Articolo già pubblicato nel gennaio 2020 –
L’anno nuovo ci porterà probabilmente il referendum confermativo sulla riduzione dei parlamentari. All’interno della sinistra tradizionalmente “parlamentarista” non tutti però paiono contenti. C’è chi teme l’ennesima battaglia persa contro un’opinione pubblica in blocco schierata per il taglio dopo decenni di predicazione anticasta. C’è chi avrebbe preferito un’azione mirata all’ottenimento di una legge elettorale interamente proporzionale, che almeno modificasse le condizioni in cui si svolge la vita politica. C’è chi insiste sulle “vere” ragioni che hanno portato questi o quei senatori ad apporre la firma alla richiesta di referendum. Pur consapevole della difficoltà di un esito positivo, io ritengo invece che a sinistra ci si debba impegnare per il referendum con tutto l’entusiasmo di cui siamo capaci. Perché può essere l’occasione di rilanciare presso l’opinione pubblica proprio quei nodi tematici fondamentali come la rappresentanza e la cittadinanza sui quali la sinistra è stata sconfitta nel recente passato. La rinuncia a comunicare le nostre istanze a quello che in ogni caso resta pur sempre “il popolo” sancirebbe definitivamente la nostra natura di fiori di serra, e quindi la nostra totale resa all’antipolitica e alla sconfitta.
Certamente, la crisi della politica di massa e la sconfitta della sinistra non sono affatto limitate all’Italia, in quanto sono parte di processi globali di natura economica, sociale e politica di lungo periodo, che imperversano dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso. Ma nel quadro generale ogni paese ha le sue specificità. Quelle italiane derivano dall’arroccamento della politica e dei partiti negli anni pre-Tangentopoli, dalla fine traumatica di un sistema politico egemonizzata dall’impostazione neoliberale che si andava affermando globalmente, e che da noi ha esasperato l’opposizione tra “politica” e “società (civile)”, dalla nascita e rapida affermazione, anche nel mainstream, delle retoriche e delle pratiche del populismo di destra, dalla torsione maggioritaria nel sistema elettorale (peraltro senza nemmeno tentare di avvicinarsi al radicamento dei parlamentari nei territori, come è scontato ad esempio nel Regno Unito) che doveva servire soprattutto al disciplinamento della sinistra (ricordate gli esponenti di Confindustria candidati da questa parte?), dalla trasformazione del maggior partito di sinistra in un partito programmaticamente ed essenzialmente votato alla gestione dell’esistente, ovvero alla promozione di quelle riforme che sono volute dalle forze dominanti o che hanno il loro beneplacito. Attualmente in Italia il sistema politico richiede innanzitutto acquiescenza, mentre il sistema mediatico presidia i confini del discorso pubblico, stabilendo cosa va messo all’ordine del giorno e in che termini. L’unica “opposizione” di fatto presa sul serio è quella articolata dal populismo di destra; ogni altra istanza fatica a trovare ascolto. Le mobilitazioni vanno bene purché le parole d’ordine siano generiche o improntate ai buoni sentimenti; del resto, anche a voler essere meno generici o sentimentali, è comunque difficile portare avanti alcunché, se non con una silenziosa, determinata e mirata attività di lobby.
In queste circostanze, è il concetto stesso di rappresentanza a essersi sfilacciato sino ad apparire logoro o inservibile. Da un lato c’è quel che presumibilmente “il popolo” vuole (perlopiù in termini di meno immigrazione, più ordine, sicurezza e decoro, meno tasse o spesa pubblica, nonché l’“uomo forte al potere”) e che va recuperato il più possibile dalla politica mainstream “altrimenti vince la destra”. Dall’altro lato c’è il vuoto. Null’altro sembra che meriti di essere perseguito fino in fondo alla luce del sole; qualsiasi altra rivendicazione appare parziale, irrealistica, o comunque poco interessante. I politici esistono sostanzialmente in funzione del leader di riferimento e delle sue priorità. Rappresentanti di chi? E se i parlamentari altro non sono che “gli uomini o le donne” di questo o quel leader (il genere del leader in quanto aspirante “uomo forte al potere” non può che essere maschile), è di conseguenza ragionevole ridurne il numero: si suppone che almeno siano più visibili, più controllabili (sicuramente dal leader, si spera anche da noi) e meno propensi alle malefatte, che lavorino necessariamente di più e si sudino quindi lo stipendio come tutti quanti noi; se si riesce poi a risparmiare qualcosa con la loro riduzione, tanto di guadagnato. Il fatto che i parlamentari verranno eletti in collegi elettorali più ampi, e che debbano quindi possedere notevoli mezzi economici in proprio, o godere del favore del leader o delle segreterie dei partiti per fare campagna elettorale con qualche possibilità di successo, non ha importanza: la politica non è forse di per sé così? Ciò che viene prospettato per il futuro non può essere diverso da quello che abbiamo nel presente: a rappresentarci saranno i soliti ricchi, i soliti noti, la Casta, insomma, più qualche miracolato di una piattaforma elettronica.
Resta da vedere se è questa la politica che vogliamo noi, o che davvero vuole “la gente”. Se si vuole davvero costituzionalizzare una visione castale della politica che è innanzitutto il prodotto di una crisi. Peraltro, andando a colpire proprio la rappresentanza e lasciando invariati i cosiddetti “privilegi”: gli stipendi dei parlamentari non vengono toccati e probabilmente restano tra i più alti di Europa; viceversa con la riforma l’Italia è diventata senz’altro il paese UE con il minor numero di deputati in rapporto alla popolazione.
Questo taglio dei parlamentari, che tra l’altro creerà soglie implicite al Senato dal 10% in su, opererà un’ulteriore distorsione della rappresentanza, a cui difficilmente potrà ovviare una legge elettorale proporzionale. Ammesso che si riesca ad ottenerla: com’è noto, resta aperta la questione del referendum voluto dalla Lega per introdurre un sistema elettorale interamente maggioritario, anche se la stessa Lega, in realtà, potrebbe tornare sui suoi passi e sostenere un sistema proporzionale. In ogni caso, nel gran mercato delle vacche che si aprirà sulla legge elettorale, a contare sarà, come si vede, unicamente l’interesse immediato dei partiti, non certo il principio di rappresentanza. E invece è proprio dalla rappresentanza che occorre ripartire.
I rappresentanti devono rappresentare. Certamente, come è scritto nell’articolo 67 della Costituzione e com’è giusto, i parlamentari rappresentano anche chi non ha votato per loro, e hanno solo il vincolo della responsabilità politica. Ma di chi entra in Parlamento si deve poter dire “è una, è uno di noi”, con il “noi” ovviamente declinato in mille e più modi. Le nostre società sono diventate più complesse e articolate di un tempo. Una risposta è quella indicata dalla Commissione Trilaterale nel 1975 e seguita in Italia dalle élite più attive nel revisionismo costituzionale: privilegiare la governabilità, rafforzare l’esecutivo, ridurre la complessità, togliere peso alle voci potenzialmente critiche o ostili, quindi indebolire la rappresentanza. Oppure è l’approccio populista, che riduce anch’esso la complessità forgiando un “popolo” perbene in contrapposizione a qualcuno permale. Siccome c’è sempre un capo che pensa a tutto e sa cosa vuole il popolo perbene, l’idea stessa di rappresentanza viene sminuita e ridimensionata. L’alternativa invece è recuperarla, dar voce a chi non l’ha mai avuta o a chi l’ha persa, integrare le soggettività, ricostruire una politica di massa e una democrazia per il nuovo secolo, anche in una prospettiva transnazionale. Da molti anni ormai si invoca la democratizzazione dell’Unione Europea. È certo che non si potrà muovere alcun passo in questo senso senza una riflessione sulla rappresentanza. Il taglio lineare dei parlamentari va chiaramente in direzione contraria.
Non c’è solo la riduzione dei parlamentari a testimoniare l’erosione del principio di rappresentanza nell’Italia contemporanea. Ci siamo mai chiesti la ragione per cui, al di là di promesse e belle parole agitate come zuccherini, non si riesce ancora a promulgare una legge sulla cittadinanza in linea con quella dei paesi comparabili con il nostro? In fondo, perché affannarsi ad allargare la platea dei cittadini, quando appunto la rappresentanza non conta più di tanto, perché incoraggiare pretese in persone che sono tollerate qui per far cose a costi ridotti (inclusi i costi politici)? Perché impegnarsi per automatismi come lo ius soli / ius culturæ, quando ci si può sempre appellare alla “cittadinanza a chi la merita”, che fa tanto moderno?
Ancora, si pensi a tutte quelle occasioni in cui il diritto di voto, pur previsto, è negato o ostacolato. Per dire, l’Italia non ha ratificato il capitolo C della Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello localedel Consiglio d’Europa, che prevede il diritto di voto dei cittadini stranieri alle elezioni locali dopo cinque anni di residenza nel paese. La ragione della mancata ratifica è stata la necessità di apportare una modifica alla Costituzione per consentire il voto locale a chi non ha diritto di votare alle elezioni nazionali. Dalla ratifica dei capitoli A e B nel lontano 1994 si sono susseguite diverse proposte di “riforme” di vari articoli della Costituzione, ma non sorprende che non sia mai stata menzionata la necessità di onorare la Convenzione. L’Italia ha comunque ratificato i capitoli A e B, l’ultimo dei quali prevede l’istituzione di organismi consultivi per la rappresentanza degli stranieri a livello locale. Nei comuni queste consulte ci sono e funzionano a macchia di leopardo, alcune sono elettive, altre nominate. In ogni caso, queste forme di partecipazione si sono parecchio svuotate nel corso degli anni. A Milano, che pure negli ultimi anni si è profilata come città in prima fila contro il razzismo istituzionale, e in cui il 19% dei residenti non ha la cittadinanza italiana, i cittadini stranieri non hanno attualmente nessuna forma di rappresentanza. Quanto ai cittadini “comunitari”, che per il diritto europeo hanno il diritto di voto alle elezioni locali e alle elezioni europee, non basta in Italia che si iscrivano all’anagrafe per poter automaticamente esercitare il loro diritto di voto, come ad esempio in Germania, ma devono ulteriormente iscriversi a un’apposita lista elettorale aggiunta.
In Italia non è inconsueta la riduzione di determinati diritti accompagnata dall’applauso populista perché ritenuta diretta contro particolari gruppi di gente potenzialmente permale o comunque estranea al “popolo”, mentre il mainstream ha buon gioco nel liquidare ogni possibile critica con il pretesto della futilità o della dannosità di opporsi a misure “popolari”. I migranti sono state le vittime più ovvie di questo approccio, e non è sempre evidente, come ad esempio a proposito dei “Decreti Sicurezza”, che anche i “cittadini” ci rimettono. Nel caso dei diritti di cittadinanza e di rappresentanza, il vento fa il suo giro: essi vengono dapprima negati ai migranti nell’indifferenza generale, con il taglio dei parlamentari vengono ridotti anche ai cittadini italiani nel silenzio generale. Mentre si crede che questo servirà a contenere un gruppo di gente potenzialmente permale, parte dell’élite è intanto ben felice di questa ulteriore semplificazione del sistema politico, che rende quest’ultimo più ricettivo nei confronti dei propri interessi.
Per questo l’anno nuovo deve vedere il rilancio del principio di rappresentanza e dei diritti di cittadinanza, per tutti, italiani e non, e a tutti i livelli, dal locale all’europeo. Certamente non è una battaglia solo per la sinistra, ma è importante che la sinistra ci sia. Impegniamoci per il no al referendum sulla riduzione dei parlamentari, per lo ius soli / ius culturæ, per la rappresentanza comunale degli stranieri, almeno prima di ottenere la ratifica del Capitolo C della Convenzione di Strasburgo, almeno prima di ottenere la cittadinanza europea di residenza. Tutto si tiene. Il raggiungimento di un obiettivo faciliterà il raggiungimento degli altri; la sconfitta di uno comporterà la sconfitta o l’arresto anche sugli altri.