di Massimo Serafini –
Le elezioni politiche e, in misura più contraddittoria quelle amministrative per comuni e regioni, hanno detto che il popolo spagnolo desidera continuare a essere governato da quella maggioranza che, nella legislatura precedente, sfiduciando Rajoy, ha portato Sánchez al governo. Non sarà un governo di sinistra, cioè solo del PSOE e Unidas Podemos. Per riuscire a governare l’unità delle due sinistre non è sufficiente. Ad essa si deve aggiungere, come nella precedente legislatura, il voto favorevole dei nazionalisti Baschi del PNV e almeno l’astensione di Esquerra Repubblicana catalana, una forza dichiaratamente indipendentista, coloro che fecero cadere Sánchez dicendo no al bilancio.
Questo, schematizzando è il messaggio uscito dalle urne e ogni ragionamento non può prescindere dal fatto che l’unica alternativa a questa possibile maggioranza, sono nuove rischiosissime elezione anticipate.
Il rischio di esporre il paese a forti tensioni, che nuove elezioni scatenerebbero, sembrano quasi ignorati nelle trattative che i socialisti conducono, per riuscire a dare un governo al paese. Non c’è dubbio che nel PSOE c’è ancora una difficoltà a riconoscere che questa sia l’unica maggioranza possibile.
Forse il paese si aspetta che venga messa la parola fine al continuo oscillare dei socialisti che un giorno sì e uno no auspicano, sapendola impossibile, l’astensione di Ciudadanos, o addirittura quella del PP. E’ tempo di cominciare a lavorare per costruire la sola maggioranza possibile o decidere nuove elezioni.
Ed invece appare in difficoltà la capacità delle sinistre di raggiungere un accordo programmatico e, sulla base di questo, definire la formula del governo destinato a portarlo avanti.
Sicuramente questa intesa andava ricercata prima del voto, in modo che l’elettorato potesse sceglierla e legittimarla. Era del tutto chiaro il limite della precedente esperienza di governo monocolore socialista, che Unidas Podemos ha sempre con lealtà sostenuto fino allo scioglimento delle camere, pur essendo oscurato il suo ruolo, persino per quanto riguarda l’intesa sul bilancio raggiunta fra il segretario socialista Sánchez e il segretario di Podemos, Iglesias. Non avere prodotto un chiarimento subito dopo lo scioglimento delle camere, per riuscire a presentare al paese le sinistre unite su un chiaro progetto, è la causa principale delle difficoltà di oggi, che a due mesi dal voto, stanno producendo una situazione di stallo.
La responsabilità è dei socialisti, e dello stesso Sánchez, che hanno preferito puntare sull’autosufficienza, con una richiesta di voto utile che ha occultato il ruolo essenziale di Unidas Podemos, non solo nel cambiamento del paese, ma anche nell’impedire la rivincita delle destre.
Una scelta ingenerosa e sbagliata che non solo ha probabilmente demotivato e spinto all’astensione una parte di elettorato progressista, ridimensionandone così la portata della vittoria, ma soprattutto ora sta presentando il conto a entrambi i partiti della sinistra, rendendone difficile l’intesa.
Pesa infatti nella trattativa l’eccessiva sproporzione, emersa dal voto, fra i socialisti e Unidas Podemos. Il forte ridimensionamento di questi ultimi finisce, inevitabilmente, per ridare fiato a quella minoranza interna socialista, nostalgica delle larghe intese e favorevole ad un eventuale accordo con Ciudadanos, che permetterebbe un’ampia maggioranza in parlamento.
Unidas Podemos rivendica, giustamente, una chiara intesa programmatica con il Psoe e una formula di governo che preveda la partecipazione di suoi rappresentanti.
Ciò che Sánchez non sembra comprendere è che la crisi di Podemos rende proprio lui più debole, perché espone il suo tentativo di rinnovamento e spostamento a sinistra del PSOE al continuo ricatto di quella parte del partito, ancora assai influente, che ostacola questo progetto. Le incertezze di Sánchez non possono che alimentare nelle stesse file di Unidas Podemos il legittimo dubbio che forse è meglio tornare all’opposizione. A che serve tanta lealtà, l’idea stessa di stare in un governo con questi rapporti di forza, se poi perdura questa doppiezza da parte dei socialisti e dello stesso Sánchez, finalizzata a privilegiare la loro unità interna sacrificando una parte essenziale del progetto con cui riconquistò la guida del Psoe?
Ovviamente il ridimensionamento di Unidas Podemos non è causato né solo dalla campagna del Psoe sul voto utile, né tantomeno dalle difficoltà permanenti del suo gruppo dirigente. Forse è tempo di chiamare l’intero corpo politico di Podemos ad interrogarsi se perdere per strada quasi due milioni di voti in soli tre anni, non segnali una inadeguatezza, del suo insediamento territoriale e del modello organizzativo interno, a intercettare e dare rappresentanza ai nuovi movimenti che dalla mobilitazione degli indignati si sono poi successivamente sviluppati e radicati in Spagna, tra tutti la protesta femminista.
Rispondere alla crisi, puntando solo alla scelta del governo, strappando cioè il sì socialista ad un esecutivo di coalizione, è riduttivo. Forse riesce a dare una risposta alle aspettative del paese, ma non riesce a modificare il rapporto di forza fra le due sinistre, favorevole a quella più moderata.
Non è pensabile neppure che quel rapporto di forza lo si possa modificare ritornando all’opposizione, in poche parole prendendo atto che il tentativo di Sánchez non può andare oltre certi limiti e questi limiti sono da tempo già raggiunti.
La partita va giocata fino in fondo e forse il paese capirebbe molto di più la posizione di Unidas Podemos se la sua priorità fosse l’intesa programmatica e la qualità e profondità del cambiamento sociale che essa propone. Sulla base del progetto che si riuscirà a strappare si potrà stabilire se varrà la pena chiedere di entrare nel governo o conquistarsi una autonomia rimanendone fuori.
E’ del tutto evidente ad esempio che un’intesa che impegni il nuovo governo a fare della Spagna una protagonista della lotta ai cambiamenti climatici, facendo anche di questa scelta la chiave per rispondere anche ai problemi sociali, al bisogno di uguaglianza e nuovi diritti, darebbe un senso forte alla domanda di essere parte del governo.
C’è poi l’urgenza di una proposta comune sulla Catalogna e più in generale sulla crisi territoriale dell’intera Spagna. Non c’è intesa programmatica che possa essere praticata senza una soluzione politica della crisi catalana, cominciando da una chiara posizione favorevole all’indulto in caso di una condanna dei dirigenti indipendentisti in carcere, per finire con quella riforma costituzionale delle autonomie, che delinei quella Spagna plurinazionale, unica alternativa all’indipendentismo e alla permanente sospensione dell’autonomia catalana, come vogliono le destre.
Una Spagna protagonista e soggetto trainante della lotta ai cambiamenti climatici. Una Spagna capace di tradurre in politiche concrete la domanda di uguaglianza e fine del patriarcato, ridisegnando le relazioni fra i generi. Una Spagna che fa del suo pluralismo di lingue e nazioni una ricchezza e non una rottura della convivenza, questo è il progetto su cui Sánchez ha chiesto e ottenuto voti. Lo può realizzare solo con chi continua comunque a rappresentare quasi quattro milioni di persone che su quel progetto di Spagna si sono da tempo mobilizzate e hanno lottato.
Continuare a trasmettere messaggi contraddittori, delineare alleanze spurie, incoerenti con la realizzazione di quel progetto di cambiamento del paese, semina solo sconcerto, in primo luogo nel popolo socialista e finirebbe per bloccare il disegno in controtendenza uscito dalle urne spagnole.