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Saper scegliere il tempo

di B. Auleta,
S. Ciccone

La terza guerra mondiale a pezzi, evocata da Papa Francesco, è sempre meno una immagine evocativa ma una realtà che avanza ogni giorno con un nuovo orrore, una nuova minaccia, una nuova provocazione, una nuova rappresaglia.

Dopo anni di trattative estenuanti in Europa sul deficit per garantire sanità pubblica o scuola, in poche settimane esplodono le spese per la guerra in Ucraina a oltre 150 miliardi. La NATO chiede un investimento strutturale del 2% del PIL in spese militari. I bond per finanziare la transizione ecologica e la sua sostenibilità sociale hanno impegnato mesi di dibattiti, ma diviene invece normale l’emissione di debito per acquistare armi da bruciare nel pozzo infernale del conflitto russo-ucraino…

E, come pianisti sul Titanic, continuiamo a scivolare sul piano inclinato verso il disastro: le élite europee parlano disinvoltamente di “economia di guerra” e valutano l’invio di truppe europee al fronte contro la Russia. Un confronto tra blocchi politico-militari in cui, da due anni, si riversano miliardi in armi sulla pelle delle popolazioni civili senza alcun risultato politico. Oggi vediamo più limpidamente come la guerra abbia agito e muti profondamente l’assetto politico e istituzionale dell’Europa e gli orientamenti consolidati delle sue famiglie politiche. All’europeismo (pur ridotto a richiamo retorico che assumeva più i vincoli di bilancio che gli obiettivi di coesione sociale) si è repentinamente sostituito un atlantismo che è la negazione del ruolo e di un modello sociale autonomo dell’Europa.

La rappresentazione paranoica complottista dei populismi di destra si è impadronita dell’establishment che è passato, senza soluzione di continuità, dalla fiducia nella spinta espansiva della globalizzazione neoliberista all’angoscia aggressiva di un Occidente assediato da nemici irrazionali, barbari e minacciosi. In questa rappresentazione, la guerra diventa l’unica opzione possibile, anzi la guerra andrebbe riconosciuta come una realtà già in corso a cui allinearsi.

Ma anche i gruppi dirigenti delle forze della sinistra non sembrano cogliere la drammaticità e l’urgenza della situazione. La guerra continua ad essere “un tema” tra gli altri e stenta a essere percepita come il nuovo dispositivo che ristruttura poteri, ridefinisce identità politiche, sfigura le nostre democrazie. E non si leva, in Europa, una mobilitazione adeguata alla drammaticità della crisi, né emerge un’alternativa politica credibile.

Le elezioni europee potrebbero rappresentare l’occasione per rendere visibile oggi,e aggregare domani nell’Europarlamento, un’alternativa politica, economica e di civiltà.

Oggi le famiglie europee appaiono incapaci di prospettare un’alternativa, sono in crisi, attraversate da fratture radicali. Per questo servirebbe un di più di soggettività in una proposta politica italiana da far vivere nelle elezioni. Non per far discendere la propria identità dal gruppo in cui ci si collocherà, ma per costruire una proposta che faccia avanzare anche la discussione in corso nelle diverse sinistre e nelle forze ecologiste e antiliberiste europee.

È indubbio che il Parlamento europeo conti sempre meno, in un’Europa che conta sempre meno e, più in generale, in un contesto di svuotamento delle istituzioni democratiche e di fuga dal voto, non più solo delle fasce popolari della società, ma proprio la rivendicazione di un nuovo ruolo democratico del Parlamento contro l’Europa del governo tecnocratico e delle mediazioni intergovernative sarebbe una risposta all’Europa delle piccole patrie.

Le elezioni europee sembrano invece ridotte a un grande sondaggio, in vista delle politiche. Le varie liste inseguono candidature, spesso apprezzabili, in una competizione che assomiglia al fantacalcio. Le candidature paiono surrogare un vuoto di proposta politica, vengono utilizzate per evocare la visione che manca e vengono macinate in una competizione che rischia di sprecarle. Già in passato abbiamo visto come affidarsi alla personalizzazione si sia rivelato fragile quando non controproducente. La costruzione di un’alternativa non si risolve nei passaggi elettorali, la frattura tra società civile e politica, tra cultura e politica, tra pratiche sociali e rappresentanza istituzionale, tra soggetti organizzati e sofferenza sociale non si risolve con una proposta elettorale, per quanto credibile, larga, unitaria, percepita come utile e coerente. Per ricostruire una sinistra non residuale, innovativa, radicata nella società e in grado di rappresentare una proposta alternativa non basta la mera “unità” dell’esistente.

In Europa, in questo decennio, abbiamo assistito a differenti sperimentazioni che, con alterne fortune e diversi gradi di consapevolezza e definizione, tentavano di far uscire la costruzione di un’alternativa dalla condizione minoritaria di “articolazione” del quadro politico. Provavano a mettere in relazione sinistra sociale e politica ed esperienze sociali che non erano immediatamente riconducibili a queste. Anche in Italia ci sono stati tentativi, falliti, di aggregazione di una realtà politica, sociale e culturale che esiste, ma che non riesce a produrre una propria rappresentanza e non aggrega una soggettività plurale ma coerente. Ci sono anche soggetti politici che, generosamente, hanno rinunciato alla propria identità per aggregare qualcosa che avesse l’ambizione di rappresentare una sinistra politica non marginale: un’impresa certo complessa ma necessaria.

Ci si accontenta del piccolo cabotaggio. Ma il povero Caboto, navigando vicino la costa, riuscì nell’obiettivo di doppiare il Capo di Buona Speranza. Qui l’obiettivo comune pare essere riuscire a superare il 4%. Obiettivo che potrebbe, per tutte le forze di sinistra ambientaliste e per la pace, essere molto difficile se si presentassero in competizione. Forse bisognerebbe avere il coraggio, e la generosità, di osare di più: di partire da quello che si è costruito e metterlo a disposizione di un processo che deve necessariamente essere più ampio quantitativamente e qualitativamente. Nessuno può illudersi di perseguire la propria autosufficienza.

L’eventuale raggiungimento dell’obiettivo della raccolta delle firme necessarie da parte dei promotori e delle promotrici della lista “Pace Terra e Dignità” può essere la notizia che chiude ogni confronto e fa apparire velleitario questo appello alla ragione ma potrebbe indurre a riconsiderare l’opportunità di costruire un’unica proposta unitaria, capace di prefigurare un’altra idea di Europa e di riaprire uno spazio di interlocuzione e ricerca comune, in un mondo plurale e frammentato. Non solo per scongiurare l’esclusione dal Parlamento europeo, che pregiudicherebbe anche la credibilità in futuro di una qualsiasi proposta politica a sinistra, ma per avviare la costruzione di una soggettività, una proposta e una relazione con la società all’altezza della sfida, davvero drammatica, che evochiamo nei convegni e che sembriamo ignorare nella nostra pratica quotidiana.

Affrontare questa discussione mesi fa avrebbe permesso di svolgere un percorso di confronto aperto, partecipato, nel merito e non di ridurre una possibile, e auspicabile, soluzione unitaria ad un accordo costretto dalle condizioni tra contraenti reciprocamente diffidenti.

Come diceva Guccini “Bisogna saper scegliere il tempo, non arrivarci per contrarietà”. Siamo in ritardo ma, paradossalmente, oggi potrebbe essere più realistico riaprire un confronto che qualche mese fa, in molti, pensavano di poter rimuovere.

Barbara Auleta, Stefano Ciccone – Direzione Nazionale di Sinistra Italiana

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