanzioni economiche e riducono gli scambi internazionali. In special modo quello europeo ha interesse a tenere aperto il commercio EU-Russia-Cina così da poter importare dall’Asia energia e materie prime a basso costo ed esportarvi merci e capitali.

È evidente che la guerra d’Ucraina va contro gli interessi delle grandi multinazionali. Dal punto di vista dell’accumulazione del capitale è un fallimento della politica. Questo fallimento si consoliderebbe se, alla lunga, l’esito della guerra fosse il confinamento di Cina e Russia in un una riserva indiana chiusa agli scambi con l’occidente. Ci potrebbe essere un esito diverso? Sì, anzi, ce ne potrebbero essere almeno altri due.

Uno scenario possibile è quello in cui il disegno della piccola Eurasia sfugge di mano alla NATO e degenera in un blocco asiatico che non si lascerebbe confinare nella riserva indiana. Sembra che la Cina si stia già muovendo in questa direzione con la mobilitazione di un gruppo di paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) allargato ad altre nazioni come Iran, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, Indonesia, Argentina. Se riesce a formare una stabile alleanza economica e politica anti-americana, con tutti gli investimenti che ha già fatto e quelli che intende fare nei paesi in via di sviluppo la Cina potrebbe finalmente realizzare la previsione del secolo cinese – previsione che John Hobson aveva fatto all’inizio del ’900. Assumerebbe egemonia su tutta l’Asia, l’Africa e buona parte dell’America Latina. A quel punto sarebbe il blocco atlantico a ritrovarsi confinato in una riserva indiana. Un eventuale nuovo accordo di Bretton Woods sotto leadership cinese sarebbe molto diverso da quello concepito da Janet Yellen. Il dollaro e l’euro regredirebbero alla posizione di valute di riserva secondarie, quali sono la Sterlina e lo Yen oggi, e la nuova moneta internazionale verrebbe emessa da un Fondo Monetario Internazionale profondamente riformato, come secondo una proposta che i cinesi avevano avanzato già all’indomani della crisi 2007-9. Intanto nella XIV conferenza dei BRICS (23 giungo 2022) è stata avanzata la proposta di cominciare a muoversi in quella direzione, cioè di creare una moneta di riserva internazionale del tipo gold exchange standard basata su un pacchetto di valute dei paesi BRICS.

Un altro scenario possibile, che potrebbe essere ancora migliore dal punto di vista degli interessi del grande capitale, è quello che si darebbe se la spinta economica prevalesse sulla spinta politica. E la spinta economica del secolo ventunesimo è quella che porta alla formazione della “grande Eurasia”. Si affermerebbe se l’Ucraina e la Russia entrassero nell’EU. Potrebbe accadere dopo la fine della guerra, o potrebbe essere un modo per por fine a una guerra che altrimenti sarebbe senza fine.  Certo è uno scenario che oggi come oggi sembra piuttosto improbabile. Ma l’idea non è così grama se l’hanno vagheggiata, non solo De Gaulle e Chirac, ma anche Gorbaciov e il giovane Putin (De Ponte, 2022), e perfino Mitterand. Nel 1989 quest’ultimo aveva rilanciato l’idea gaullista proponendo di dar vita a una Confederazione Europea che si sarebbe potuta allargare alla Russia. E non ci si deve sorprendere se, a quanto pare, questa è la direttrice diplomatica in cui oggi si sta muovendo Macron con la proposta di una Comunità Politica Europea (Vecchio, 2022; Amato, 2022).

Se si affermasse il progetto di grande Eurasia la crisi sistemica di questo secolo terminerebbe con una sconfitta dell’impero americano e l’emergere di un nuovo egemone, un impero di più di 700 milioni di abitanti, la maggior estensione territoriale del mondo, il più grosso apparato industriale e le più spaventose forze armate della storia. Un tale impero già oggi sarebbe capace di assolvere bene, e meglio degli Stati Uniti, almeno tre delle funzioni di governance globale: motore dell’accumulazione, sceriffo globale e avanguardia scientifico-culturale. Per riuscire ad assolvere bene anche la quarta, quella di banchiere globale, bisognerebbe che l’EU attuasse una riforma che la portasse a istituire un grosso bilancio federale e a emettere una massiccia quantità di eurobond (condizione per soddisfare un’estesa domanda mondiale di euro come strumento di riserva). Il sistema imperiale globale riacquisterebbe una struttura ordinata unipolare. La grande Eurasia non avrebbe interesse a isolare la Cina, e anzi ne favorirebbe lo sviluppo, visto che costituisce il più grosso mercato di sbocco per le sue merci e i suoi capitali. Non confinata nella riserva indiana, la Cina potrebbe sfruttare la nuova via della seta per integrarsi commercialmente con la grande Eurasia; la globalizzazione subirebbe una forte accelerata e così il commercio mondiale. Il capitale multinazionale potrebbe tornare a impazzare senza freni. Gli USA, che riscoprirebbero la vocazione isolazionista, sarebbero ridotti a potenza regionale in America.

Richiamo l’attenzione sulle parole che ho sottolineato: migliore dal punto di vista degli interessi del grande capitale. Non credo che lo sarebbe dal punto di vista della democrazia, visto che l’impero eurasiatico combinerebbe la tecnocrazia eurista con il dispotismo orientale.

di Ernesto Screpanti

 

Riferimenti

 

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