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Sinistra e movimenti nella grande regressione: le convergenze necessarie

di Marco
Noris

di Marco Noris-

Agli inizi di dicembre dello scorso anno Transform! Italia organizzò un breve Forum denominato “Sociale è Politica” invitando Marco Bersani di ATTAC Italia e Monica Di Sisto della campagna Stop TTIP e vicepresidente di Fairwatch. Fu un primo tentativo – che al momento non ha ancora avuto seguito – di capire come (ri)allacciare i rapporti tra Sinistra politica, per così dire, istituzionale e quella vasta area di movimenti le cui presenze e azioni, naturalmente non solo in Italia, sono state non solo fondamentali nella costruzione del movimento altermondialista della fine degli anni ’90 del secolo scorso, ma hanno anche saputo mantenere un ruolo centrale, e per certi versi insostituibile, nelle battaglie odierne, presidiando quasi tutti i fronti necessari alla ricerca di un’alternativa di spessore allo status quo.

Nonostante le apparenti ed ovvie convergenze sul piano teorico, nella pratica le cose non sono andate in questa direzione e il rapporto tra le due soggettività in questione non è mai stato lineare e neppure adeguato con dispersione e dissipazione di energie notevoli. Il tentativo di una ricomposizione adeguata in termini di rapporti, comporterebbe secondo le parole di Marco Bersani una sorta di percorso di socializzazione della politica e di politicizzazione del sociale che, però, ad oggi sembra lontano dal realizzarsi.

Per la verità, seppur in forme e contesti storici differenti, il rapporto non è mai stato semplice nell’arco dell’ultimo mezzo secolo, se non addirittura conflittuale come agli albori movimento del ’68. Sebbene l’incontro non avesse come tema quello di un’analisi storica di tale rapporto, era comunque naturale che all’inizio si procedesse con una veloce disamina dei passaggi storici che hanno portato alla situazione attuale. A partire da questo approccio e dal confronto che ne è seguito si sono aperti temi e gettati spunti che avrebbero meritato spazi e tempi di analisi che la brevità dell’incontro non ha ovviamente concesso. È proprio a partire da tale considerazione che vale la pena riprendere i fili del discorso, sviluppare i temi e iniziare a proporre interpretazioni e nuovi spunti perché quanto detto non si perda nella polvere della pura evenemenzialità.

Passaggi e riferimenti storici

Seppur per sommi capi, vale la pena riprendere e delineare quanto accaduto negli ultimi decenni a partire dalla controffensiva degli anni ’80 successiva ad oltre un decennio di lotte di movimenti che, in diverse forme e contenuti, avevano caratterizzato e, in un certo qual modo, cambiato la visone del mondo a partire appunto dal 1968. Il concetto thatcheriano There is no alternative impone, in anticipo di qualche anno, rispetto a Fukuyama l’affermazione della “fine della storia”: l’affermazione ha una portata globale e delinea un terreno specifico nel quale le possibilità di scelta rimangono limitate e indirizzate verso la libertà individuale a scapito di quella collettiva: è appena il caso di citare, in tal senso, l’altra affermazione thatcheriana inevitabilmente complementare alla prima per cui non esiste la società bensì solo gli individui.

A rigor di logica, gli assiomi ideologici di tale impostazione non avrebbero retto a lungo in altri contesti storici ma ciò che accadde negli anni successivi ne determinò il successo. Il 1989, o più precisamente il periodo di disgregazione del sistema teoricamente antagonista che va dal 1989 al 1991, certificò il concetto della fine della storia lasciando orfana la Sinistra storica novecentesca e cambiando definitivamente gli assetti egemonici e di potere del sistema-mondo. Nell’instabilità che ne seguì la guerra tornò ad essere non solo un mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, bensì il mezzo privilegiato per delineare il nuovo ordine economico e politico su scala planetaria. Mentre una parte della Sinistra era alle prese con una lunghissima elaborazione del lutto post ’89 – per taluni ancora irrisolta a tutt’oggi – un’altra parte, quella socialdemocratica, elaborò quella che successivamente passerà alla storia come Terza Via, con tutto ciò che ne consegue e sul quale si è già scritto molto. Basti solo sottolineare che Terza Via non fu affatto se non sottomissione e accettazione dello status quo, una sorta di deriva destinale dell’essere politico debole e poroso parafrasando i concetti postmoderni di Gianni Vattimo sul “pensiero debole”. In pratica, se volessimo individuare i due estremi temporali della Terza Via nell’arco di poco più di una dozzina di anni potremmo proporre il 1991 con la giustificazione politica da parte di Mitterand alla prima guerra del Golfo, al 2004, anno in cui il socialdemocratico Gerhard Schröder, nell’ambito della scellerata riforma sociale Agenda 2010 tradusse alla lettera Margaret Thatcher con il suo famoso Es gibt keine Alternativen.

Per l’altra parte della Sinistra, però, non ci fu solo elaborazione del lutto: la problematica non si esprimeva nei confronti di una ormai sempre più improbabile nostalgia nei confronti del sistema sovietico, quanto per lo smarrimento dovuto all’assenza di un’alternativa sistemica e strutturale da proporre in prospettiva storica.

È vero che i tentativi di ricomposizione ci furono ed ebbero una certa rilevanza: La nascita in seno al Parlamento Europeo del GUE/NGL nel 1995 riveste un’importanza spesso sottovalutata perché al di là della debolezza decisionale del Parlamento europeo delinea uno spazio nuovo di confronto e sperimentazione politica sotto certi aspetti ancora unico. I cambiamenti più significativi, però, avvennero soltanto alla fine degli anni ’90 con l’affermarsi del movimento altermondialista. Anche in questo caso, senza procedere ad un’analisi approfondita su cosa fu quel movimento, vale la pena sottolineare almeno un paio di aspetti comuni al movimento di trent’anni prima. Come per il movimento sorto nel ’68 fu un movimento globale: seppur nelle diversità di contesto storico e talvolta – ma non sempre – di contenuti, entrambi i movimenti proponevano una Weltanschauung alternativa forte e su scala planetaria: la proposizione di un altro mondo possibile. L’altro aspetto, correlato con il primo, è che, a fronte della presenza globale dei movimenti, il Potere fu costretto a reagire in entrambi i casi mobilitando forze repressive e culturali apparentemente sproporzionate e, per l’Italia, Genova 2001 ne fu il caso emblematico. La sproporzione è, appunto, apparente perché tutte le volte che il Potere si trova di fronte ad alternative di sistema che sfidano l’ordine sul terreno della globalità, e cioè, si propongono al conflitto sul medesimo piano dimensionale dell’avversario, il Potere sente di dover fronteggiare una minaccia reale per cui è costretto a reagire con maggior forza a costo di scombinare i suoi piani di gestione ordinaria dei conflitti di più bassa intensità. Questo è un concetto che spesso sottovalutiamo.

Nel periodo 2001 – 2003 ci furono però mutamenti nella gestione del conflitto da parte del Potere, anzi, in un certo senso fu elaborata una vera e propria strategia volta all’elusione del conflitto e, al contempo, di mortificazione della partecipazione. In questo passaggio, come ho sottolineato altrove1 l’evento delle Torri Gemelle fu fondamentale per lo spostamento ancora una volta del terreno sul quale agire il conflitto, in uno spazio difficilmente raggiungibile ai movimenti. In questo contesto come ho sottolineato – e ricordato anche da Marco Bersani durante l’incontro con Transform! – la più grande manifestazione della storia dell’umanità contro la Seconda guerra del Golfo non riuscì a ritardare di un solo minuto lo scoppio della guerra stessa.

A partire da allora l’ultima quindicina d’anni segna una regressione tanto dei movimenti che della Sinistra inframmezzata forse anche da qualche successo, tuttavia esso rimane sempre confinato in limiti di spazio e tempo ben definiti e, soprattutto, non riesce ad invertire un trend di sconfitta generale e progressivo.

Come sottolineato nell’incontro da Monica Di Sisto, la crisi economica scoppiata tra il 2007 e 2008 ha fatto il resto e riveste un’importanza centrale per capire la crisi sia della Sinistra che dei movimenti. Se da un lato il quinquennio del movimento altermondialista si concludeva con la sconfitta del 2003, dall’altro, la Sinistra che potremmo definire antisistemica si è mossa sì sul piano della critica ma non è stata e tutt’ora non è ritenuta credibile sul piano della proposta di un’alternativa. Poiché la crisi del 2007/2008 non fu accidentale ma la certificazione di una crisi strutturale di sistema, e poiché la cronicità della crisi stessa è entrata nelle coscienze delle persone, la perdita di credibilità progettuale della Sinistra rischia di essere altrettanto strutturale in prospettiva storica. Alla fine di questa disamina ci troviamo, quindi, di fronte ad un processo storico che non fa altro che affermare la veridicità dell’assenza di alternative di thatcheriana memoria. Va appena sottolineata la specificità italiana: il perdurare della delusione dell’esperienza del governo Prodi e, non ultima, la delusione attuale e crescente verso le prospettive di cambiamento tradite del M5S, non hanno fatto altro che portare il nostro Paese in una situazione generalizzata di sfiducia che è più consistente rispetto alla quasi totalità degli altri Paesi occidentali. Dobbiamo sottolineare che esiste un denominatore comune in termini di sconfitta tra movimenti e Sinistra politica, tale denominatore si potrebbe riassumere in uno slogan che ben riprende l’attuale sentire comune: un altro mondo è impossibile!

La questione della sfiducia nella possibilità di un’alternativa globale e sistemica ha conseguenze sociali e storiche di notevole impatto che vanno ben al di là della semplice lettura e accettazione di un mondo nel quale sono finite le cosiddette grandi narrazioni. Vale la pena cercare di delineare tali conseguenze sia sui movimenti sociali che nella società in termini globali.

Le conseguenze sui movimenti

Come sottolineato da Marco Bersani nell’incontro, nella realtà, oggi, il numero di persone che, in varie modalità, propongono e agiscono in termini di pratica e ricerca di alternativa non è mai stato così alto: dalla produzione della pasta madre fatta in casa, alla opposizione alla TAV, siamo in presenza di una miriade di pratiche di alternativa che però non si immaginano di fare sistema e concepire se stesse come parte di un disegno più complessivo e globale. In relazione al processo storico che abbiamo delineato precedentemente, le motivazioni appaiono sufficientemente chiare del perché ciò accada ma vale la pensa sottolineare alcuni aspetti importanti. In un lavoro fondamentale per capire le dinamiche dei movimenti antisistemici,2 Wallerstein, Hopkins e Arrighi propongono una distinzione tra classi e gruppi di status mutuata dall’analisi weberiana della società. In particolare ritengono che esista un rapporto ambiguo se non una dicotomia tra classi sociali e gruppi di status che comportano sia un progresso che una regressione rispetto all’analisi di classe marxiana: da un lato sono un progresso perché affiancano la formazione di gruppi di status alla formazione delle classi ma dall’altro sono una regressione, perché restringono i processi, e le forme elementari della struttura sociale che ne risultano, alle comunità politiche esistenti.

La questione dei gruppi di status riveste un’importanza primaria nell’analisi weberiana in merito alla distribuzione del potere ma diventa importante sia ai fini dell’analisi della sconfitta della Sinistra e dei movimenti tanto nell’analisi dell’evoluzione dei movimenti stessi quanto nella ricomposizione identitaria della società in generale, nella quale sembrano prevalere le ricostruzione identitarie di status con riferimenti etnici, nazionali e religiosi. Per quanto riguarda i movimenti la miriade di azioni, anche a carattere collettivo, è frutto di specificità e di gruppi sociali limitati, appunto di gruppi di status che, ad oggi, sembrano davvero restringere i processi o, perlomeno, delineano un quadro nel quale i diversi processi non convergono se non in termini puramente accidentali. La parcellizzazione delle azioni e delle proposte di alternativa, anche quando raggiungono l’obiettivo, apportano risultati quasi sempre confinati in spazi sempre più limitati, secondo la specificità della causa perseguita, e portano a successi di breve durata perché figurano come anomalie del contesto sociale e politico generale, che prosegue lungo altre e incompatibili traiettorie.

La situazione degli ultimi anni non ha fatto altro che peggiorare e rendere le cose ancor più complicate anche per movimenti che non hanno avuto di certo una limitatezza in termini di appoggio e risonanza. La vittoria tradita del referendum sull’acqua pubblica ne è l’esempio più chiaro. La situazione di specificità dei movimenti ha avuto anche altre evoluzioni, come ha ricordato Monica Di Sisto, nella direzione della estrema professionalizzazione degli stessi, spesso impegnati in una attività più lobbistica che di movimento vero e proprio.

La questione però, è per certi versi più drammatica se si rivolge lo sguardo verso il basso, verso coloro che stanno alla base dei movimenti. In un suo saggio di alcuni anni fa dedicato al consumo critico – o usando la corretta definizione degli studiosi di matrice anglosassone al consumerismo politico – Boris Holzer3 fa un’operazione per certi versi analoga a quella sopraccitata nell’ambito dei gruppi di status, cercando nello stesso modo di arricchire le definizioni di appartenenza anche sul piano individuale. Con riferimento alla teoria della differenziazione funzionale di Luhmann sottolinea come l’individuo appartenga contemporaneamente a diverse sfere sociali : politiche, di movimento, economiche, come consumatore, elettore tanto per fare degli esempi. Holzer, però si sofferma in particolare sulla distinzione tra ruoli professionali e ruoli complementari, i primi direttamente collegati, ad esempio ai ruoli specifici dell’imprenditore, del medico o dell’insegnante, potremmo dire quelli definibili nell’alveo della produzione che coesistono nello stesso individuo con i ruoli complementari come ad esempio, appunto, il ruolo del consumatore. Esiste però sempre una possibilità di conflitto tra i ruoli professionali e complementari nella misura in cui la propria professione imponga, ad esempio, comportamenti e azioni lavorative in contrasto etico e politico con i propri ruoli complementari. Holzer indica una soluzione semplice – e allo stesso tempo nefasta – con la quale viene risolta la contraddizione: la privatizzazione delle decisioni nell’ambito dei ruoli complementari. Sebbene il saggio si riferisse in maniera esplicita al consumerismo politico, appare chiaro che la privatizzazione del ruolo complementare – ad esempio di appartenenza ad un movimento o per le scelte etico e politiche individuali – è l’esatto opposto del tentativo di rendere collettiva una qualsiasi pratica; la scelta individuale di alternativa è quindi sostanzialmente neutralizzata dal punto di vista pubblico: ad esempio le stesse scelte di consumo critico sono neutralizzate laddove rimangano confinate alla sfera privata, infatti non risolvono di per sé la contraddizione con la sfera professionale, in particolare, con l’attività produttiva.

Nel contesto attuale, quindi, dovremmo certificare anche all’interno dei movimenti e delle pratiche di alternativa, il successo del motto thatcheriano: su un versante i movimenti si “specializzano” in ambiti e contesti che eludono la questione del cambiamento sociale generale e, dall’altro, nell’impossibilità della realizzazione di un altro mondo; la tendenza alla privatizzazione della propria alternativa individuale o di piccolo gruppo si inserisce anch’essa nel quadro thatcheriano del primato della libertà individuale su quella collettiva.

Le conseguenze globali

Se eliminiamo dall’orizzonte la possibilità di un altro mondo abbiamo però conseguenze per più drammatiche sul piano globale.

Come ho già scritto su Transform!4 alcuni mesi or sono, l’antropologo Arjun Appadurai ci ha fatto giustamente notare che oggi, contemporaneamente, oltre un terzo dell’umanità è governato da personaggi come Salvini, Trump, Putin,  Erdogan, Orban, Duda, Duterte, Modi, o Bolsonaro, per rimanere tra i principali, ma riflette anche sul fatto che ciascuno di questi personaggi, che certamente non amano la democrazia, ha raggiunto il potere per via elettorale. È come se una parte dell’umanità votasse democraticamente per sbarazzarsi della democrazia stessa. Quello che spesso sottovalutiamo, quindi, è l’attacco alla democrazia proveniente non solo dall’alto ma anche dal basso. Come è possibile che ciò avvenga? Quali sono le motivazioni di una tendenza su scala globale nella quale il nostro Paese è forse una tra le manifestazioni politiche peggiori ma sicuramente non l’unica? Quanto abbiamo prima esposto potrebbe dare già una qualche motivazione a tale processo e l’incontro di Transform! non ha certo eluso la questione ma, alla luce di quanto abbiamo sottolineato in precedenza, vanno sottolineati alcuni aspetti peculiari di questo momento storico che lo differenziano dai precedenti e che hanno conseguenze notevoli anche riguardo l’approccio analitico dei fenomeni sociali contemporanei.

L’aspetto più rilevante, come si è detto, è quello del rifiuto della democrazia intesa come migliore sistema di governo da parte di una fetta consistente dell’umanità. È una situazione sotto certi aspetti inedita, impossibile da scollegare dalla crisi della modernità nel suo complesso ma, al contrario di quanto propinato dal pensiero postmoderno, non siamo in presenza di nessun superamento, bensì di una regressione storica. L’impressione è che la modernità e la sua declinazione politica nel concetto di democrazia moderna si collochino in una specifica parentesi nella storia dell’umanità e, in particolare, del capitalismo: si è aperta nel XVIII secolo, è destinata a chiudersi nel XXI. La fine dell’orizzonte di un’alternativa, della speranza nell’altro mondo possibile in termini globali comporta la fine della concezione progressista della storia nella quale il cambiamento politico e sociale era il motore e questa porta già in sé una visione premoderna della società, ma c’è anche altro.

Come avevo già avuto modo di sottolineare, benché l’identità di classe non fosse l’unica possibile e riassuntiva della condizione di appartenenza di gruppi e individui, aveva la specificità e la forza di basarsi, al contrario di altre identità di status, sulla comunanza della situazione materiale di individui e gruppi sociali. Il riferimento a questa comunanza è importante anche in relazione alle attuali difficoltà nel (ri)definire un concetto di classe sociale. Detto questo, lo svuotamento dell’orizzonte delle alternative ha un impatto notevole nella misura in cui esaminiamo gli effetti di dell’attuale situazione storica sulle classi sociali.

Quello che attualmente sfugge a molti (in particolare a coloro che meritoriamente e indispensabilmente, portano avanti un’azione di movimento di stampo mutualistico) è che siamo in presenza della rottura del processo lineare e consequenziale coscienza di classe –> identità di classe –> lotta di classe.

Sebbene il mutualismo sia fondamentale dai tempi di Robert Owen nella costruzione identitaria, oggi la presa di coscienza dell’appartenenza alla classe, in un orizzonte di assenza di possibilità di cambiamento, non comporta necessariamente l’identità di classe, prerequisito alla lotta, quanto, sempre più spesso, al tentativo di fuga dalla classe stessa. Il successo dei gruppi di status, delle alternative di appartenenza su base etnica, nazionale, religiosa o comunque non necessariamente su base materiale, si spiega anche in questo modo. Nell’orizzonte vuoto dell’alternativa, nella cronicizzazione della crisi e dell’emergenza nella quale vince il paradigma della scarsità economica accanto alla scelta individuale del “si salvi chi può”, la ricostituzione di collettività in base a status, non complementari bensì alternativi a quelli di classe, costituisce l’orizzonte nel quale al paradigma della scarsità economica si accompagna la coscienza della conseguente scarsità dei diritti. In tale ambito il gruppo di status agisce in sé e per sé al fine di tutelare gli interessi del gruppo stesso a scapito degli altri. In tal senso la democrazia moderna, con le sue prerogative redistributive, non viene più considerata la migliore forma di governo possibile, anzi, viene osteggiata in quanto potenziale dispersore delle risorse scarse. Viene così certificata l’esigenza di una gestione del sociale che prevede la forzata esclusione di gruppi e individui alla risorse economiche e ai diritti sociali e civili. La guerra tra poveri o il vecchio adagio “mors tua vita mea”, si spiegano in questa prospettiva.

Che fare, ma soprattutto, come?

Se condividiamo anche a grandi linee il quadro di insieme di quanto scritto, possiamo individuare più convergenze che distinguo nella situazione di crisi di movimenti e Sinistra politica. Max Horkheimer definiva l’utopia come la critica di ciò che è e la rappresentazione di ciò che dovrebbe essere. Se esistono anche divergenze nell’ambito della critica tra movimenti e Sinistra il gap maggiore attuale sta nella costruzione di una rappresentazione di ciò che dovrebbe essere all’altezza della critica proposta: se la critica è globale il requisito minimo perché si possa ambire ad una decente credibilità è che anche la proposta sia globale, che si muova sul piano della Weltanschauung e che i progetti, i programmi le scelte e le azioni siano chiaramente frutto e declinazione di una visione complessiva dell’altro mondo da realizzare.

Neppure però la rappresentazione basterebbe, perché si rimarrebbe ancora nell’alveo dell’utopia ma bisogna trovare modalità e prassi che consentano di iniziare il percorso verso la realizzazione concreta di ciò che dovrebbe essere.

In questi termini le difficoltà sono enormi, le possibilità di successo scarse e il periodo storico, forse, il peggiore a disposizione. Se si intende fare politica oggi e, nello specifico, fare una politica che preveda un cambiamento radicale e sistemico della società, un percorso che non preveda una convergenza nella comune costruzione progettuale diventa pressoché impossibile e, a opinione di chi scrive, forse l’unico prima della resa storica.

Da dove partire?

È ovviamente compito del confronto tra tutte parti in campo individuare i punti di partenza verso un percorso di convergenza e a tale scopo credo si possa evidenziare la situazione da cui partono i soggetti stessi per proporre alcuni suggerimenti plausibili.

In primo luogo se ai blocchi di partenza di un eventuale percorso i movimenti appaiono frazionati in una miriade di campagne, azioni e pratiche, dall’altra la Sinistra politica sconta una debolezza senza precedenti perlomeno in Europa. Questa debolezza impone una ricostruzione dalle fondamenta di una soggettività e soprattutto di una progettualità politica nella quale i movimenti potrebbero avere non solo voce in capitolo quanto fungere da parte fondante e centrale nella ricostruzione della Sinistra stessa. Non è una differenza di poco conto: anche perché, a fronte dell’estrema debolezza e delle sconfitte, la Sinistra politica funge ancora da riferimento all’interno di molti spazi istituzionali e, a livello continentale, sembra sempre più cosciente della necessità dell’elaborazione di un progetto comune e condiviso. Al di là di quanto si possa pensare dei pessimi risultati ottenuti, la progettualità sottesa anche alla lista italiana alle ultime europee andava in questa direzione. Entrambi i soggetti però è difficile che possano avere un futuro senza una convergenza progettuale: la socializzazione della politica e la politicizzazione del sociale passano inevitabilmente attraverso questo percorso, perlomeno in questa fase storica.

Certamente ambiti, specificità e identità dei soggetti in campo vanno salvaguardati ma, nell’impossibilità di costruire un movimento dei movimenti, la convergenza dovrebbe ottenersi attraverso un approccio diverso rispetto al passato. La razionalizzazione delle risorse politiche, magari scarse o frammentate, non passa attraverso un mero concetto di rete che, negli anni, ha dimostrato di essere in grado talvolta di costruire nodi ma anche, e direi soprattutto, di lasciare troppi buchi, semmai attraverso la tessitura di un tessuto progettuale comune. In questo caso, la condivisione degli obiettivi non potrebbe prescindere dalla determinazione comune di scale di priorità progettuali e, soprattutto di una continuità di confronto e costruzione che, ad oggi, non avrebbe precedenti. Da tale progettualità non potrebbero in alcun modo essere esclusi l’azione coordinata e gli aspetti comunicativi congiunti su scala tanto locale quanto globale. In questo caso l’utilizzo e la ridefinizione degli spazi europei a tale scopo sarebbe importante: così come la Sinistra europea occupa e opera tanto a livello locale quanto continentale, così le campagne transnazionali come Stop TTIP hanno valenza tanto a livello locale quanto europeo e globale, l’azione di ATTAC si svolge tanto a livello locale quanto transnazionale e anche la campagna Sbilanciamoci!, alla quale va riconosciuta una tanto enorme quanto inutilizzata produzione sul versante dell’altra economia, ha un suo riferimento internazionale ed europeo nella rete degli Economisti sgomenti.

Sarebbe auspicabile che da tale approccio gli elementi rifondanti di un pensiero volto alla costruzione dell’altro mondo possibile, partano dall’elaborazione che già è a disposizione e sottoutilizzata da parte di quei movimenti che hanno continuato la loro opera di azione ed elaborazione anche all’indomani della chiusura del quinquennio altermondialista e che la debolezza della Sinistra attinga a piene mani da quella cultura mettendosi a disposizione con i propri strumenti e con gli spazi che ancora dispone anche in termini istituzionali: per dirla con Juan Carlos Monedero5 il punto non sarebbe quello di unire le lotte con il rischio che una bandiera offuschi le altre e scoraggi certi settori, semmai sincronizzarle, “Cercare conflitti ad alta densità che permettano di avanzare domande (istruzione, sanità, non pagare il debito, reddito minimo, riforme elettorali, processo costituente), accompagnarle, metterle l’una accanto all’altra, tradurle”. È un’operazione difficile allo stato attuale se non una vera e propria Mission Impossible, ma – senza apparenti possibilità di alternative all’orizzonte – va tentata ad ogni livello, perché non basta più semplicemente pensare globalmente e agire localmente: occorre fare anche questo ma bisogna saper riempire anche tutti gli spazi che vanno dal locale al globale. Al momento questo modo appare l’unico possibile per poter pensare di ricostruire una progettualità credibile per attirare e coinvolgere anche quel mondo dell’attivismo che appare sempre più frammentato e disilluso.

La domanda finale e cruciale è comunque: siamo disposti a provarci di nuovo?

1 Marco Noris Le dimensioni dell’alternativa. Spazi e tempi per un altro mondo necessario. – Imprimatur 2017

2 Giovanni Arrighi, Terence h. Hopkins, Immanuel Wallerstein – Antisystemic Movemements – Manifesto libri 1992

3 Boris Holzer – Scelte private e influenza pubblica: i consumatori politici oltre lo specchio del mercato in Consumi e partecipazione politica. Tra azione individuale e partecipazione collettiva – a cura di Simone Tosi – Franco Angeli 2006

4 https://transform-italia.it/sinistra-e-democrazia-il-destino-comune/

5 Juan Carlos Monedero, Corso urgente di politica per gente decente – Feltrinelli – 2015