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Riemerge il movimento

di Stefano
Galieni

Quello che in molte/i non pensavano di poter rivedere è riemerso, improvvisamente in poche ore. Un movimento contro la guerra ancora confuso, articolato e disorientato, come è del resto lo scenario internazionale, è riemerso da un silenzio lungo almeno 18 anni e potrebbe in maniera liberatoria, tornare sabato a riempire una piazza. Alcuni segnali erano giunti già nelle prime ore successive all’ingresso delle truppe russe in Donbass. Il contesto non era e non è semplice da decifrare: da una parte il riconoscimento da parte della Russia di Putin, di due repubbliche in territorio ucraino la cui popolazione, a maggioranza russofona, chiede l’annessione a Mosca, dall’altra l’espansione verso est portata avanti dopo il crollo dell’Urss, da parte della NATO e che ha prefigurato l’ingresso in questa alleanza militare anche di Kiev. La scelta di Putin, di avviare operazioni militari, prima nelle due repubbliche e poi in gran parte del territorio ucraino, ha modificato radicalmente il quadro. Si tratta di una guerra di invasione o, forse, di una cruenta partita a poker in cui le fiches sono civili e militari dell’una e dell’altra parte. Potrebbe divenire un’altra delle tante guerre infinite che attraversano il XXI secolo oppure portare ad una revisione, stabile, dell’area caucasica. I fatti di queste ore lasciano solo presagire un inasprimento del conflitto in cui, come in ogni guerra, è impossibile distinguere propaganda e verità.

La profonda differenza col passato è nella complessità del conflitto, nell’impossibilità di trovare, per ora, una soluzione, tenendo conto del fatto che a confrontarsi sono l’Alleanza Atlantica e la Grande Russia e il conflitto non ha le caratteristiche di asimmetria del passato. Basti pensare ai bombardamenti NATO in Serbia. Le motivazioni addotte affermavano che tale azione era necessaria a fermare il massacri di civili in Kosovo. Ma la sanguinaria dissoluzione della federazione Jugoslava, che si concludeva con quei bombardamenti, portò migliaia e migliaia di pacifisti a sdraiarsi sui binari per fermare i treni carichi di bombe, a manifestare sotto le basi da cui partivano i bombardieri, divenne base per la costruzione di un ragionamento contro le guerre in cui, senza certo difendere Milosevic, si condannava la violenza e lo strapotere della NATO. Le manifestazioni post 11 settembre, vedevano infatti come avversario un’entità diabolica e poco definibile come il terrorismo. Questo al di là del fatto che si sia tentato – sbagliando – di personificare il nemico. L’invasione dell’Afghanistan, risoltasi dopo venti anni in un disastro totale soprattutto per la popolazione afghana, venne propagandata come missione di giustizia e di ripristino di una inesistente democrazia, del rispetto dei diritti umani, della libertà delle donne. Ma il conflitto si svolgeva lontano e l’Europa, come gli Usa, rischiavano al massimo qualche attentato con cui rinsaldare le proprie fila e aumentare gli investimenti militari, nulla di più. L’invasione dell’Iraq di 3 anni dopo, fu un’altra colossale menzogna occidentale. Le provette che dimostravano l’esistenza di armi di distruzione di massa nelle mani di un feroce dittatore, vennero utilizzate come pretesto per mire molto più complesse dal punto di vista geopolitico. La reazione, è il caso di dirlo, popolare, dell’opinione pubblica mondiale, fu sorprendente. Pochissimi quelli che scesero in piazza per difendere Saddam Hussein, molte e molti coloro che protestarono contro una guerra impari e crudele, come sono tutte le guerre, di invasione di un territorio. Gli Stati Uniti, come forse solo ai tempi del Vietnam era accaduto, divennero il nemico principale, la potenza che schiaccia i popoli. Chi resisteva, anche se non perché schierato con Saddam, veniva definito insurgent, non terrorista, un quasi equivalente di partigiano con cui solidarizzare. Quello che emerse dei comportamenti delle truppe occupanti, (cfr Abu Ghraib) e che era nulla rispetto a quanto anni dopo avrebbe rivelato Julian Assange con wikileaks, ( lavoro di giornalista per cui rischia, se estradato in Usa una condanna di 175 anni) produsse indignazione e solidarietà diffusa. In tante/i andarono in Iraq a portare aiuto alle popolazioni civili, a salvare da morte certa persone ferite, a mostrare con la propria presenza il rifiuto della presenza militare occidentale. Vero è che, almeno in Italia, c’erano ancora organizzazioni di massa sociali, laiche e cattoliche, forze politiche, un tessuto di relazioni, in parte coincidente con quello che si era mobilitato contro il G8 a Genova, autorevoli e capaci di porre richieste inequivocabili, prima fra tutti il rispetto – di fatto mai realizzato pienamente – dell’art 11 della Costituzione. In fondo si trattava di conflitti “semplici” da decifrare, era chiaro a tutti che il conflitto non si combatteva per  esautorare un dittatore ed “esportare democrazia” ma per ragioni legate all’approvvigionamento energetico e al ruolo strategico dell’Iraq nell’area. Quello che si espresse in 110 piazze in tutto il pianeta che venne ribattezzato, con troppo ottimismo, “la seconda potenza mondiale” era un movimento per la pace variegato nelle sue componenti e ragioni ma che interpretava un sentire comune estremamente diffuso. Il primo dato incontrovertibile è che quell’immensa marea umana, nonostante la sua immensa potenzialità, venne sconfitta. La guerra proseguì con maggiore atrocità ignorandone le ragioni e le denunce. Una ferita da cui molti non si sono più ripresi. Gli anni che sono seguiti non hanno più visto riemergere un movimento di massa contro la guerra anche se le occasioni non sono mancate. Le vicende in Libia del 2011, il contemporaneo scoppio della guerra civile in Siria (15 marzo), quanto accaduto e continua ad accadere negli anni in paesi vicini come la Turchia, non hanno portato a mobilitazioni degne di questo nome.

Diverse le ragioni. Intanto – e la fragilità anche di quanto sta emergendo in questi giorni ne è la prova – sembra che elaborare una critica radicale tanto ad un invasore quanto ad una politica occidentale di riarmo e allargamento non sia considerata possibile. I principali quotidiani mainstream, con editoriali che fanno vergognare, considerano chiunque non indossi l’elmetto contro il cattivo Putin, con cui fino a ieri facevano lucrosi affari, come un traditore della patria. Si usa con una immonda ipocrisia il dramma dei civili uccisi, dei profughi in cerca di salvezza, come strumento per rimuovere i danni provocati da nazionalismi ed espansionismi. Si mettono in un solo calderone movimenti rosso bruni, sinistra radicale, financo l’Anpi e la Cgil indicandoli quasi fossero quinte colonne. Porta fastidio l’esposizione in parlamento della bandiera della pace, creano disagio malcelato persino le parole di Bergoglio che ad oggi, insieme al presidente Xi Jinping (terribile doverlo dire) sembrano gli unici ad aver conservato il ruolo di statisti. Come se fosse  partita una chiamata di arruolamento con cui si parla, senza avere il senso della misura, di guerra nucleare, di golpe da attuare contro Putin, disegnando scenari altrettanto grotteschi quanto quelli prospettati dal presidente russo. Sembra addirittura che ogni sforzo fatto per imporre la fine delle ostilità e il tentativo di aprire un negoziato sia considerato, anche da buona parte delle istituzioni, come un implicito atto di consenso a Mosca. Si utilizzano le sanzioni, che da sempre colpiscono i popoli non certo gli autocrati, con una facilità e una spensieratezza tali da far pensare che sia del tutto assente, in chi le promuove, qualsiasi senso della misura. Si decide, per “portare la pace” di inviare armi, armi e poi armi. E non lo fanno soltanto i guerrafondai storici o i presidenti dei consigli di amministrazione delle aziende che esportano prodotti bellici, lo fanno anche sedicenti progressisti. Si criminalizzano i pacifisti che mettono in dubbio alcune scelte strategiche occidentali, con la stessa virulenza con cui si è criminalizzata la solidarietà verso i migranti. I pacifisti sono le Ong del 2022.

Ma questo può accadere, non solo in Italia e nonostante non si sia ancora usciti dalla pandemia, per ragioni su cui non si vuole intervenire. I governi sono divenuti, non solo in Italia, veri e propri consigli di amministrazione di aziende che debbono uscire dalla crisi, non solo esportando armi ma anche facendo risalire i propri profitti attraverso i costi reali che porterà questo conflitto. Aumenta già il costo dell’approvvigionamento energetico, del grano, in una spirale in cui gli aumenti dovuti alla crisi militare non corrisponderanno che in minima parte a quello che troveremo al dettaglio. Si chiama ripresa, e anche la ripresa ha bisogno della guerra.

Un altro elemento di follia ipocrita sta emergendo in seguito alla crisi umanitaria che si sta determinando in Ucraina. Giustamente in tante e tanti fuggiranno dal Paese, lo stanno già facendo e l’Europa, per la prima volta, ha predisposto piani per l’accoglienza, paese per paese. Ha del grottesco il fatto che ad esempio la Polonia accoglierà cittadini ucraini e contemporaneamente continuerà a respingere, forse con maggior vigore, quelli che dalla Bielorussia provengono da Afghanistan, Siria e Iraq. Proprio da una Siria affatto pacificata stanno riprendendo con vigore le partenze. Verranno fermati dal “democratico Erdogan” con i soldi EU o potranno entrare in Europa come gli ucraini?

Da ultimo, come si diceva, sono quasi spariti quei corpi intermedi che permettevano alle istanze pacifiste di ritrovarsi. Nei loro gruppi dirigenti (quelli esistono ancora) negli anni ha prevalso una ritrosia terribile ad esporsi, a prendere posizione, a provare a dar voce a chi magari voleva tornare nelle piazze. Non c’è sentore di mobilitazione, ci veniva detto e non ci sono le risorse per favorire lo spostamento delle persone. Parliamo ovviamente di un’epoca pre covid in cui non esistevano ostacoli di ordine sanitario a favorire la mobilità. Del resto cinicamente è chiaro: Gheddafi era un dittatore ma andava difeso, finché si poteva, perché fermava i migranti; era impossibile dover scegliere fra Assad in Siria, col suo regime brutale e i tagliagole dell’Isis che lo combattevano per instaurare il Califfato. Poi il sostegno Usa ai tagliagole e quello Russo al dittatore, non mancavano, ma era troppo complicato spiegare perché si scendeva in piazza, a favore e contro di chi. Dire genericamente per la pace dei popoli libico e siriano sembrava una bestemmia. Era poi accettabile mobilitarsi contro Erdogan mentre riceveva 6 mld di euro per fermare i profughi siriani e afghani? Meglio il silenzio, meglio accettare la passivizzazione. Non aver contribuito, durante gli anni passati, a tenere viva la proposta di un mondo in cui si devono “svuotare gli arsenali e riempire i granai” è una responsabilità politica e culturale che le forze, soprattutto di centro sinistra, porteranno con se per i prossimi decenni. Oggi è divenuto normale che si attacchino le posizioni del presidente dell’Anpi, dandogli del filo Putin, unicamente perché critica il ruolo che dalla fine della Guerra fredda ha giocato la NATO ed è divenuto normale che il governo decida in tutta fretta di inviare armi in un conflitto abdicando al dettato costituzionale. Se allora, come sembra emergere da tali decisioni, l’Italia è divenuto il Paese in cui è legittimo armare chi è occupato e combatte contro i dittatori occupanti perché non percorrerla fino in fondo questa scelta e inviare dispositivi bellici alle popolazioni di Gaza o alle YPG Kurde, ad esempio?

Il movimento contro la guerra che deve ripartire da questo conflitto, prima o poi dovrà fare i conti con queste contraddizioni. Dovrà pronunciarsi, come fanno tranquillamente moderati intellettuali, sul fatto che la NATO, oltre che ad appropriarsi delle risorse di paesi che potrebbero utilizzarle per ben altre ragioni, è uno strumento vetusto, frutto della Seconda guerra mondiale e che andrebbe sciolta non solo per i danni che provoca ma per manifesta inutilità. Dovrà fare i conti che il giuramento “atlantista” è una condizione di subalternità che impedirà per sempre la nascita di una Europa fondata sui diritti. Le piazze in tal senso serviranno ma occorrerà pure un percorso di riflessione che riguarda tutte/i

Stefano Galieni

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