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Ribellarsi è giusto, buon Primo Maggio

di Roberto
Rosso

Il Sole 24 Ore del Lunedì del 29 aprile pubblica due pagine sulla ‘crisi della natalità’ in Italia i cui dati sono basati da uno studio, aggiornato per il giornale, di Gian Carlo Blangiardo, già presidente Istat. Si introduce la nozione di vita futura vale a dire quanti anni complessivamente di vite umane sono previste da oggi, stante la speranza di vita, il profilo demografico-la distribuzione della popolazione per anno di età- e il tasso di natalità. Il primo dato è che nei dieci anni dal 2012 al 2022 si sono ‘persi complessivamente 184 milion di anni di vita futura, pari a 2, anni a livello pro capite, ciò evidentemente a causa dell’invecchiamento della popolazione e del calo delle nascite.

“Per il futuro, ipotizzando di congelare l’aspettativa di vita ai livelli del 2022 (quindi a condizioni di sopravvivenza costanti) da qui al 2053 rischiamo di perdere 3,7 anni di futuro pro capite. Solo con l’apporto aggiuntivo di 506mila nuovi nati o con 802mila immigrati in più, rispetto a quelli già previsti, fra 30 anni potremmo mantenere lo stesso patrimonio demografico di oggi.”

Indubbiamente questa misura – dal tratto economicista oltre che freddamente statistico – dell’andamento demografico è inusuale, il prodotto tra speranza di vita e popolazione complessiva, un flusso di vite umane nel tempo, che nella sua composizione interna -aspettativa di vita per anno di età e genere- costruisce la base per considerazioni quantitative di ordine economico e sociale. Lo studia afferma che “L’intera popolazione al 31 dicembre deteneva un ‘patrimonio demografico’ di 2 miliardi e 255 milioni di anni di vita da spendere in futuro”.)

Il ragionamento condotto nell’articolo è sintetizzato nella seguente frase “Immaginiamo che l’Italia sia un’impresa e i cittadini il capitale in grado di generare valore. Il patrimonio demografico consiste nel loro futuro.  (…) Questo dato rappresenta l’attuale ricchezza demografica del Paese, che in termini pro capite diventa pari a 38,2 anni di futuro a testa.” [Questo dato medio non va confuso con la speranza di vita futura di ogni fascia di popolazione. ndr] (…)

Dall’analisi dei bilanci degli ultimi anni emerge che ‘l’azienda Italia’ -appena 10 anni fa quindi rispetto alle risultanze contabili del 2013 (alle medesime condizioni di sopravvivenza) poteva contare su 2 miliardi e 439 milioni di anni di futuro, cioè 40,4 anni pro capite. (…)

Il saldo degli ultimi anni è negativo: il crescente numero di decessi si traduce in anni persi mentre il calo delle nascite riduce il “monte-vita” che il nostro Paese è in grado di produrre, in quanto ciascun neonato porta in dote la sua speranza di vita alla nascita, in media 83 anni.  Anche tenendo conto dell’immigrazione netta (circa 50 anni di futuro per ogni unità che si aggiunge) l’apporto in bilancio non riesce a compensare le perdite e il naturale consumo degli anni che scorrono”.

Successivamente l’articolo confronta questi dati con l’entità del debito pubblico.

“Il risultato, in pratica, rappresenta l’entità del carico debitorio assunto dal popolo italiano sulla base di quanto risultano essere ad oggi i suoi potenziali sottoscrittori e quanto a lungo vivranno. Una somma che tuttavia è destinata ad aumentare, quanto più diminuiscono i garanti del rimborso e il corrispondete patrimonio demografico attivo [popolazione attiva ndr]” In sintesi: per rimborsare il debito pubblico sono necessari fino a 2.240 euro ogni 12 mesi di esistenza attesa dai cittadini in età attiva.

Questa analisi coglie in termini quantitativi, fornendo un quadro indubbiamente suggestivo ed impressionante, alcuni parametri aggregati del futuro di questo paese legati all’inverno demografico di cui da anni di discute, senza entrare nel merito della composizione sociale, della struttura economica che lo produce, delle condizioni di vita reale delle diverse fasce della popolazione dei diversi territori. Del resto il punto di vista dell’articolo è quello per cui ‘il capitale crea valore’, denaro da denaro.

L’andamento demografico di una popolazione, di una nazione, di una regione, di un continente è il prodotto del complesso dei fattori che determinano e degli andamenti che caratterizzano le dinamiche della riproduzione sociale, la struttura dei rapporti sociali di produzione nella loro progressiva trasformazione. L’andamento demografico delle diverse regioni del globo è fortemente differenziato per una popolazione globale che ha superato gli 8 miliardi e cento milioni. Se il continente africano costituisce la regione del globo dove maggiore è l’incremento demografico, il crollo del tasso di natalità in Cina -con conseguente invecchiamento della popolazione- conseguenza a delle politiche miranti al controllo delle nascite, ha portato ad una revisione di queste politiche. I crescenti flussi migratori sono il prodotto delle straordinarie disparità in termini di andamento demografico e condizioni di vita, nel contesto elle straordinarie trasformazioni che caratterizzano la formazione sociale globale. Migrazioni e andamento demografico sono argomenti di punta della propaganda nazionalista e conservatrice.

Nel nostro paese, al di là di ogni artificio retorico usato dalle forze politiche, sono chiare le condizioni socio-economiche che provocano una riduzione del tasso di natalità che ostacolano concretamente la scelta di avere dei figli1: la riduzione dei salari reali, il crescente livello di precarietà dei rapporti di lavoro, il basso tasso di occupazione femminile, in carenza dei servizi necessari a permettere alle famiglie di accedere al lavoro garantendo la cura dei figli.

Peraltro l’attuale governo con tutta la sua retorica sulla famiglia, non è stato in grado di dare attuazione con gli opportuni decreti legislativi alla legge delega n. 32 per la famiglia, approvata in via definitiva dal senato il 6 aprile 2022: quattro dei 5 capitoli di intervento resteranno inattuati. Gli uffici ministeriali comunque ricordano che la legge delega non aveva copertura finanziaria e quando è stata approvata di fatto era una ‘scatola vuota’.

La situazione italiana si colloca dentro la crisi generale del modello dello stato sociale, in Europa in particolare, una inversione della tendenza che si era venuta affermando con le lotte operaie e sociali degli ’60 e ’70, con le quali mentre si affermavano politiche egualitarie in temini salariali, sganciate da dispositivi di sfruttamento come i cottimo, politiche di difesa della salute sul posto di lavoro, si affermavano diritti fondamentali con lo Statuto dei lavoratori, si istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, per garantire il diritto costituzionale alla cura e alla salute, si garantiva  la parità di genere ed il diritto all’autodeterminazione con le leggi sul divorzio e l’aborto e l’abolizione di leggi discriminatorie; alla fine si arrivò alle definizione del reato di violenza contro le donne come reato contro la persona e non contro la morale. Non si è mai affermato pienamente anche allora il diritto universale al reddito, se non quello indiretto con l’allargamento dei servizi a disposizione dei cittadini, per non dimenticare le successive riforme del regime pensionistico.

I risultati di quel ventennio di progresso in campo economico, sociale sul terreno dei diritti fondamenti, individuali e collettivi, conquisati attraverso un susseguirsi di lotte sociali e politiche, sono stati successivamente smantellati, da reazioni e trasformazioni globali e da specifici processi che sono avvenuti nel nostro paese, che ne fanno un fanalino di coda in ambito europeo su tutti i piani dal salario reali2 al tasso di occupazione femminile, in un contesto di stagnazione della formazione sociale, in termini quantitativi e qualitativi, laddove il complesso delle classi dirigenti è incapaci di stare al passo con le trasformazioni dei rapporti di produzione capitalistici, con i regimi di concorrenza globale, mentre non è alle viste la crescita di movimenti di lotta sociale in grado di imporre nuove dinamiche di trasformazione sociale in opposizione sia alle traiettorie della trasformazione capitalistica che dei caratteri specifici della formazione sociale italiana.

Il contesto europeo a sua volta  non certo è favorevole, sappiamo di esser giunti ad un punto critico nel livello di coesione interna dell’Unione Europea correlata la sua collocazione nel contesto globale, vede l’attuale assetto istituzionale -nella tripartizione dei poteri da Commissione, Consiglio e Parlamento e nel potere autocratico della BCE- totalmente inefficace a gestire le trasformazioni necessarie ad affrontare le transizioni in corso, l’intreccio dei processi di crisi che si succedono e d interagiscono reciprocamente. Quella condizione che definita in termini d ruolo nella competizione globale attende il messaggio di salvifico di Draghi che propone dii affrontare la competizione globale in termini di riforma radicale del comando politico dell’Unione, staremo a veder quanto a fondo la proposta andrà in termini di ristrutturazione progressiva del comando capitalistico in Europa, nei suoi termini formali e sostanziali, diretti e indiretti, immediati e progressivi. La congiuntura sembra migliorare, almeno per quanto riguarda inflazione e tassi imposti dalla BCE, sia pure con andamenti molto differenziali tra paese e paese, tuttavia è il dato strategico che deve mutare.

Tornando al nostro paese, all’andamento demografico come prodotto di sintesi delle condizioni complessive della riproduzione sociale, i vincoli alla spesa pubblica, la mancanza di politiche di riduzione delle diseguaglianze, sul piano fiscale, delle politiche distributive, degli interventi territoriali delle strategie industriali nell’industria e nei servizi, disegnano un futuro in cui si rafforzano le peggiori tendenze del passato. Al di là di ogni elaborazione teorica, di ogni capacità di analisi che certo non manca, l’intersezionalità delle lotte, come oggi si usa dire, non pare proprio affermarsi concretamente, o meglio non si esprime ad un livello adeguato a ribaltare lo stato di cose presenti. Sappiamo bene che ci sono soglie in termini di espressione di conflitto sociale, di capacità di costruire, di ricavarne organizzazione, di produrre consapevolezza in strati sociali sempre più ampi, soglie oltre le quali conflitto, organizzazione, consapevolezza fanno un salto in termini di qualità ed estensione. L’alternativa è una sorta di condizione depressiva, che si esprime in forme di disagio psichico e sociale3, che sembrano caratterizzare sempre di più le nuove generazioni.

Due milioni di adolescenti con disagi mentali I  dati sulla salute mentale dei giovani sono noti e drammatici: due milioni di adolescenti tra i 10 e i 20 anni manifestano disagi mentali, il 75% degli studenti denuncia di avere “spesso” episodi di ansia causati dalla scuola, il 67% ha paura di voti e giudizi, il 34% desidera fuggire dalla scuola.

Il disagio dei prof e l’angoscia dei giovanissimi bandiera bianca allora?

I ragazzi soffrono ma i prof non sembrano stare meglio, impreparati forse alla crisi esistenziale di un’intera generazione. Stiamo affogando, gridano i teenager, abbiamo il male dentro. Matteo Barbantini, Marta Davella, Samuel Postiglione, Zoe Zevio . Hanno 16 e 17 anni, vivono e hanno vissuto sulla loro pelle i disagi dei loro coetanei, il Covid, il lockdown.

Fanno parte della Rete degli studenti medi che già nel 2022 con un questionario dal titolo “Chiedimi come sto”4 aveva alzato il velo su quella che è diventata un’emergenza nazionale: l’angoscia dei giovanissimi.”5.

La condizione giovanile, descritta a partire dagli anni dell’adolescenza, vissuta e verificata nell’ambito scolastico, si prolunga e si proietta poi nella costruzione di una vita adulta, nelle prospettive e nella condizione lavorativa nella possibilità di costruirsi una famiglia. Le capacita, le possibilità di autodeterminazione si stanno riducendo progressivamente e producono processi drammatici di selezione e differenziazione sociale, delle possibilità, delle condizioni dei progetti vita.

Le condizioni di sofferenza di consapevolezza  o meno della propria condizione e delle sue cause, delle capacità e delle forme di reazione, sono fortemente differenziate e richiedono per essere, ricongiunte, ricomposte e condivise, un lavoro culturale, sociale e politico straordinario certamente non settario ed inclusivo, capace di articolare le più diverse forme e terreni di lotta e di organizzazione, l’intreccio dei più diversi linguaggi e sensibilità che nascono e si sviluppano separatamente in un contesto assieme di omologazione e parcellizzazione delle forme espressive.

Nell’Italia delle morti sul lavoro e della violenza di genere che dominano le cronache, è una complessa condizione sociale sommersa che deve esprimersi, prendere parola è conquistare la fornza per rivoltarsi.

Ribellarsi è giusto buon primo maggio.

Roberto Rosso

  1. https://www.neodemos.info/2024/04/19/si-fa-presto-a-dire-cildfree/  []
  2. https://www.openpolis.it/i-salari-non-sono-ancora-tornati-ai-livelli-pre-covid/?utm_source=Newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=europa  []
  3. https://www.repubblica.it/cronaca/2024/04/29/news/professori_disagio_giovanile_parliamo_linguaggi_diversi-422757612/ https://www.repubblica.it/cronaca/2024/04/30/news/ragazzi_massimo_ammaniti_scuola_cambiamento-422774203/    []
  4. https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cultura/chiedimi-come-sto-gli-studenti-al-tempo-della-pandemia-ricerca-cgil/  []
  5. https://www.repubblica.it/cronaca/2024/04/29/news/disagio_giovanile_scuola_inchiesta-422757618/  []
demografia, rivolta, speranza di vita, vita futura
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