articoli

Storia del complottismo (seconda parte)

di Franco
Ferrari

Abbiamo visto nella prima parte come si siano formati, in reazione alla Rivoluzione francese, dei modelli di spiegazione che attribuivano quell’evento ad una organizzazione segreta (gli Illuminati), la quale operava attraverso il controllo di varie strutture note (la massoneria, le organizzazioni rivoluzionarie, il comunismo, ecc.) con l’obbiettivo di controllare i destini del mondo. Quella organizzazione – secondo i teorici complottisti – si poneva in contrasto con i poteri istituzionali tradizionali (“il trono e l’altare”) mettendo in discussione anche tutte le strutture sociali che avevano formato parte essenziale del processo di civilizzazione (la famiglia, le nazioni, la proprietà privata).

Questo modello esplicativo degli eventi si è innestato, tra la fine dell’’800 e l’inizio del ‘900 sulle concezioni delle correnti antisemite o giudeofobe. L’antisemitismo, ovvero un insieme di pregiudizi che si rivolgono contro gli ebrei, ha una lunga storia che non è qui la sede per riprendere. Si può solo segnalare che esso ha avuto nel tempo motivazioni diverse, di tipo religioso (con il concorso spesso della Chiesa cattolica, della Riforma protestante e dell’Ortodossia orientale) o di tipo sociale (con origine nel conflitto di interessi tra settori di popolazione per ragioni economiche) che nell’800 almeno ha coinvolto anche settori e correnti del movimento operaio e della sinistra.

Con la fine dell’800, l’antisemitismo diventa un importante strumento di mobilitazione politica, soprattutto da parte di correnti reazionarie e di destra. All’interno di questa visione, che si alimenta di un nazionalismo di tipo etnico e di una argomentazione di carattere razziale, gli ebrei vengono additati non solo come corpo estraneo, ma anche come nemico.

In relazione allo sviluppo dell’antisemitismo politico (che in generale tende ad essere escluso dalle correnti del movimento operaio sulla base di una visione classista del conflitto sociale) acquisisce forza il mito del complotto ebraico mondiale. Nella costruzione di questo mito svolge un ruolo rilevante un testo, assolutamente falso, che ha grande diffusione dopo la rivoluzione bolscevica, come vedremo ripercorrendone, a grandi tratti, una storia che, nella sua fase iniziale, resta ancora in parte sconosciuta.

I Protocolli dei Savi Anziani di Sion

Nei primi testi che elaboravano la tesi di un ruolo primario degli Illuminati di Baviera nella Rivoluzione francese non c’era nessun riferimento agli ebrei. Non è così invece per successivi scrittori cospirazionisti che hanno cercato di collocare gli stessi Illuminati all’interno di una più ampia cospirazione “giudaico-massonica”, come abbiamo visto nel caso di Nesta Webster.

Lo stesso abate gesuita Augustine Barruel, che nella sua opera aveva collocato gli Illuminati, unitamente ai filosofi illuministi francesi e alla massoneria, controllata dai primi, all’origine del movimento giacobino e alla guida della cospirazione, sembra aver in parte cambiato opinione negli ultimi anni della sua vita. Nel 1806 ricevette una lettera scritta da un ufficiale dell’esercito che si trovava in quel momento a Firenze e che si firmava “J. B. Simonini”. Di questo ufficiale non si conosce nient’altro e questo fatto ha portato al sorgere di varie supposizioni sulla sua effettiva esistenza. Sono state avanzate pertanto varie ipotesi sul reale autore di questa missiva, dalla manipolazione della polizia politica, ad un schermo fittizio adottato dallo stesso Barruel, per attribuire ad altri le sue stesse, nuove, convinzioni.

Il presunto Simonini si congratulava con Barruel per avere smascherato le sétte diaboliche che stavano preparando la strada all’Anticristo ma contemporaneamente voleva attirare l’attenzione su quella che riteneva essere la più potente, la “sétta giudaica” che godeva, secondo l’autore della missiva, di grandi ricchezze e di forti protezioni in quasi tutti gli Stati europei. Nella lettera il misterioso ufficiale raccontava che una volta aveva finto di essere stato allontanato da piccolo dalla comunità ebraica alla quale apparteneva. Con questo inganno si era avvicinato agli ebrei torinesi i quali gli mostrarono di possedere grandi somme d’oro e d’argento che destinavano a coloro che si convertivano alla loro causa.

Il Simonini spiegava poi che anche la massoneria e gli Illuminati di Baviera erano stati fondati da ebrei, benché tutte le informazioni a noi note ci mostrino il contrario. Sosteneva inoltre che più di ottocento ecclesiastici appartenenti alla “sétta” si erano infiltrati nel clero cattolico, e tra questi vi erano anche vescovi e cardinali. In meno di un secolo gli ebrei si ripromettevano di diventare padroni del mondo, di abolire tutte le altre sétte, per far regnare solo la loro e di ridurre i cattolici in uno stato di vera e propria schiavitù.

Barruel diede a questo testo una diffusione limitata e, per quanto si possa considerare in una qualche misura un “incunabolo” del mito della forza e della volontà di potenza attribuita agli ebrei, non fu la lettera di Simonini a dare il via alla diffusione del mito. Nemmeno il cosiddetto “Discorso del Rabbino”, estrapolato da un romanzo di fantasia intitolato “Biarritz” scritto da un tedesco di nome Goedsche e poi diffuso in vari Paesi come se fosse il resoconto di un fatto reale, nel quale vengono già anticipate alcune delle fantasie relative al complotto mondiale ebraico, fu sufficiente a dare diffusione di massa alla mitologia della cospirazione ebraica.

Se diversi testi e pubblicazione ne predisposero il clima ideologico è fuor di dubbio che siano proprio i cosiddetti “Protocolli” a fornire un’elaborazione completa del mito. Essi vennero presentati come il rendiconto di conferenze tenute da un membro del governo segreto ebraico – gli Anziani di Sion – che esponeva i modi e le azioni attraverso i quali gli ebrei puntavano a conquistare il mondo. Nelle prime versioni pubblicate venivano coinvolti, come parte del complotto ma in funzioni subordinate, anche le organizzazioni massoniche.

Sulla storia di questi “Protocolli”, dove sono stati elaborati e chi li ha effettivamente redatti, esistono ricostruzioni diverse. Quella che ha avuto più ampia diffusione è contenuta nel libro dello storico americano Norman Cohn, “Licenza per un genocidio”, che risale al 1966. Umberto Eco ha affermato che, sui “Protocolli”, Cohn “dice cose definitive”, per questo seguiamo la sua ricostruzione prima di metterne in luce le revisioni critiche che risultano, a nostro parere, decisamente convincenti.

I “Protocolli” sono composti da ventiquattro conferenze o lezioni che si articolano attorno a tre temi principali: una critica delle idee liberali, un’analisi dei metodi attraverso i quali potrà essere conseguito il dominio mondiale degli ebrei ed una descrizione del futuro stato mondiale. Secondo i presunti “Anziani”, la libertà politica è solo un’idea che esercita attrazione tra le masse ma che non può essere tradotta in realtà perché porta al caos. Il popolo è incapace di governarsi da solo ed è facilmente ingannato dalle apparenze e non è in grado di scegliere razionalmente tra programmi contrastanti.

L’aristocrazia era in grado di scegliere per il bene generale, ma il suo ruolo è stato messo in discussione dal liberalismo e questo non potrà che portare al dispotismo. Siccome nel mondo sono più i cattivi che i buoni, l’unico mezzo per governare è la forza e nel mondo moderno la base della forza è il possesso e il controllo del capitale. Oggi è l’oro a governare il mondo.

Il complotto per mettere il potere nelle mani degli Anziani di Sion, e quindi degli ebrei, è in corso da secoli. Prima, perché ciò possa avvenire, gli Stati dei “gentili” (termine con il quale sono indicati in non ebrei) devono essere definitivamente aboliti. Per ottenere questo risultato verranno fomentati scontento e agitazioni. La confusione sarà favorita dalla moltiplicazione dei partiti politici che saranno tutti segretamente finanziati dagli Anziani, dal più radicale al più conservatore. Gli operai verranno mantenuti in continua agitazione. L’aristocrazia dovrà essere completamente eliminata con forti imposte fondiarie.

Gli Anziani porteranno alla guida degli Stati dei loro uomini di paglia, preferibilmente persone che abbiano qualche aspetto infamante nel loro passato e quindi possano essere facilmente ricattati. Verranno penetrate tutte le società segrete e la massoneria per trasformarle in strumenti della cospirazione. L’industria deve essere concentrata in giganteschi monopoli, perché la ricchezza, una volta concentrata, potrà finire nelle mani degli Anziani.

I rapporti degli Stati dovranno diventare sempre più conflittuali e verranno alimentate continue guerre, le quali però non dovranno portare al vantaggio di una parte sull’altra ma alla rovina reciproca. La morailità dei “gentili” dovrà essere indebolita e saranno incoraggiati l’ateismo, l’ubriachezza, la prostituzione ed ogni tipo di depravazione.

Le nuove ferrovie sotterranee (ovvero le metropolitane che iniziano a fare la comparsa a fine ‘800) sono state progettate con l’obbiettivo di garantire agli Anziani di poter far saltare in aria intere città qualora queste si oppongano ai loro progetti. Agli oppositori eventualmente sopravvissuti sarebbe inoculata una terribile malattia.

Obbiettivo degli Anziani è alimentare il disordine economico con continue crisi, manovre finanziarie, aumento del debito pubblico. Con questi mezzi sono già riusciti a porre le basi del loro dominio perché al posto dell’aristocrazia hanno eretto al potere la plutocrazia, ovvero il governo dell’oro e l’oro è nelle loro mani. Anche l’insegnamento è ormai saldamente sotto controllo. L’insegnamento attraverso mezzi visivi sarebbe particolarmente malefico perché trasformerebbe i “gentili” in “animali docili e irriflessivi”.

Agli Anziani manca forse solo un secolo per raggiungere il loro obbiettivo ultimo, ovvero imporre al mondo una sola religione, il giudaismo, e un solo sovrano appartenente alla casa di Davide. Questa età messianica è voluta da Dio che ha scelto gli ebrei per affidare loro il dominio del mondo. Sotto il loro potere tutti saranno controllati e spiati e verrà impedita ogni critica, ma verrà assicurato anche un funzionamento efficiente della società. Il risultato sarà un mondo senza violenze ed ingiustizie in cui tutti godranno di un vero benessere e questo permetterà al regno di Sion di durare in eterno.

I “Protocolli” vennero pubblicati per la prima volta in Russia nel 1903, in varie puntate, sul giornale di estrema destra “Znamja”, diretto dall’esponente antisemita P.A. Kruscevan, colpevole di aver fomentato il progrom di Chisinau (al tempo trascritta come Kishinev) in Bessarabia (attuale Moldavia). Kruscevan li presentò come una traduzione di un testo scritto in Francia e gli diede il titolo “Programma per la conquista del mondo da parte degli ebrei”. Altre edizioni, a volte leggermente variate, vennero pubblicate negli anni successivi anche con la collaborazione di G.V. Butmi, anch’egli antisemita e anch’egli proveniente dalla allora Bessarabia. Sia Butmi che Kruscevan parteciparono nell’ottobre del 1905 alla fondazione dell’Unione del Popolo Russo, un’organizzazione di estrema destra che apparteneva ad un più ampio movimento noto come i “Cento Neri”, che disponeva di squadre armate impegnate nella persecuzione di progressisti, liberali, militanti del movimento operaio ed ebrei.

I Protocolli furono ripresi dello scrittore ultra-ortodosso Sergej Nilus e inseriti come appendice del suo libro “Il grande nel piccolo. L’Anticristo considerato come possibilità politica imminente”. La rivelazione del complotto ebraico era visto come conferma di una visione apocalittica dei tempi in cui viveva il mistico russo. Nilus poteva contare sul favore della corte zarista e il metropolita di Mosca (che ancora non era la capitale russa) ordinò a tutte le Chiese della città di riprendere il contenuto dei Protocolli nei sermoni domenicali.

Come era arrivato questo testo nelle mani di Nilus? Nell’edizione del 1905 il mistico ortodosso spiegò che li aveva ricevuti da un suo corrispondente presso “gli Archivi segreti della Cancelleria centrale di Sion che si trova adesso in Francia”. Lo stesso Nilus fornì però varie e contrastanti spiegazioni del percorso effettuato dal testo. Scrisse anche che sarebbero stati rubati da una donna ad uno dei capi più influenti e degli iniziati più elevati in grado della massoneria, dopo una riunione segreta tenutasi in Francia. Nel 1917 lo stesso Nilus aggiungerà un’ennesima versione della storia, spiegando che si trattava di un piano elaborato dal popolo ebraico durante i molti secoli della dispersione e che era stato illustrato al Consiglio degli Anziani da Theodor Herzl, all’epoca del primo congresso sionista svoltosi a Basilea nell’agosto del 1897. Herzl era il fondatore del movimento, il cui obbiettivo era la costruzione di uno Stato ebraico.

Secondo la ricostruzione di Norman Cohn in “Licenza per un genocidio”, l’idea di costruire il falso testo da attribuire agli ebrei, sarebbe stata di Petr Ivanovic Rackovskij, capo dell’Ochrana all’estero, per molti anni attivo nella sede di Parigi dove manteneva una vasta ed efficacie rete di delatori e falsari. Su questa tesi convergono varie testimonianze, emerse già dai primi anni venti e poi confermate nel corso del processo che si tenne nel 1934 a Berna. Nella città svizzera, un’organizzazione ebraica aveva citato in giudizio un gruppo di filonazisti responsabili di avere pubblicato i Protocolli nel loro Paese, accusandoli, con uno stratagemma giuridico, di diffondere materiale “pornografico”. L’obbiettivo era quello di far pronunciare un tribunale sulla loro falsità.

Cohn presenta un profilo di Rackovskij che lo rende del tutto adatto al ruolo di ideatore di questo testo destinato ad un successo clamoroso quanto infausto. Il suo ufficio parigino dell’Ochrana era già ricorso alla preparazione di falsi destinati a mettere in cattiva luce l’opposizione zarista in esilio. Secondo lo storico americano si trattava di “un intrigante nato che si divertiva a fabbricare documenti falsi”.

Altri storici tirano in ballo Elie de Cyon, un fisiologo e celebre giornalista politico, noto in Russia come Il’ya Cion ed acerrimo nemico di Witte, il ministro delle finanze che perseguiva un progetto di modernizzazione capitalistica della Russia. Ma de Cyon, secondo Cohn, non era antisemita. Tentando di mettere a posto tutti i personaggi della storia, lo storico formula quella che ritiene essere l’ipotesi più probabile, che la satira di Joly contro Napoleone III (dalla quale sono letteralmente copiati numerosi brani dei Protocolli) sia stata trasformata da de Cyon in una satira contro Witte e poi nuovamente trasformata, sotto la guida di Rackovskij nei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”.

C’è un punto che Cohn non riesce a giustificare, se non attraverso una supposizione troppo arzigogolata, ed è la ragione per la quale il capo dell’ufficio estero dell’Ochrana, da tutti riconosciuto come uomo legato al ministro delle finanze russo Witte, abbia potuto far fabbricare un falso che prendeva di mira, oltre agli ebrei, anche il suo referente politico.

E’ possibile che Norman Cohn abbia voluto forzare la dimostrazione della responsabilità dell’Ochrana per poter dare fondamento certo al riconoscimento della natura di falso incontestabile da attribuire ai “Protocolli”. Lo storico americano, attraverso la moglie russa, era in contatto con Boris Nicolaevskj, uno storico menscevico in esilio (tra l’altro autore di una biografia di Marx pubblicata anche in italiano presso Einaudi) che aveva svolto il ruolo di consulente scientifico nel processo di Berna del 1934. Dalla corrispondenza emerge che lo stesso Nicolaevskj si era convinto che l’Ochrana non c’entrasse nulla con la produzione del falso, ma che aveva preferito non dichiararlo in quell’occasione per non favorire i gruppi neonazisti che ne sostenevano la veridicità.

I Protocolli parto del proto-fascismo russo

Nonostante questa contraddizione logica, resta largamente diffusa la convinzione che i “Protocolli” sarebbero un falso prodotto dall’Ochrana a Parigi in funzione antisemita e antiliberale. Tra coloro che hanno messo in dubbio in modo persuasivo questa versione vi è lo slavista italiano Cesare G. De Michelis. Nel suo libro, “Il Manoscritto inesistente”, ha svolto un’acutissima analisi del testo dei Protocolli e soprattutto delle diverse versioni circolate in Russia all’inizio del ‘900.

La conclusione della sua ricerca è che i “Protocolli” non sono stati tradotti dal francese ma scritti direttamente in russo. La data presunta della redazione dovrebbe essere tra il 1902-1903 ed avere avuto luogo negli ambienti della destra antisemita russa e non, come invece sostiene Cohn, alla fine dell’’800 a Parigi. Per De Michelis gli indizi sembrano puntare su personaggi come Butmi, uno dei primi curatori dei “Protocolli”. Attraverso un’analisi linguistica dei testi De Michelis individua diversi ucrainismi, cioè varianti del russo utilizzate in Ucraina, che sarebbero compatibili con una redazione del testo da parte di un gruppo di attivi pogromisti.

Butmi era legato a Kruscevan, il primo in assoluto a pubblicare i Protocolli, perché come abbiamo visto erano entrambi parte degli ambienti di estrema destra che incitavano e organizzavano pogrom anti-ebraici anche prima della costituzione dei cosiddetti “Cento Neri”. Cohn racconta come Kruscevan abbia consapevolmente incitato, diffondendo notizie false di assassini rituali da parte di ebrei, il pogrom della città di Chisinau.

Nel corso del processo per il pogrom, svoltosi poco dopo i fatti, un giornalista legato a Kruscevan avanza la tesi del complotto mondiale giudaico per giustificare la reazione della popolazione cristiana di fronte ad una (inesistente) aggressione avviata dagli ebrei che si sarebbero mossi sulla base delle indicazioni emerse da un congresso mondiale tenutosi in città, nei giorni precedenti la Pasqua del 1902. Naturalmente la giustificazione era del tutto fantasiosa, ma non sembra illogico trarre la conclusione che gli stessi ambienti abbiano deciso di produrre un testo che servisse a giustificare a posteriori quello ed altri pogrom. Cohn non effettua questo collegamento, ma l’ipotesi rende credibile quanto sostenuto da De Michelis.

Che cos’era e come operava l’Unione del Popolo Russo e più in generale il movimento dei “Cento Neri”? Cohn riporta una lunga citazione di Witte, che del movimento era un avversario politico, ma che ne dà una valutazione sostanzialmente corretta:

“Questo partito è patriottico nel profondo dell’animo…ma il suo patriottismo è primitivo, non è basato sulla ragione e la generosità, ma sulla passione. La maggior parte dei suoi capi sono nuovi arrivati politici, gente con bassi modi di pensare e di sentire; non hanno una sola idea politica attuabile e dedicano tutti i loro sforzi a scatenare i più bassi impulsi delle masse arretrate e rozze. Protetto dalle ali dell’aquila a due teste, questo partito può scatenare i pogrom e gli sconvolgimenti più spaventosi, ma è incapace di qualcosa di positivo. Incarna un patriottismo selvaggio e nichilista che prospera sulle menzogne, calunnie e raggiri: è il partito della disperazione selvaggia e vile, ma non ha posto per il pensiero coraggioso, lungimirante e creativo. Il grosso dei membri proviene da masse primitive e ignoranti, i suoi capi sono farabutti politici, ha simpatizzanti segreti nei circoli di corte e tra nobili con ogni tipo di titoli: gente che cerca la salvezza nell’illegalità ed ha come parola d’ordine: “non noi per il popolo, ma il popolo per il bene della nostra pancia”… E lo zar sogna di restituire la grandezza alla Russia con l’aiuto di questo partito. Povero zar..”

Lo stesso Cohn aggiunge di suo questo commento illuminante:

“Costoro furono in realtà veri precursori dei nazisti. Parole come “proto-fascisti” sono state usate così a sproposito che si esita a usarle; eppure non si può negare che i Cento Neri segnano un importante stadio nel passaggio dalla politica reazionaria quale era intesa nel XIX secolo al totalitarismo di destra dei nazisti …come reazionari romantici capaci di parlare anche il linguaggio della demagogia radicale, certamente preannunciavano Hitler e i suoi complici.”

In questi ambienti della destra radicale russa, i “Protocolli” erano stati accolti con grande favore. Nel 1934, in occasione del processo di Berna, un giornalista conservatore, I. Kolysko, conosciuto con lo pseudonimo di “Bayan”, confermava che a destra si “cominciò a credere incondizionatamente all’autenticità di questo documento. Poi, un po’ alla volta, gli sforzi della sinistra cominciarono a minare questa credenza, cominciammo ad avere qualche dubbio e la costruzione…cominciò a sgretolarsi sotto l’effetto corrosivo della critica (e dei fatti).”

Non si può escludere che l’elaborazione dei Protocolli sia anche una riscrittura e adattamento di testi precedenti (oltre al plagio del libro di Maurice Joly), ma resta il fatto incontestabile che la sua prima diffusione avvenne ad opera della destra russa, come strumento di lotta politica e all’interno di una ideologia ossessionata dall’antisemitismo.

I “Protocolli” passano di mano dai Bianchi antibolscevichi al nascente nazismo tedesco

Finché il testo è circolato in Russia, anche nella versione di Nilus, non ebbe grandissimo rilievo, tanto è vero che lo stesso Nilus si lamentò di non essere riuscito a far prendere sul serio i Protocolli come sperava e come secondo lui meritavano. Il cambiamento avvenne con la guerra civile succeduta alla Rivoluzione d’ottobre. Anche in questo caso, come in quello degli Illuminati, è la costruzione di una tesi controrivoluzionaria a legittimare l’uso della teoria cospirativa contro gli ebrei.

Cohn attribuisce particolare importanza ad un fatto che forse non è stato così determinante. In ogni caso, secondo la sua ricostruzione, quando la famiglia imperiale venne uccisa a Ekaterinburg dai bolscevichi, i quali temevano l’imminente avanzata delle truppe bianche, nella casa dove abitava la famiglia imperiale deposta venne trovata una copia del libro di Nilus contenente i “Protocolli” (e siccome tutta la libreria consisteva in tre libri, tra cui una Bibbia, il fatto venne considerato rilevante).

Questo elemento venne assunto a simbolo dalla destra controrivoluzionaria per sostenere che la rivoluzione bolscevica costituiva l’assalto supremo di poteri satanici, che la famiglia imperiale era stata distrutta perché rappresentava il volere divino in terra e le forze delle tenebre si incarnavano negli ebrei. I bianchi mettevano in grande evidenza che diversi ebrei svolgevano un ruolo di primo piano nella rivoluzione. Tra questi vi erano Trotsky (vero cognome Bronstein), Zinoviev (pseudonimo di Apfelbaum), Kamenev (pseudonimo di Rosenfeld), Sverdlov e altri.

Nei vari eserciti controrivoluzionari i “Protocolli” circolavano ampiamente o, se necessario per arrivare a militari semianalfabeti o comunque poco sofisticati, se ne distribuivano estratti. In Crimea, quando era occupata dal generale Vrangel, i propagandisti antibolscevichi tuonavano contro la cospirazione mondiale giudeo-massonica. Una nuova edizione dei Protocolli venne pubblicata nelle zone controllate dall’ammiraglio Kolçak che, secondo un testimone, era ossessionato da questo testo.

Per rendere ancora più convincente la tesi della natura ebraica della rivoluzione bolscevica venne diffuso un falso documento firmato da un inesistente “Comitato centrale della Lega Israelita Internazionale” (noto come “documento di Zunder”). L’idea che la Rivoluzione d’ottobre fosse l’effetto delle trame segrete degli ebrei contro la Russia, considerata l’ultimo baluardo cristiano non ancora finito nelle grinfie giudeo-massoniche, era ampiamente e saldamente diffusa nelle file dei Bianchi e questa idea si sarebbe trasferita ai nazisti.

La denuncia ossessiva del ruolo nefasto degli ebrei non si limitava semplicemente a dominare la propaganda della destra durante la guerra civile, ma fu alla base di un vero e proprio sterminio di massa di cittadini ebrei. L’organizzazione anticomunista dei Cento Neri aveva lanciato la parola d’ordine “Uccidete gli ebrei, salvate la Russia”. Tra il 1918 e il 1920, quando la guerra civile ebbe fine con la sconfitta dei Bianchi, vennero uccisi almeno 100.000 ebrei e tantissimi altri furono feriti e mutilati. Fu il primo grande sterminio inferto alla comunità ebraica prima dell’avvento del nazismo.

Non viene spesso ricordato che è proprio grazie alla destra russa antibolscevica che i Protocolli si sono diffusi in Europa e in altri Paesi e che essi svolgevano primariamente la funzione soprattutto di strumento di propaganda anticomunista.

Quando i tedeschi evacuarono l’Ucraina per effetto dell’armistizio con la Russia sovietica firmato a Brest-Litovsk nel novembre 1918, diedero la possibilità a migliaia di ufficiali e soldati combattenti nelle file dei Bianchi di fuggire in Germania. Tra questi anche figure di antisemiti fanatici come Sabels’skij-Borg e Vinberg che portarono con sé i “Protocolli” e si diedero da fare affinché venissero tradotti in tedesco e diffusi in Germania.

Si creò allora un legame stretto tra la destra anticomunista russa, organizzata principalmente in un’organizzazione segreta che si chiamava “Aufbau: Wirtschaft-politische Vereinigung fur den Osten” (Ricostruzione: Organizzazione politico-economica per l’est) con sede a Monaco, ed il nascente movimento nazista, dal quale Hitler emerse in pochi anni come capo assoluto. L’antisemitismo tedesco non era però solo un prodotto di importazione russa, perché era già presente nella cultura e nel senso comune popolare tedesco. La contaminazione con la destra russa servì a rafforzare il tentativo di esponenti conservatori tedeschi di scaricare le proprie responsabilità della guerra e della sconfitta su qualcun altro. Il complotto ebraico nel quale si potevano far convergere a piacere i massoni e, soprattutto, i comunisti che si erano opposti al macello europeo, serviva anche da capro espiatorio per sfuggire alle proprie responsabilità nella guerra e nella sconfitta.

Oltre ai Bianchi fuggiti dall’Ucraina, un importante punto di contatto tra destra russa antibolscevica e movimento “volkisch” tedesco (un termine che indica una miscela di nazionalismo, populismo e razzismo) fu l’azione congiunta di Freikorps e Bianchi antibolscevichi nei paesi baltici, dove era presente una forte minoranza di origine tedesca. Quando questa iniziativa militare, che continuò per un certo tempo anche dopo la resa della Germania, fu sconfitta, i principali esponenti antibolscevichi, si trasferirono in Germania e iniziarono a collaborare con l’Aufbau e il nascente partito nazista. Tra questi si trovava anche Alfred Rosenberg (che si era laureato in architettura a Mosca dopo la Rivoluzione), dapprima stretto collaboratore di Dietrich Eckart, che influenzò fortemente Hitler, e poi importante intellettuale e dignitario di primo piano del Terzo Reich. Per Rosenberg antisemitismo e anticomunismo erano ideologie inseparabili.

Nel 1923, quando Hitler e Ludendorff tentarono un colpo di Stato, ottennero l’appoggio dei Bianchi russi emigrati in Germania, al punto che uno dei principali leader dell’Aufbau, Max von Scheubner-Richter, rimase ucciso mentre marciava sottobraccio a Hitler che invece rimase indenne. Sui giornali del movimento volkisch russo-tedesco trovavano credito notizie piuttosto bizzarre come quella secondo la quale Trotsky avrebbe organizzato messe nere al Cremlino per chiedere l’aiuto di Satana nella lotta per la diffusione della rivoluzione mondiale.

I “Protocolli” trovarono un’eco importante nel dopoguerra anche in altri Paesi e furono fatti circolare dagli esponenti della destra russa pensando che avrebbero convinto le potenze occidentali a rafforzare il sostegno alle armate Bianche nella guerra civile. Il maggiore e più autorevole quotidiano borghese britannico, il Times, gli diede un certo credito attraverso un proprio editoriale. Figure politiche di primo piano come Winston Churchill attribuirono validità alla tesi del ruolo primario degli ebrei nella rivoluzione bolscevica e chiesero agli ebrei “nazionali” di dissociarsi esplicitamente da quelli “internazionalisti” (identificati con i comunisti).

L’inviato speciale del quotidiano londinese a Mosca, Robert Wilton, schierato con l’estrema destra locale, dava credito a tutte le notizie che venivano messe in circolazione dagli anticomunisti. In un libro che ricostruiva la fine della dinastia Romanov riferiva, seriamente, che i bolscevichi avevano fatto erigere una statua in memoria della figura di Giuda Iscariota, il discepolo che secondo i Vangeli aveva tradito Gesù. “Questa era la principale fonte su cui basava il più autorevole giornale inglese per capire la rivoluzione russa”, annota Norman Cohn.

Fu lo stesso Times, poco tempo dopo, a dare un colpo importante alla credibilità dei “Protocolli” pubblicando una serie di articoli del proprio corrispondente dalla Turchia, il quale aveva potuto verificare, grazie alla segnalazione di un emigrato russo, come i “Protocolli” fossero in molti passaggi una copia di brani di un libro francese pubblicato diversi anni prima e destinato a polemizzare contro Napoleone III, senza che vi fosse alcun riferimento agli ebrei. Il libro, scritto da Maurice Joly, è la più evidente, ma non l’unica, delle fonti letterarie saccheggiate per creare i “Protocolli”.

Nonostante questo e molti altri tentativi successivi di dimostrarne la falsità, che per altro dovrebbe risultare evidente a qualsiasi lettura critica, il testo ha continuato a circolare ampiamente. Negli Stati Uniti è stato il grande industriale ed inventore dell’automobile per il consumo di massa, Henry Ford, a favorirne la diffusione, grazie ad un proprio settimanale che faceva della campagna anti-ebraica uno dei suoi punti di forza. Anche in questo caso la collaborazione di un russo bianco anticomunista emigrato negli Stati Uniti, Boris Brazol, collegato all’Aufbau e che aveva già diffuso i “Protocolli” nei servizi segreti degli Stati Uniti, dai quali era stato arruolato, fu importante per alimentare una campagna che ebbe il suo culmine in un volume intitolato “The International Jew”. Un libro che vendette mezzo milione di copie negli Stati Uniti, fu tradotto in altre lingue e molto apprezzato anche dai nazisti. Naturalmente fu la Germania hitleriana a fare dei “Protocolli” un testo di riferimento della propria politica antisemita che ebbe, come sappiamo, l’esito tragico di condurre allo sterminio di milioni di ebrei.

Una parte dell’estrema destra cerca tutt’ora di salvare dal discredito i Protocolli sostenendo che, se anche questi potrebbero essere un falso, il loro contenuto corrisponde effettivamente alla volontà di dominio del popolo ebraico. Per questo hanno continuato a diffonderlo e a commentarlo utilizzandolo come strumento di propaganda politica.

La Rivoluzione russa nelle fantasie complottiste: non solo ebrei

La versione del complotto giudaico-bolscevico o in qualche caso giudaico-massonico-bolscevico non è l’unica versione cospirazionista messa in circolazione come spiegazione della Rivoluzione bolscevica. Prima ancora che il partito di Lenin conquistasse il potere cominciò a circolare la più nota, perché sostenuta anche da studiosi ritenuti autorevoli, quella relativa ai presunti finanziamenti ricevuti da parte del governo tedesco durante la prima guerra mondiale. Un’altra teoria riguarda invece i fondi che sarebbero arrivati ai rivoluzionari russi dai banchieri di Wall Street per favorire il loro accesso al potere.

Nel caso del governo tedesco, l’appoggio ai gruppi socialisti antizaristi, soprattutto quelli più radicali come i bolscevichi, poteva avere una certa logica. Dal suo punto di vista, tutto ciò poteva favorire la disgregazione dell’Impero russo e l’indebolimento del nemico sul fronte orientale, consentendo di acquisire un indubbio vantaggio militare nel conflitto in corso.

La tesi è oggetto di polemica politica almeno dal luglio 1917, quando il governo provvisorio russo avviò un processo contro i bolscevichi, che in quel momento cominciavano a godere di un consenso crescente, accusandoli di essere delle spie tedesche. Lenin venne costretto a fuggire nella vicina Finlandia, altri dirigenti bolscevichi furono arrestati. Le “prove” addotte dal Governo provvisorio di Kerensky si rivelarono talmente inconsistenti che il processo non portò a nulla. Lo stesso Governo venne poi travolto dalla crisi che terminò con il suo crollo e con la presa del potere da parte dei bolscevichi nel novembre successivo. Kerensky, da parte sua, continuò a credere di essere stato travolto da un complotto finanziato dai tedeschi, tanto è vero che riprese la storia, molti anni dopo, in un’intervista all’allora corrispondente della Rai dagli Stati Uniti, Ruggero Orlando.

La tesi del finanziamento del governo tedesco ai bolscevichi è stata ripresa in più occasioni da storici e scrittori in genere conservatori e anticomunisti (come Richard Pipes o Solgenitsin), ma nell’arco di diversi decenni tutte le “prove” portate a suo sostegno si sono rivelate inconsistenti. Nel 1918 il governo americano pubblicò i cosiddetti “documenti Sisson”, tramite i quali voleva sostenere che operazioni commerciali tra la Svezia e la Russia mascheravano i finanziamenti segreti al partito di Lenin. Fin dagli anni ’50, l’analisi accurata di questi testi ha dimostrato che si trattava di falsificazioni nate in ambiente anti-bolscevico.

La tesi del finanziamento tedesco è stata contestata anche da autori decisamente anticomunisti come Boris Souvarine che, al momento della pubblicazione del libro di Solgenitsin su “Lenin a Zurigo”, ha efficacemente e dettagliatamente contestato la tesi dell’autore nazionalista russo sui rapporti tra Germania e bolscevichi. Tra le notizie di cui è stata provata la completa infondatezza vi è quella secondo la quale il socialdemocratico tedesco di origine russa Helphand avrebbe avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione del treno dell’aprile 1917 che trasportò Lenin ed altri bolscevichi dall’esilio in Svizzera, attraverso la Germania e la Svezia, in Finlandia da dove poi riuscirono ad entrare in Russia.

In realtà Helphand (noto soprattutto con il soprannome di Parvus) viene tirato in ballo perché effettivamente durante la prima guerra mondiale cercò di accreditarsi presso il governo tedesco come possibile finanziatore dei socialisti russi in funzione antizarista, ma non ebbe alcun ruolo nell’organizzare il treno che riportò Lenin in Russia, né quello di poco successivo che fece transitare dalla Germania altre centinaia di emigrati politici russi, la maggioranza dei quali non bolscevichi. Al viaggio del leader bolscevico dedicò un film televisivo un noto regista italiano, Damiano Damiani, all’inizio degli anni ’90, anche in questo caso riportando dettagli del tutto inventati ma finalizzati ad accreditare la convergenza tra la Germania del Kaiser e il partito leninista.

Se in via teorica il governo tedesco poteva avere interesse a sostenere movimenti politici dissidenti nonché i vari movimenti separatisti delle minoranze etniche dell’Impero zarista, altrettanto dimostrato è il rifiuto dei bolscevichi ad accettare un simile contributo che avrebbe fatto perdere loro credibilità agli occhi delle masse operaie e contadine russe di cui cercavano il sostegno.

Risulta invece del tutto inspiegabile, se non con torsioni logiche e falsificazioni storiche, ipotizzare il sostegno della grande finanza di Wall Street ai rivoluzionari russi. In particolare, da molti autori di estrema destra (soprattutto, ma non solo, quelli antisemiti) viene attribuito un ruolo di primo piano alla compagnia di investimenti di Kuhn, Loeb and co. Alla sua guida negli anni della rivoluzione bolscevica si trovava Jacob Schiff. La più equilibrata ricostruzione della vicenda dimostra come Schiff abbia effettivamente sostenuto l’opposizione allo zarismo per reazione alle politiche antisemite condotte dal regime tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Questo appoggio fu indubbio almeno fino alla prima rivoluzione di febbraio che fece cadere lo zar e portò al potere un governo moderato.

Dopo la rivoluzione d’ottobre il sostegno andò invece ai gruppi dell’opposizione antibolscevica. Questo schieramento nel campo dei “bianchi” durante la guerra civile, produsse non poche contraddizioni per Schiff e gli altri della Kuhn, Loeb and co. In quanto si fecero sempre più insistenti e convincenti le informazioni sull’antisemitismo fanatico alimentato dai capi dei vari eserciti anticomunisti che portarono anche all’esecuzione di autentici pogrom antiebraici nelle zone da loro controllate.

La tesi di una convergenza tra grande finanza è stata sostenuta nel tempo da vari autori complottisti. Tra questi Eustace Mullin, un populista antisemita, seguace del poeta neonazista Ezra Pound. Nel 1950 viene assunto alla Libreria del Congresso degli Stati Uniti e collabora alla campagna anticomunista del Senatore Joe McCarthy.

In “The World Order”, Mullin cerca di dimostrare che il regime sovietico era in pratica diretto dai Rockfeller, i quali intervennero nell’ottobre del 1926 a favore di Stalin contro Trotsky; fu niente meno che David Rockfeller a licenziare Krusciov nel 1964. L’autore accumula qualche informazione vera mescolata ad una serie di “notizie” improbabili o totalmente prive di fondamento.

Racconta anche l’aneddoto secondo cui Brezhnev avrebbe dichiarato che l’Unione Sovietica non aveva bisogno di intervenire in Medio Oriente perché aveva già un suo uomo che se ne occupava: Henry Kissinger. Sostiene che la principale attività dell’FBI non è controllare i comunisti ma al contrario perseguitare i cittadini anticomunisti; che il primo piano quinquennale di Stalin è stato finanziato da Wall Street; che la CIA avrebbe tradito gli anticastristi in occasione dello sbarco della Baia dei Porci e così avrebbe consolidato il potere di Castro.

Anthony Sutton, a differenza di Mullin, disponeva di qualche competenza storica. Per conto dello Hoover Institute americano ha studiato i rapporti economici tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il suo obbiettivo era dimostrare che l’Unione Sovietica non solo mantenne relazioni economiche e cercò di avvalersi degli sviluppi tecnologici degli Stati Uniti, che è in parte vero, ma che sarebbero state la finanza e l’industria americana a sostenere volutamente l’Unione Sovietica, in contraddizione con l’apparente contrasto politico e militare esistente tra le due potenze.

Le sue pubblicazioni vennero valutate positivamente da qualche studioso serio ma quando la sua attività di ricerca cominciò ad entrare nel mondo della paranoia venne licenziato dall’Hoover Institute, una delle principali istituzione americane impegnate nella ricerca anticomunista.

Mullin e Sutton concordano con il fatto che la rivoluzione bolscevica sarebbe stata voluta e finanziata da Wall Street, ma divergono su un punto importante. Mullin evidenzia volutamente il ruolo degli uomini della finanza di origine ebraica, mentre Sutton dedica un’appendice del suo libro per contestare un particolare ruolo degli ebrei nella vicenda.

Il nazismo contro il complotto giudeobolscevico

Nel 1941, quando Hitler decide di aggredire l’Unione Sovietica, alle truppe tedesche viene impartito l’ordine di sterminare innanzitutto gli ebrei e i commissari politici dell’Armata rossa. Per i nazisti non si tratta di due nemici disgiunti bensì solo volti diversi dello stesso nemico. La minaccia che va combattuta è rappresentata dal “giudeo-bolscevismo”. La premessa di fondo consiste nell’idea che il comunismo sia solo uno strumento con il quale gli ebrei conducono il loro sogno secolare: la conquista del mondo e la distruzione dell’Occidente. Questa tesi come abbiamo visto è stata partorita dalla convergenza dell’estrema destra russa con quella tedesca già alla fine della prima guerra mondiale. E in questo contesto è stata inserita la diffusione dei “Protocolli”.

Nel 1943, quando le sorti della Germania hitleriana cominciano a vacillare, soprattutto per l’inaspettata resistenza sovietica, Goebbels, il principale artefice della propaganda nazista, nell’invitare il popolo tedesco alla resistenza rilancia la paura dell’invasione barbarica dall’Asia, ultima forma dello scontro mortale tra la civiltà e il comunismo giudaico. Difesa della civiltà, nella quale la Germania si trova ad essere l’ultimo baluardo, visto che il resto dell’Occidente non avrebbe compreso quale fosse il vero nemico e la posta in gioco.

Lo storico americano della Rutgers University, Paul Hanebrink ha dedicato un suo recente libro, “Uno spettro si aggira per l’Europa”, a ricostruire la storia del “mito del bolscevismo giudaico”. Naturalmente l’autore dà per scontato, giustamente, che si tratti di un “mito”, ovvero che non esista né sia mai esistita alcuna cospirazione ebraica, né che il comunismo ne sia un suo prodotto.

Il mito del “giudaismo bolscevico”, sottolinea Hanebrink, è centrale in tutta l’ideologia nazista dal momento della sua formazione, nella Monaco dei primi anni venti, fino a quando i primi soldati sovietici innalzano la bandiera rossa nel cielo di Berlino e Hitler si suicida nel bunker.

Questa interpretazione ebbe larga diffusione in quegli anni (anche nel fascismo italiano, come vedremo più avanti). Quando, durante il conflitto tra Polonia e Russia rivoluzionaria, l’Armata Rossa sbaragliò l’esercito polacco e arrivò fino ai dintorni di Varsavia, i vescovi polacchi lanciarono un appello al mondo nel quale scrivevano: “Il bolscevismo avanza a grandi passi verso la conquista del mondo. La razza che ha portato al bolscevismo è la stessa che ha già assoggettato il mondo all’oro e alle banche, e oggi, guidata dall’eterno desiderio imperialista che scorre nelle sue vene, si volge alla sua ultima campagna di conquista per costringere le nazioni sotto il giogo del suo regime”. Trasparente il riferimento alla “razza” (termine che non ha nessuna base scientifica) che ha assoggettato il mondo dell’oro e delle banche. Non solo si esprime in questo modo il pregiudizio antisemita ma si dà per scontato che esso venga immediatamente compreso dagli interlocutori a cui esso è rivolto.

Tutti i movimenti rivoluzionari che si registrano in Europa dopo la fine della grande e insensata carneficina della prima guerra mondiale (le brevi e sfortunate esperienze della Baviera e dell’Ungheria) vengono interpretate dalla destra alla luce dell’ideologia antisemita. In Ungheria, il terrore bianco che segue alla caduta della Repubblica guidata da Bela Kun (che poi perirà nelle repressioni staliniane), provoca 3.000 vittime di cui la metà ebrei, oltre a migliaia di arresti e decine di migliaia di esiliati.

Fra le due guerre mondiali, oltre a diventare dottrina ufficiale della Germania hitleriana, il mito del bolscevismo giudaico viene ampiamente diffuso in alcuni dei paesi dell’est Europa in coincidenza con l’affermarsi di dittature di tipo fascista (in particolare Polonia, Ungheria e Romania). Ma fa la sua comparsa anche nella Spagna della guerra civile nel campo dei franchisti. Con una variante, perché se in Germania viene accompagnato all’immagine della barbarie asiatica, nelle file falangiste lo si affianca alla denuncia della massoneria, che diventa la terza testa dell’idra.

In Francia, due autori vicini all’Action Française di Maurras, scrivono un rendiconto a fosche tinte della vicenda della rivoluzione dei Consigli in Ungheria, intitolandolo significativamente ”Quando Israele è Re”.

Questa visione del comunismo come strumento della cospirazione ebraica non scompare del tutto con la sconfitta del nazifascismo. In alcuni paesi dell’est, gli ambienti di destra e anticomunisti diffondono l’idea che la liberazione, avvenuta in genere grazie al ruolo svolto dall’esercito sovietico, dia il via ad una “vendetta” degli ebrei per i crimini che hanno subito nel corso della guerra. In Ungheria, il fascismo locale resta alleato della Germania fino all’ultimo momento, mentre in Polonia esiste un movimento di resistenza nazionalista separato e a volte in conflitto con quello promosso dai comunisti. Anche in questi movimenti nazionalisti che pure si battono contro i tedeschi, come l’Armia Krajiowa polacca o gruppi lituani, sono ben radicati i pregiudizi antisemiti. E’ questa una delle ragioni per le quali l’insurrezione del ghetto di Varsavia, trovò qualche sostegno effettivo solo nelle organizzazioni partigiane comuniste. L’Armia Krajowa accusava il Comitato di Lublino (attraverso il quale operava la resistenza comunista) di rappresentare gli “interessi giudeo-bolscevichi”.

Dopo la fine della guerra, alla luce della generale condanna per il genocidio degli ebrei operato dalla Germania nazista, la diffusione del mito sul bolscevismo giudaico tende a restare patrimonio solo di gruppi di estrema destra. Da un lato della linea divisoria dell’Europa ricostruisce il passaggio di diverse figure importanti della macchina di propaganda nazista nelle file delle organizzazioni semi-ufficiali di propaganda anticomunista. E’ il caso di Eberhard Taubert, alto funzionario della sezione di propaganda anticomunista di Goebbels e autore della sceneggiatura di un famigerato film di propaganda antisemita, “L’ebreo errante”, e poi fondatore nell’era della guerra fredda della Lega Popolare per la Pace e la Libertà (VFF), che poteva contare su rapporti di collaborazione e finanziamenti sia del governo tedesco occidentale che della CIA. Rimosso evidentemente il riferimento al “giudaismo” tutto il resto dell’impianto ideologico anticomunista di origine nazista veniva abbondantemente riciclato.

Al di là del caso, pur significativo, di Taubert, Hanebrink rintraccia più in generale i fili rossi di continuità tra il vecchio anticomunismo della destra anteguerra e il successo della categoria del “totalitarismo” che consente di recuperare alcune tematiche, come la natura “asiatica” e pertanto “barbara” del comunismo, rimuovendone il carattere antisemita, e sostituendo la difesa della civiltà cristiana dal giudeo-bolscevismo con la difesa della civiltà giudeo-cristiana dal comunismo.

Con la caduta dei regimi socialisti si è assistito ad una riemersione del mito del “giudeo-bolscevismo”. Non è così sorprendente se si pensa che sono tornate in campo correnti reazionarie che si ricollegano idealmente ai regimi autoritari o apertamente fascisti esistenti in questi paesi tra le due guerre. In nome dell’anticomunismo e dell’alleanza con settori di destra oltranzista in funzione anti-russa anche le forze politiche dominanti nell’Unione Europea hanno chiuso un occhio al riemergere di tematiche antisemite più o meno esplicite. Non c’è solo la demonizzazione di Soros in Ungheria quale presunto orchestratore del piano di “grande sostituzione” degli europei bianchi e cristiani con gli immigrati islamici (il sedicente “Piano Kalergi” su cui torneremo nell’ultimo articolo della serie), ma anche la revisione storica del ruolo delle organizzazioni neofasciste ucraine guidate da Stepan Bandera .

Un caso tipico dell’ambiguità con cui le leadership dell’Unione Europea si pongono di fronte alle pulsioni esistenti in alcuni paesi dell’est è quello del cosiddetto Holodomor o genocidio ucraino. Si tratta della tesi secondo la quale Stalin avrebbe gestito gli effetti della carestia che ha colpito l’Ucraina come altre parti dell’Unione Sovietica, all’inizio degli anni ’30, per sterminare il popolo ucraino in quanto tale. Se le responsabilità della direzione staliniana nel modo in cui venne gestita la collettivizzazione ed anche le conseguenze delle carestie sono indubbie, la tesi di un complotto per mettere in atto il genocidio di una specifica etnia non ha trovato fondamento nelle ricerche più oggettive, anche se non sono mancati storici che hanno cercato, per ragioni ideologiche, di dimostrare una tesi sostenuta da tempo dalla destra nazionalista più estremista.

Gli ultranazionalisti ucraini hanno cercato inoltre di far lievitare in modo spropositato il numero dei morti fino ad arrivare ad un conto di 7 milioni (ma per qualcuno furono anche 10 milioni). Perché era necessario arrivare a 7 e non di meno? Per poter superare il numero delle vittime del genocidio – questo sì reale –degli ebrei da parte dei nazisti, abitualmente indicati in 6 milioni. Nella ricostruzione di ambienti della destra nazionalista ucraina il principale responsabile del presunto genocidio era Lazar Kaganovitch, uno dei più stretti collaboratori di Stalin ed anche, qui il punto che interessa rilevare ai nazionalisti ucraini, di origine ebraica. Ecco allora che si può contrapporre al genocidio messo in atto dalla Germania “cristiana” la responsabilità ebraica in un genocidio ancora più spaventoso rivolto contro una popolazione cristiana. Alcuni governi hanno avallato questa reinterpretazione della storia proveniente dall’estrema destra.

Il fascismo italiano e il complotto giudaico-massonico-bolscevico

Esiste da tempo un dibattito sulla natura dell’antisemitismo nel fascismo italiano e la sua connessione con l’introduzione delle famigerate leggi razziali del 1938. Vi è chi sostiene che queste furono solo il frutto dell’alleanza con la Germania e quindi si trattasse in sostanza di un antisemitismo di importazione.

In realtà temi e prospettive anti-ebraiche circolarono ampiamente e a vari livelli nel movimento fascista sin dalle origini e così l’adesione all’idea della cospirazione giudaico-massonico-bolscevica. Si può leggere in proposito quanto scrisse Benito Mussolini sul Popolo d’Italia del 4 giugno 1919:

“Se Pietrogrado non cade, se Denikin (uno dei capi delle armate Bianche controrivoluzionarie, ndr) segna il passo gli è che così vogliono i grandi banchieri ebraici di Londra e New York, legati da vincoli di razza con gli ebrei che a Mosca come a Budapest si prendono una rivincita contro la razza ariana, che li ha condannati alla dispersione per tanti secoli. In Russia vi è l’ottanta per cento dei dirigenti dei sovieti che sono ebrei…La finanza mondiale è in mano agli ebrei. Chi possiede le casseforti dei popoli, dirige la loro politica. Dietro i fantocci di Parigi, sono i Rothschild, i Warburg, gli Schiff, i Guggenheim, i quali hanno lo stesso sangue dei dominatori di Pietrogrado e di Budapest. La razza non tradisce la razza. Il bolscevismo è difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa è la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale è controllata e dominata dagli ebrei.”

Come si vede sono condensati tutti i luoghi comuni dell’antisemitismo e questo quando ancora il nazismo non si era formato.

Fu Hitler a riconoscere, nel “Mein Kampf”, che “l’Italia fascista” era impegnata contro le “tre maggiori armi del giudaismo” ovvero, “il divieto della massoneria e delle società segrete, la soppressione della stampa supernazionale e la demolizione del marxismo internazionale”. Tutto ciò consentirà al governo fascista di “servire sempre più gli interessi del popolo italiano senza curarsi delle strida dell’idra mondiale ebraica”.

In un discorso dell’aprile 1926, Mussolini inquadrò questi elementi in una prospettiva storica ancora più ampia che ci riporta al, non citato, abate Barruel: “Noi rappresentiamo un principio nuovo nel mondo, noi rappresentiamo l’antitesi netta, categorica, definitiva di tutto il mondo della democrazia, della massoneria: di tutto il mondo, per dirla in una parola, degli immortali principi dell’89”. Ovvero di quegli elementi costitutivi dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, che vengono collegati al ruolo della massoneria. Contro i “principi dell’89” si schiera ancora, a quasi un secolo di distanza, il partito della Meloni, come emerge dalla lettura delle “tesi di Trieste”, il principale documento ideologico elaborato da “Fratelli d’Italia”.

All’interno del fascismo furono attivi personaggi che conducevano una dichiarata e ossessiva campagna antisemita. Uno di questi fu Giovanni Preziosi che dirigeva la rivista “Vita Italiana”. Con l’introduzione delle leggi razziali, il ruolo di Preziosi nella gerarchia fascista si rafforzò. Mussolini valorizzò la sua trentennale rivista a riprova di come l’antisemitismo avesse sempre fatto parte dell’armamentario ideologico fascista (benché più o meno in sordina, a seconda delle convenienze politiche del momento).  Preziosi aveva dato alle stampe per primo in Italia i “Protocolli” nella versione di Nilus. Nel 1941 pubblicava, presso Mondadori, il volume “Giudaismo – Bolscevismo – Plutocrazia – Massoneria” nel quale erano riproposti molti suoi articoli che ruotavano ossessivamente intorno al tema del predominio ebraico in Italia, realizzato sin dai tempi di Mazzini e Garibaldi.

All’interno del fascismo si confrontavano interpretazioni diverse del razzismo antisemita. La rivista di Telesio Interlandi era concentrata sull’aspetto “biologico”, mentre “Julius” Evola voleva sottolinearne anche l’aspetto “spirituale”. Non bastava essere razzialmente “puri” ma occorreva anche non essere in alcun modo influenzati dalla “mentalità ebraica”. Una parte del regime era invece più affine all’antigiudaismo di matrice religiosa che in Italia aveva avuto come principale propugnatore la rivista dei gesuiti “La Civiltà Cattolica”.

Evola ebbe sempre stretti legami con ambienti culturali nazisti, anche se non tutti apprezzavano il suo razzismo influenzato da temi pagani e occultistici, considerati troppo astratti. Inoltre Alfred Rosenberg riteneva che gli italiani non fossero razzialmente abbastanza “puri”, dopo che l’Impero romano era caduto per una eccessiva tolleranza nei confronti della mescolanza interrazziale.

Il filosofo italiano, che nel dopoguerra ha influenzato una parte importante del Movimento Sociale (alla sua scomparsa Almirante disse che era stato: “il nostro Marcuse, ma più bravo”), fu sempre un ardente sostenitore della stretta alleanza tra fascismo italiano e nazismo tedesco, anche se il suo rapporto col regime fu in qualche tempo conflittuale. Tra le varie ragioni vi era l’ostilità nei suoi confronti delle istituzioni cattoliche e vaticane. Pubblicò assieme a Preziosi una seconda edizione dei Protocolli.

Anche l’Italia fu inoltre teatro dell’azione di emigrati russi antisemiti, benché non con l’influenza che essi ebbero in Germania. Uno di questi fu il generale cosacco Piotr Krasnov che aveva partecipato all’azione delle armate Bianche nel sud della Russia. Il giornale che faceva pubblicare ospitò ampi stralci dei Protocolli. Alleatosi ai nazisti, nel 1934 venne invitato come “esperto” al processo di Berna, da Nikolai Markov (un altro emigrato russo entrato al servizio della Germania hitleriana) per sostenere la veridicità dei Protocolli. Respinse la richiesta per non essere sottoposto agli interrogatori degli avvocati della controparte, ma confermò che continuava a credere nella loro autenticità.

Quando la Germania diede l’avvio all’operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica, Krasnov pubblicò immediatamente una dichiarazione di sostegno alla “crociata contro il giudeo-bolscevismo”. Nel settembre 1943 alla guida di un gruppo di cosacchi venne inviato in Friuli per combattere a fianco dei nazifascisti contro i partigiani jugoslavi ed italiani. Di fronte ai malumori dei suoi seguaci, che speravano di combattere ai confini dell’Unione Sovietica, spiegò che si trattava della stessa lotta contro la “cospirazione internazionale comunista”. Dopo la fine della guerra venne giustiziato per il suo collaborazionismo con i nazisti.

Conclusioni

Il successo dei “Protocolli” quale strumento di propaganda antisemita non si può comprendere se non si rileva anche la sua connessione con l’emergere di un’estrema destra violentemente anticomunista. Se la rivoluzione francese era stata vista come il frutto dell’azione degli Illuminati, quella russa veniva messa in conto alla volontà di dominio degli ebrei.

La sua diffusione nel mondo fu soprattutto il prodotto dell’azione della destra antibolscevica russa, e per ragioni politiche trovò un certo ascolto anche in ambienti politici sociali conservatori, che poi in parte ne attestarono il carattere di falso.

Lo stretto intreccio esistente nella visione ideologica del nazismo tra antisemitismo e antibolscevismo non è facilmente ricordata, perché non si inquadra facilmente nella rilettura della seconda guerra mondiale come conseguenza della convergenza delle nazioni “totalitarie”. Questa interpretazione è stata avallata anche dal Parlamento europeo per ragioni politiche, utili a legittimare le nuove élite etnonazionaliste e anticomuniste dell’Europa dell’Est, che oggi sono però diventate un’ingombrante presenza all’interno dell’Unione Europea.

 

 

Riferimenti bibliografici

Cohn, Norman, 2013 (ed. originale 1966), Licenza per un genocidio, Castelvecchi, Roma

De Michelis, Cesare G., Il manoscritto inesistente, Marsilio, Venezia

Ferrari, Franco, 2015, Il dossier “Bilderberg”, Youcanprint, Tricase (LE)

Kellogg, Michael, 2005, The Russian Roots of Nazism. White Emigrés and the Making of National Socialism, Cambridge University Press, Cambridge

Kennan, George F., 1956, The Sisson Documents, in The Journal of Modern History, 28:2, pp. 130-154

Souvarine, Boris, 1976, Soljenitsine et Lenine, in Est & Ouest, 28:570, pp. 1-16

Staudenmaier, Peter, 2019, Racial Ideology between Fascist Italy and Nazi Germany: Julius Evola an the Aryan Mith, 1933-43, in Journal of Contemporary History 0 (0) 1-19

 

 

 

 

 

 

 

 

Articolo precedente
Tessera sanitaria scaduta? Paghi
Articolo successivo
Educazione europea

3 Commenti. Nuovo commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.