Settanta anni fa, ad inizio di maggio del 1954, l’esercito francese subì una delle sconfitte che ancora più brucia nella storia transalpina. Dien Bien Phu è un nome che evoca la guerra nell’allora Indocina, quella che portò alla fine di una dominazione coloniale ma non alla guerra in quelle aree. L’esercito dei Viet Minh, già allora guidato dal generale Võ Nguyên Giáp, poi eroe della guerra di liberazione in Vietnam e morto ultracentenario nel 2013, sconfisse il Corpo di spedizione francese in Estremo Oriente. A giugno, con la resa, fu il mondo intero ad essere scosso da quella che era una lotta di liberazione anticoloniale che spazzava via la presenza transalpina nell’area. Non tornò la pace – il Vietnam venne diviso in 2 all’altezza del diciassettesimo parallelo – per la Francia segnò la fine di un’epoca. Pochi mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, il vento anticoloniale esplose in maniera virulenta in Algeria, dove le forze che reclamavano l’indipendenza del paese, egemonizzate dal Fronte di Liberazione Nazionale, si scontrarono per 8 lunghi anni con gli occupanti. La Francia, memore dello schiaffo subito in Indocina, utilizzò tecniche di controguerriglia e di violenza, contro gli indipendentisti e la popolazione civile, di una ferocia mai vista, a loro volta l’Fln, riuscì a reggere l’impatto tanto compiendo azioni di guerra nel proprio territorio quanto organizzando attentati nel suolo francese. Il magnifico film “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo, che racconta di un momento straordinario di resistenza, anche cruenta, resta una delle più splendide dimostrazioni di come il cinema possa riuscire ad entrare nella storia e a raccontarne con meticoloso e duro realismo, i momenti più salienti.
In quel passaggio fra una guerra e l’altra accadde però che anche in Francia si levassero voci potenti contro la guerra e il colonialismo, contro la violenza e lo strapotere bianco e occidentale. Una delle personalità, forse troppo dimenticate di quegli anni è un jazzista, cantante, paroliere, romanziere, traduttore e tante altre cose, che si chiamava Boris Vian. Una personalità complessa, geniale, al punto che su di lui sono fiorite leggende miste a verità incontrovertibili. Libertario, pacifista e antimilitarista, portò in Francia la musica dei grandi del jazz da Duke Ellington a Miles Davis, suonava una piccola tromba, si dilettava in ingegneria, scriveva, con lo pseudonimo di Vernon Sullivan, romanzi hard boiled, per aggirare la censura e tradusse in francese Raymond Chandler , fu anche membro del Collège de Pataphysique.
“Sputerò sulle vostre tombe”, “La schiuma dei giorni”, “L’autunno a Pechino” i suoi romanzi più conosciuti. E poi canzoni, tante, alcune delle quali sono state anche tradotte in italiano, da “Non vorrei crepare”, a “La giava delle bombe atomiche”, “Non potete insultarci così”, “Vendiamo armi”, “Tango dei macellai”, canzoni irriverenti, a volte tragiche, spesso grottesche nel raccontare i potere, il cui linguaggio era spesso difficile da tradurre. Di altre storie che lo riguardano è difficile sapere dove finisce la verità e inizia la leggenda: si racconta che, sapendo di soffrire di una forma grave di insufficienza cardiaca, da ingegnere, prima di morire, nel 1959, a 39 anni, avesse progettato il prototipo di un cuore artificiale. Oppure che, durante i suoi concerti, spesso burrascosi in quanto molte delle sue canzoni non passavano il vaglio della censura ed erano vietate anche in radio, scatenassero, eseguite dal vivo, risse fra fazioni contrapposte degli spettatori, in cui Vian si gettava per difendere il proprio punto di vista. Visse in un milieu culturale effervescente e caotico, che 10 anni dopo avrebbe dato vita al Sessantotto, ma che già ne preannunciava l’aria di critica al potere costituito. Le sue canzoni vennero cantate all’epoca da artisti del calibro di Juliette Gréco, Nana Mouskouri, Henri Salvador Yves Montand, Magali Noël, (con quest’ultima è indimenticabile il duetto rock’n’roll “Picchiami Jonny”), in Italia alcuni suoi testi vennero ripresi da Serge Reggiani, Fausto Amodei, Gino Paoli, Ivano Fossati e tanti altri.
Ma, tornando a quei mesi del 1954 quando la Francia perdeva una guerra e ne iniziava un’altra che aprì la strada all’indipendenza di tanti paesi africani, beh in quei mesi forse in quei giorni, il genio Vian, che si rendeva perfettamente conto dell’assurdità di una guerra, di ogni guerra, scrisse la canzone che lo rese più famoso e che fino al 1974 in Francia fu sottoposta ad un assurdo bando. Un testo che l’attuale presidente francese e non solo lui, dovrebbero rileggere e sentir risuonare, magari nelle strade in quanto inno al rifiuto delle armi, alla diserzione
Stefano Galieni
In piena facoltà
Egregio presidente
le scrivo la presente
che spero leggerà
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra
quest’altro lunedì
Ma io non sono qui
egregio presidente
per ammazzar la gente
più o meno come me
Io non ce l’ho con lei
sia detto per inciso
ma sento che ho deciso
e che diserterò.
Ho avuto solo guai
da quando sono nato
i figli che ho allevato
han pianto insieme a me.
Mia mamma e mio papà
ormai son sotto terra
e a loro della guerra
non gliene fregherà
Quand’ero in prigionia
qualcuno mi ha rubato
mia moglie e il mio passato
la mia migliore età
Domani mi alzerò
e chiuderò la porta
sulla stagione morta
e mi incamminerò.
Vivrò di carità
sulle strade di Spagna
di Francia e di Bretagna
e a tutti griderò
Di non partire più
e di non obbedire
per andare a morire
per non importa chi.
Per cui se servirà
del sangue ad ogni costo
andate a dare il vostro
se vi divertirà
E dica pure ai suoi
se vengono a cercarmi
che possono spararmi
io armi non ne ho.
Domenica 2 giugno l’abbiamo risentita recitata, dalla voce profonda di Alessandro Haber, a Villa Borghese, in un grande incontro contro la guerra. Potrebbe essere questa la rotta da perseguire.
Stefano Galieni
1 Commento. Nuovo commento
Bellissimo, e avvincente come sempre, il tuo racconto. Come ho scritto altrove, non mi sento lontano ne vicino a questo discorso ma dentro. Se le scelte per ora sono diverse, non me ne posso preoccupare, devo lavorare