articoli, ferragosto23, recensioni

Sinistra senza classi o classi senza sinistra?

di Franco
Ferrari

Marco Damiani torna ad occuparsi dei partiti della sinistra radicale con un nuovo libro che ha, tra gli altri, il pregio della sintesi e della chiarezza. Il titolo, Sinistra senza classi (Mondadori Università, pp. 150,  euro 13,00), è già in sé particolarmente esplicativo dell’asse di ragionamento attorno al quale si sviluppa l’analisi che si concentra sui partiti che hanno adottato come punto di orientamento il “populismo di sinistra”. Non si tratta tanto di un’analisi dettagliata dei singoli partiti considerati (Podemos, France Insoumise, Syriza) e delle loro vicende specifiche, quanto un tentativo di coglierne gli elementi di fondo che li caratterizzano e delle ragioni per le quali sono sorti o (nel caso di Syriza) si sono modificati.

La prima parte del libro riguarda le trasformazioni in corso ovvero quell’insieme di cambiamenti economici, sociali e politici che negli ultimi decenni hanno determinato le condizioni all’interno delle quali si sono sviluppati nuovi partiti di sinistra.

I principali fattori individuati sono quattro:

  • la trasformazione del modo di produzione capitalistico e il superamento del modello industriale fordista con la conseguente scomposizione del conflitto capitale/lavoro e l’affermazione di nuovi conflitti post-materialisti;
  • l’accelerazione del processo di individualizzazione sociale;
  • l’affermazione di una società globalizzata che supera i confini spazio-temporali degli Stati nazionali;
  • gli effetti prodotti dalla rivoluzione tecnologica e informatica che hanno portato alla costruzione di un nuovo “campo dei media”.

Questo insieme di cambiamenti ha prodotto nuovi potenziali “cleaveages” (linee di frattura secondo la tradizionale analisi di Lipset e Rokkan) che sono stati variamente definiti nel dibattito teorico. Dalla contrapposizione tra “vincitori” e “perdenti” a quella tra “cosmopoliti” a “sovranisti” o a quella tra “garantiti” e “non garantiti”. E’ emersa anche la tesi sulla formazione della “moltitudine” (dovuta a Negri e Hardt) che darebbe conto del “disfacimento delle forme di rappresentanza tradizionale e l’affacciarsi di nuove configurazioni dell’agire politico”.

Nel tentativo di ricostituire un nuovo “soggetto collettivo”, dando ormai per superata la possibilità di agire come tale la “classe sociale” e archiviato il conflitto capitale/lavoro, sarebbe quindi emerso “il concetto di popolo”. La stessa definizione del concetto di popolo è oggetto di disputa teorica e politica. Sicuramente il “popolo” della sinistra è inclusivo a differenza di quello della destra (il “popolo-ethnos) che rimanda ad una comunità definita identitariamente (etnia, lingua, territorio, religione, ecc.). Ovviamente il principale riferimento teorico dell’uso politico del concetto di popolo in una strategia di sinistra radicale non può essere che quello elaborato da Laclau e Mouffe.

A differenza del “popolo” di destra, però, aggiungeremo, che esiste anche prima che esso si riconosca in una proposta politica etno-nazionalista, il “popolo” dei teorici del “populismo di sinistra” esiste solo nel momento in cui una narrazione politica lo costituisce. E qui, a nostro parere, è uno dei suoi elementi di debolezza teorica e anche strategica, che deriva proprio del rimuovere la presenza delle “classi”, come uno degli elementi costitutivi della formazione di un “popolo”.

D’altra parte proprio questo superamento della visione delle classi come possibile “soggetto collettivo” è l’elemento centrale che secondo Damiani caratterizza la nuova proposta politica di “sinistra radicale”. Dalla lettura ci resta il dubbio se, nella visione dell’autore, si tratti di una valutazione di tipo analitico (questo è quello che caratterizza i nuovi partiti della sinistra che si richiamano al populismo di sinistra) o anche una conclusione normativa (le trasformazioni avvenute non consentono più di agire le classi come la base di una strategia politica di sinistra).

L’analisi di Damiani presenta molti spunti interessanti che meriterebbero una più approfondita discussione. Ad esempio nel rilevare che questi nuovi partiti siano passati da una visione “ideologica” che presentava una visione organica del mondo, ad un “immaginario sociale” che funziona combinando in modo anche diverso (“à la carte” diremmo noi) elementi molteplici e a volte anche contradditori ed occasionali.

I partiti della sinistra populista avrebbero poi abbandonato “il principio di eguaglianza tipico dei partiti di massa di tradizione marxista” sostituendolo con quello “dell’inclusione sociale, teso a governare il conflitto politico mediante la combinazione delle rivendicazioni provenienti da molteplici parti sociali”. Questo “principio dell’inclusione” oltre ad evitare di “spaventare i ceti medi” consentirebbe anche di “aggregare istanze e persone di differenti sfere sociali sulla base delle richieste legate alla costruzione di una più ampia società del benessere”.

L’analisi di Damiani tocca altri aspetti, cercando di enucleare i caratteri specifici dei partiti populisti di sinistra, evidenziandone anche i vari dilemmi o le possibili contraddizioni che hanno sperimentato nella loro esperienza concreta: organizzazione, leadership, partecipazione, sovranismo ed Europa.

La sintesi di tutto ciò è contenuta in un passaggio delle conclusioni:

Abbandonato l’obiettivo della palingenesi socialista e della costruzione dell’uomo nuovo, i partiti europei della sinistra populista decidono di abbandonare il conflitto capitale/lavoro, privilegiando e scegliendo di politicizzare lo scontro alto/basso della società tra la “casta” dei governanti e il “popolo” sovrano costretto a soccombere agli effetti delle scelte compiute dall’élite dominante.

Può essere questa l’unica strategia della sinistra radicale o, comunque, l’unica in grado di costruire un certo livello di consenso, almeno sul piano elettorale? Partiti come Podemos o France Insoumise e prima ancora Syriza (sulla cui collocazione all’interno della categoria del “populismo di sinistra”, personalmente nutriamo molti dubbi) hanno indubbiamente raggiunto livelli di consenso ottenuti solo in tempi lontani (il PCF francese) o mai ottenuti (Izquierda Unida) dalla sinistra a sinistra della socialdemocrazia. E quindi si tratta di esperienze che non possono essere sommariamente liquidate.

Hanno posto soprattutto l’esigenza di costruire una sinistra meno ancorata alla ripetizione dei propri mantra e più aperta alla comunicazione con settori di opinione pubblica per come sono realmente e non per come dovrebbero essere. Hanno riproposto il tema del governo come fine del proprio agire politico come condizione necessaria per rifuggire dalla marginalità. Questa strategia si è rivelata però utile soprattutto come strumento di costruzione del consenso in una fase di crisi dell’egemonia delle classi e dei partiti dominanti e quindi di potenziale de-allineamento elettorale. Il problema irrisolto è come la “catena delle equivalenze” (Laclau) che dovrebbe tenere insieme un “popolo” composito e contingente, regga al momento di compiere scelte politiche dirimenti.

Come ridefinire i rapporti tra “potere” e “governo”, tra “classi” e “popolo”, tra “immaginario sociale” e grande narrazione” al fine di costruire una strategia convincente di trasformazione sociale, sono tutti interrogativi che il testo di Damiani sollecita, ma le cui risposte sono evidentemente ancora tutte da costruire.

Franco Ferrari

populismo, sinistra
Articolo precedente
L’antifascismo ipocrita del revisionismo
Articolo successivo
Il Senato oltraggiato nel Necrocene

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.