La costruzione di una cultura e di un movimento politico rossoverde sarebbe l’unica ragionevole risposta all’Appello pubblicato su transform, perché esso potrebbe avere le capacità di rispondere alle crisi che segnano il nostro tempo, e che ben possiamo dire ‘epocali’: un intreccio di disastri ambientali, sconvolgimenti dei cicli naturali, conflitti armati e cambio di paradigma delle produzioni, segno della complessità con cui commisurarsi.
Le risorse energetiche, le materie prime e le tecnologie – gas, petrolio, litio, cobalto, semiconduttori, per ricordarne solo alcune – sono utilizzate da parte dei grandi attori dell’odierno capitalismo globalizzato per la preservazione e l’ampliamento dei grandi spazi economici. USA, Unione Europea, Cina, India, Russia sono i principali protagonisti di questa aspra competizione, che sfocia in confitti armati e in vere e proprie guerre e i cui scopi sono la preservazione o la conquista del dominio delle rispettive imprese sui mercati mondiali e la primazia del proprio modello di governance. Ho fatto questi riferimenti perché il rossoverde può essere non solo leva del cambiamento delle produzioni e dei rapporti sociali, ma anche la base per dare nuova vita al movimento pacifista. Se non si afferrano i nessi tra processi di innovazione capitalistica e conflitti militari, sarà difficile che prenda consistenza un movimento capace di contrastare le guerre e l’uso dello ‘strumento militare’ per affermare egemonie politiche in grado da assicurare il flusso delle materie prime necessarie per le nuove tecnologie produttive.
L’Unione Europea è una plastica raffigurazione delle dinamiche che ho richiamato: l’esercizio di una propria sovranità sullo scenario mondiale, il consolidamento delle relazioni con la NATO, la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, il libero accesso alle risorse minerarie, l’indipendenza tecnologica sono strettamente legati perché si possa realizzare la duplice transizione ‘verde’ e digitale. Un dato va ben colto: le classi dirigenti dei sistemi capitalistici, differenti per conformazione istituzionale (dalle democrazie cd rappresentative, alle democrazie ‘illiberali’, ai regimi autoritari), hanno chiaro che il vecchio paradigma produttivo della crescita materiale illimitata sta portando il pianeta alla distruzione, e per questo stanno guidando un cambiamento di paradigma produttivo e di consumo, che vorrebbero caratterizzato da fonti energetiche non fossili, dalla digitalizzazione con la generalizzazione dell’Internet delle cose, e dall’economia circolare.
Le classi dirigenti capitalistiche, sia industriali sia finanziarie, hanno intrapreso una strategia di contenimento della distruzione ambientale, che comporterebbe anche la loro distruzione, scegliendo di accelerare quando non di guidare i processi di innovazione. Oggi, infatti, non è più solo il tempo della strategia del cap and trade system, quello degli ETS, in cui i governi stabiliscono il livello complessivo di inquinamento da CO2 lasciando al mercato la compravendita delle quote in modo che siano sempre le imprese a decidere cosa e come produrre, con il risultato che l’inquinamento atmosferico lungi dal calare aumenta. Oggi le istituzioni politiche, nazionali e transnazionali, come nel caso dell’UE, guidano la duplice transizione finanziando direttamente progetti, si pensi ai semiconduttori, o spingendo affinché la grande finanza sostenga i progetti di innovazione produttiva, si pensi ai veicoli elettrici o alle energie rinnovabili. Certo come si dice nell’Appello questo avviene con pesanti contraddizioni perché differenti sono gli interessi tra gli Stati e tra le imprese, come dimostra la cosiddetta ‘tassonomia verde’ per la finanza predisposta dall’UE, o le (non)conclusioni della COP 26. Per esempio, a Glasgow si sono riproposti trasversalmente, oltre ai conflitti tra grandi potenze e/o aree economiche, anche quelli tra imprese. Caso esemplare di quest’ultimo conflitto è la transizione verso la mobilità elettrica. Costruttori quali Volkswagen, Toyota, Stellantis, BMW, Renault, Nissan, Honda e Hyundai/Kia, e paesi quali USA, Cina, Germania, Francia, Italia non hanno firmata la Declaration on Accelerating the Transition to 100% Zero Emission Cars and Vans, per mettere fine alla produzione di auto con motore termico entro il 2035, perché preferiscono un approccio basato sulla neutralità tecnologica, in quanto vogliono riservare alle imprese la scelta delle tecnologie, senza privilegiare i veicoli elettrici e senza escludere soluzioni come il motore a combustione con benzina sintetica. Nella ‘tassonomia verde’ dell’UE sono presenti metano e nucleare a dimostrazione che la transizione verso l’approvvigionamento da fonti non fossili non è guidato dai principi della salvaguardia del pianeta, ma dalla necessità di ammortizzare, mediante adeguati flussi di cassa, gli ingenti investimenti in quelle due fonti, senza poi abbandonare il sogno prometeico di giungere a ‘imitare il Sole’ con la fusione nucleare. Che i sistemi capitalistici siano guidati dal profitto non è certo una novità, colpisce che la sopravvivenza del pianeta sia legata a un parametro, il profitto, che non tiene conto, se non come effetto collaterale, della necessità improcrastinabile di preservare la Terra ricostruendo i cicli naturali – le innovazione comprendono il nucleare con le sue scorie, l’immagazzinamento del carbonio, e hanno bisogno di enormi quantità di materie prime come il litio e le terre rare. Queste considerazioni, che mettono in risalto le convulsioni delle classi dirigenti capitalistiche, non devono farci sottovalutare il loro dinamismo e la loro determinazione nel guidare la trasformazione del paradigma produttivo e di consumo, per giungere a nuovi equilibri tra le classi e per contenere la crisi ambientale. Affermare che i progetti delle le classi dirigenti sono solo dei ‘bla bla bla’, come fa Greta Thurnberg, significa sottovalutare la loro capacità egemonica anche in questa drammatica fase della storia dell’umanità. Le classi dirigenti capitalistiche stanno consapevolmente guidando un ‘processo di distruzione creativa’.
Perché far presente il dinamismo della classi dirigenti capitalistiche? Perché l’avversario con cui ci commisuriamo è in grado di innescare o incentivare processi che ‘utilizzano’ le crisi in cui incorrono i sistemi capitalistici per avviare nuovi cicli di crescita raccogliendo anche istanze progressiste. La vicenda del welfare State è stata in un certo senso analoga: le classi popolari, quelle lavoratrici in primo luogo, chiedevano la demercificazione di beni fondamentali – salute, previdenza, istruzione,… –, e le classi dirigenti sono addivenute al ‘compromesso keynesiano’, che lungi dal mettere in crisi il sistema, ha dato una poderosa spinta verso la produzione e il consumo di massa. E sul paradigma fordista-keynesiano si sono adagiate le forze politiche e sindacali del movimento operaio, con l’affermarsi dell’ideologia riformista, si chiamasse socialista o comunista. Il riformismo non ha trasformato il capitalismo, questo ha trasformato la ‘sinistra’.
Il nostro tempo sta conoscendo un fenomeno analogo: le classi dirigenti cercano di garantire l’esistenza dei sistemi capitalistici ricorrendo ai suoi meccanismi-chiave, mercato e impresa, per attuare la duplice transizione ‘verde’ e digitale, e i gruppi dirigenti di organizzazioni politiche e associative ‘verdi’ affiancano le imprese e il mercato per risolvere le crisi ambientali. Le forze di orientamento comunista, lungi dallo svegliarsi dal ‘sonno dogmatico’, pensano che la loro onnicomprensiva ideologia sia in grado di rispondere a ogni istanza, da quelle ambientaliste a quelle femministe e pacifiste. Effetto di tutto ciò è una situazione in cui i ‘verdi’ sono parte integrante della strategia di innovazione capitalistica, mentre i comunisti ripropongono schemi interpretativi e linee politiche obsolete.
Ci sono state più occasioni e molteplici movimenti in grado di avviare un processo di rinnovamento della sinistra, ogni volta però si è fallito. Ricordo, a mo’ di esemplificazione, le lotte degli studenti e degli operai del’68 -’69, i dirompenti movimenti femministi, i referendum antinucleari, il crollo dei regimi dell’Est, le mobilitazioni dei social forum contro la globalizzazione e contro le guerre: tutte vicende che avrebbero potuto dar vita a duraturi movimenti politici di massa, cioè capaci di coinvolgere milioni di persone, e invece la miopia politica e il dogmatismo ideologico hanno sempre bloccato queste dinamiche di rottura della duplice egemonia delle classi capitalistiche e della ‘sinistra’ tradizionale, da tempo neppure più riformista.
Il rossoverde – un progetto culturale, prima ancora che politico – non può essere una sommatoria di colori, non si tratta di assemblare ciò che esiste (sia come organizzazioni sia come ideologie), occorre crearlo, inventarlo. Questo è un processo di lunga lena perché si tratta di elaborare schemi di interpretazione adeguati alla realtà, economica sociale e istituzionale, e una nuova gerarchia di valori, e questo nel vivo e all’interno dei conflitti. Si tratta di dar vita a forme di ragione pubblica con i metodi della democrazia partecipativa e deliberativa, non di calare dall’alto un progetto. Il lavoro è lungo, difficile, esigente culturalmente ed eticamente, ma vale lo sforzo almeno di avviarlo.
Franco Russo