di Franco Ferrari – La Svizzera non è un Paese dove abitualmente le elezioni regalano forti emozioni o sconvolgenti cambiamenti di equilibri. Il sistema politico è stato costruito in modo da essere fondamentalmente consociativo e orientato al compromesso e alla mediazione. Due sono gli strumenti principali che sono serviti a raggiungere questo obbiettivo che, nel tempo, ha consentito il mantenimento dell’egemonia dei partiti che si dichiarano apertamente “borghesi”: l’azione di contrappeso del Consiglio degli Stati (camera alta) nei confronti del Consiglio nazionale (camera bassa) e la presenza di un esecutivo (Consiglio federale) dalla composizione numerica predeterminata di 7 membri e la sua elezione da parte delle due camere riunite.
Il Consiglio nazionale di 200 membri viene eletto sulla base di circoscrizioni corrispondenti ai cantoni, che dispongono di un numero di deputati proporzionale alla loro popolazione e con una ripartizione tra essi che viene aggiornata in relazione ai mutamenti demografici. Quest’anno, ad esempio, Ginevra e Vaud potevano disporre di un seggio in più. I singoli cantoni utilizzano poi al loro interno sistemi proporzionali che vengono resi più complessi da forme di apparentamento e sub-apparentamento tra liste e di panachage, ovvero la possibilità per gli elettori di dare la preferenza a candidati presentati in liste diverse da quella a cui hanno dato il voto. Il numero basso di parlamentari attribuito alla grande maggioranza dei cantoni fa sì che in genere occorrano percentuali piuttosto consistenti per conquistare un deputato, anche in assenza di soglie di sbarramento.
Il Consiglio degli Stati, corrispondente ad un Senato, vede invece un numero fisso di 2 seggi per Cantone e di un seggio per i cosiddetti semi-cantoni. Per l’elezione viene normalmente utilizzato un sistema maggioritario a due turni. Risultano così sovrarappresentati i piccoli cantoni della Svizzera interna, tradizionalmente molto conservatori e tradizionalisti. Inoltre il maggioritario ha sempre favorito, in questa camera, la prevalenza dei partiti moderati e conservatori come i liberal-radicali e i democristiani.
Infine il Consiglio Federale, che rappresenta il Governo della Confederazione, è eletto da decenni secondo la cosiddetta “formula magica”, ovvero l’attribuzione di 2 seggi ciascuno ai tre partiti maggiori e 1 seggio al quarto partito. Per molto tempo vi sono stati due ministri liberal-radicali, che è il partito fondamentale dell’establishment economico-finanzario, due socialisti, due democristiani, che hanno una base prevalentemente cattolica e sono il più moderato e centrista dei partiti borghesi. Il settimo seggio era attribuito al partito agrario. Quest’ultimo si è poi convertito, come Partito popolare o Unione di Centro (spesso i nomi cambiano da cantone a cantone), in partito di destra radicale populista, xenofoba e eurofoba. L’elemento fondamentale che discende da questo meccanismo è l’inesistenza di una dialettica governo/opposizione, dato che, di fatto, il governo coinvolge partiti che normalmente raccolgono il 75-80% dei voti.
Le ultime tornate elettorali, prima dell’attuale, erano state caratterizzate dall’ascesa proprio dell’Unione di Centro che si è trasformata da quarto a primo partito sfiorando, nel 2015, il 30% dei voti. Grazie a questa crescita ha potuto conquistare un secondo seggio nel Consiglio Federale a discapito dei democristiani, sbilanciando ancora più a destra una formula che aveva già una forte impronta conservatrice.
Balzo dei Verdi, la destra “dura” arretra
È all’interno di questo quadro politico-istituzionale che è possibile apprezzare meglio l’esito delle elezioni del 20 ottobre scorso. Sui media svizzeri, ripresi dalla stampa internazionale, si sono sprecate le metafore: scossone, terremoto, onda o addirittura tsunami. Tutte per evidenziare una crescita dei Verdi, che era già prevista, ma che è andata oltre le aspettative, avviando qualche possibile effetto di riassestamento in un sistema pensato, se non per l’immobilità, quantomeno per attutire il più possibile qualsiasi aspirazione di cambiamento che venga dal basso.
Il primo dato numerico e politico che va rilevato è la perdita della maggioranza assoluta nel Consiglio nazionale dei partiti collocati alla destra del sistema: liberal-radicali e xenofobi (UDC). I primi hanno perso 4 seggi e i secondi ben 12, con un calo in termini percentuali per questi ultimi del 3,84%, che li assesta al 25,59%, ai quali va aggiunta la perdita di 4 seggi da parte del Partito Borghese Democratico, costola dell’UDC. Insieme questi tre partiti hanno ora 85 seggi. Resta da valutare il peso che alla fine avranno nel Consiglio degli Stati (Senato), quando si saranno svolti i numerosi ballottaggi che ne completeranno la composizione.
La sconfitta della destra, soprattutto quella xenofoba, completata dalla perdita di un seggio su due della Lega Ticinese e dell’unico seggio del Movimento Cittadini Ginevrini, entrambi ostili ai lavoratori transfrontalieri, è dovuta al minor peso che ha avuto in queste elezioni il tema degli immigrati. L’UDC ha per anni giocato la carta della paura della perdita di identità della Svizzera a causa dell’arrivo di persone da varie parti del mondo, in particolare di religione musulmana. Dimenticando per altro che la Confederazione è sempre stata terra di immigrati (tanti dall’Italia, dalla Spagna e dal Portogallo) e che questa è stata una delle ragioni sulla quale si è fondata la sua ricchezza.
I movimenti femminista e ambientalista hanno cambiato l’agenda politica
È chiaramente cambiata l’agenda politica sulla base della quale gli elettori sono stati chiamati ad esprimersi e sono emersi con forza due temi che hanno messo la destra all’angolo: i pericoli derivanti dal mutamento climatico e la sussistenza di discriminazioni nei confronti delle donne. Va sottolineato che non si è trattato semplicemente di un mutamento di orientamento elettorale, ma dell’influenza sul voto dell’emergere di due movimenti sociali significativi.
Il 14 giugno 2019 si è tenuto in Svizzera il secondo sciopero generale delle donne/femminista, con la partecipazione di almeno 500.000 persone. Il primo si era svolto nel 1991. Le tematiche che lo hanno caratterizzato hanno avuto un profilo decisamente radicale e la doppia denominazione (delle donne/femminista) nasceva da una duplice preoccupazione. La prima quella di aprire il più possibile l’adesione anche al di là della stretta identificazione con il movimento femminista, la seconda di tenere conto di alcune critiche che provengono dall’interno stesso del movimento, sul pericolo di un assorbimento delle sue istanze dentro politiche socio-economiche di taglio liberista.
La seconda mobilitazione ha seguito l’emergere di “Fridays for future” e ha portato ad un’imponente manifestazione di 100.000 persone nella capitale, Berna. Anche in questo caso con un taglio avanzato e combattivo che ha preso di mira una maggioranza parlamentare di destra che ha ostinatamente bocciato anche le più blande norme ambientaliste.
I Verdi, divisi in due partiti, uno collocato a sinistra e l’altro a destra dello schieramento politico e che tali si riconoscono senza complessi “post-ideologici”, hanno quindi beneficiato dell’onda dei due movimenti. I Verdi di sinistra sono arrivati al 13,24% con un incremento del 6,18% che ha portato a 17 seggi in più. Anche se questo aumento è andato in parte a discapito dei socialisti che hanno lasciato sul terreno 4 seggi (ma sono rimasti il secondo partito), ha comunque spostato a sinistra l’assetto complessivo del Consiglio nazionale. I Verdi liberali, che si propongono di salvare capre e cavoli mantenendo una politica economica in favore dell’impresa e della finanza (quest’ultima la vera “vacca sacra” della Svizzera, assai più delle placide mucche da pascolo che ne abitano le valli), hanno ottenuto il 7,80%, con un incremento del 3,17% pari a 9 seggi in più.
Ora il tema che agita il sistema politico svizzero è se i Verdi (di sinistra) potranno entrare nel Consiglio Federale, ovvero l’esecutivo. Applicando letteralmente la “formula magica”, che per altro è una regola di fatto e non un principio istituzionale, dovrebbero conquistare un ministro al posto dei democristiani. Ma non è affatto scontato. I socialisti sarebbero favorevoli, ma la destra ha cominciato a sollevare ostacoli, sostenendo che per poter entrare nell’esecutivo occorre dimostrare di aver stabilizzato nel tempo il proprio consenso elettorale ed aver dato prova di essere adatti a praticare il compromesso e la mediazione. Un’ipotesi che circola è la possibilità che i Liberal-radicali cedano un posto ai democristiani, consentendo comunque l’ingresso di un esponente dei Verdi. Ma questo porterebbe la destra “dura” ad avere 3 posti su 7 e quindi a rischiare di finire in minoranza, dato che i democristiani hanno posizioni più progressiste su alcuni temi, compresi quelli ambientali.
La delusione della sinistra radicale che si consolida ma elegge solo due deputati
Nel bilancio del voto un accenno meritano altri due elementi: il risultato complessivo della sinistra radicale e le particolarità del voto in Ticino, l’unico cantone di lingua italiana.
La sinistra radicale è piuttosto frammentata. La forza che ha tradizionalmente occupato quest’area è il Partito Svizzero del Lavoro, sorto durante la seconda guerra mondiale, dopo che il Partito Comunista Svizzero venne messo fuori legge. Il suo maggiore radicamento si è sempre collocato nei Cantoni della Romandia, dove si parla francese, in particolare Ginevra, Neuchatel, Vaud. In alcuni di questi cantoni, per ragioni storiche, utilizza il nome di Partito Operaio e Popolare (da cui il soprannome di popistes). Il PST-POP disponeva di un eletto nel cantone di Neuchatel, Denis de la Reussille, che aveva aderito al gruppo dei Verdi, non potendo costituire un gruppo proprio. Nonostante l’avanzata degli ecologisti, il PST-POP ha confermato il suo parlamentare con un incremento di quasi 2 punti percentuali a Neuchatel, collocandosi attorno al 14%. La speranza per i comunisti era di conquistare altri due seggi a Ginevra e nel Vaud, per questo hanno deciso di presentare proprie liste anche se apparentate con altre forze di sinistra. I risultati sono stati nel complesso piuttosto deludenti. Solo nel Vaud hanno superato il 2%.
La sinistra radicale ha però potuto eleggere un secondo deputato nel cantone di Ginevra, dove era sta esclusa ormai da parecchie legislature, superando il 7% dei voti. In questo caso l’eletto (anzi l’eletta, Jocelyne Haller) è andata a “Ensemble a Gauche” una coalizione animata principalmente da “solidaritéS”, una forza politica presente soprattutto a Ginevra e in alcuni altri cantoni di lingua francese, sorta nel 1992 dalla confluenza di gruppi di origine trotskista e maoista e di dissidenti socialisti e comunisti. A differenza del PST-POP ha una maggiore interazione con militanti derivanti dai movimenti femminista e ambientalista.
In alcuni cantoni della Svizzera tedesca erano presenti liste della Alternative Linke, che avevano in qualche caso ottenuto risultati brillanti nelle elezioni locali. Questi successi non si sono ripetuti nelle elezioni politiche, presumibilmente per la forte concorrenza del partito ecologista, che presenta un profilo sociologico molto simile. Nel complesso le liste della sinistra radicale in tutta la Svizzera hanno ottenuto l’1,3%, non molto di più del 2015. Dato che va valutato considerando che si presentano in meno di metà dei cantoni.
In Ticino l’onda diventa rosso-verde
Caso a parte è il Canton Ticino, che ha registrato un netto successo della lista che, a differenza degli altri cantoni, ha unito Verdi e Sinistra Alternativa. Non solo i partecipanti ma anche la stampa locale hanno parlato apertamente di successo rosso-verde. L’alleanza tra ecologisti e sinistra radicale ha ottenuto il 13,9% e mandato a Berna la giovane ambientalista Greta Gysin. Ecologista quest’ultima che si è caratterizzata con una campagna elettorale nella quale sono stati sottolineati con forza anche i temi sociali (salario, diritti del lavoro, welfare) affermando, meritoriamente, che la “tutela ambientale è anche una questione di giustizia sociale”.
La lista è stata formata dai Verdi, dal Forum Alternativo e dal Partito Comunista. Il Forum Alternativo è stato fondato da Franco Cavalli assieme ad altri fuoriusciti dal Partito Socialista, sindacalisti, rappresentanti del mondo associativo, avendo come ispirazione i nuovi partiti della sinistra radicale in Europa, da Syriza a Podemos a France Insoumise. Cavalli proviene dall’esperienza del Partito Socialista Autonomo, che negli anni ’60 e ’70 aveva rappresentato una sorta di versione ticinese dello PSIUP italiano. Per buona parte dello scrutinio era testa a testa con la giovane Gysin che alla fine ha prevalso con circa 19.000 preferenze contro 16.000. Il Partito Comunista, guidato da Massimliano Ay, ha candidato due sue giovani militanti all’interno della lista. Il PC è sorto da una divisione della vecchia sezione locale del Partito Svizzero del Lavoro, di cui aveva assunto la maggioranza decidendo poi di cambiarne il nome. Se da un lato rivendica una maggiore ortodossia, sul piano ideologico, rispetto al partito da cui si è separato, dall’altro si è dimostrato molto più pragmatico e per nulla settario nelle scelte elettorali.
La componente minoritaria della vecchia sezione ticinese del Partito Svizzero del Lavoro, nella quale figurava un leader storico del partito come Norberto Crivelli, ha deciso di dar vita al Partito Operaio e Popolare, affiliato al PSL-POP. Seguendo una linea che il partito si è dato anche in altri cantoni ha presentato una propria lista, seppur apparentata a quella unitaria. Il risultato non è stato all’altezza delle aspettative, dato che si è arenato sullo 0,8%, anche se con un piccolo incremento rispetto a quattro anni fa. In ogni caso la sinistra alternativa esce indubbiamente rafforzata perché. come scritto con legittimo entusiasmo, sul sito web del Forum Alternativo, in Ticino “fischia il vento della primavera rosso-verde”.