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Realizzata la Brexit si riaprono le questioni nazionali nordirlandese e scozzese

di Alessandro
Scassellati

Negli ultimi sei anni il dibattito pubblico e la lotta politica nel Regno Unito è stato dominato dalla questione Brexit. Ora, con la Brexit realizzata, tornano in primo piano le altre questioni storiche irrisolte del sistema politico ed istituzionale britannico: il conflitto tra unionismo e nazionalismo nord irlandese e tra unionismo e nazionalismo scozzese. Nella fase post-Brexit queste questioni e conflitti sono destinati a mettere a dura prova la tenuta e forse l’esistenza stessa del Regno Unito anche perché al governo c’è un politico come Boris Johnson, espressione di una versione ristretta del nazionalismo inglese, che sembra voler ridisegnare uno Stato post-Brexit basato sul dominio di una “Grande Inghilterra” e non su una partnership unionistica inclusiva.

Il referendum sulla Brexit

Il referendum del 23 giugno 2016 nel Regno Unito sulla permanenza del Paese nell’Unione Europea (nella quale era entrato nel 1973) ha visto la vittoria dell’opzione Brexit con 17,4 milioni di voti, pari al 51,9% dei votanti, e può essere considerato un punto di svolta del populismo neo-protezionista, neo-nazionalista e xenofobo a livello globale.

La velenosa campagna a favore della Brexit, con l’omicidio della deputata laburista filoeuropea Jo Cox a Leeds il 15 giugno da parte di un neo-nazista inglese, e con la sua richiesta di “ take back control” (uno slogan inventato fa Dominic Cummings, una sorta di Steve Bannon dei nazionalisti conservatori inglesi) “dei nostri confini, delle nostre leggi e del nostro denaro”, si è incentrata sulla riconquista delle istituzioni politiche del Regno Unito, della sovranità nazionale dall’Unione Europea, soprattutto in riferimento al tema della libera immigrazione dai Paesi dell’Europa dell’Est (il famigerato ”idraulico polacco”, per di più cattolico, in un Paese a maggioranza protestante e in cui l’anti-cattolicesimo è stata una delle più potenti forze ideologiche ed identitarie nella sua storia moderna), ma anche, come veniva paventato, da Paesi musulmani come Siria, Iraq e Turchia che l’Unione Europea avrebbe consentito, e ai conseguenti costi sul sistema di protezione sociale britannico già parecchio malandato.

Lo slogan del Vote Leave diceva agli elettori: “Inviamo alla UE 350 milioni di sterline a settimana. Finanziamo invece il nostro sistema sanitario nazionale“. L’Unione Europea era accusata di drenare rilevanti risorse finanziarie (in effetti, il Regno è stato fra il 2007 e il 2016 un “contribuente netto”, cioè ha dato di più di quanto ha ricevuto, ma Irlanda del Nord e Scozia sono stati “prenditori netti”). I fautori della Brexit sono riusciti a fare dell’Unione Europea il capro espiatorio di anni di austerità imposta dai governi Conservatori.

Anche grazie a fake news (con le cyber-ingerenze russe) e a giornali molto nazionalisti come Daily Mail, Daily Express, The Sun e Daily Telegraph, vicinissimi al partito conservatore, l’Unione Europea è diventata il capro espiatorio di tutti i mali e problemi del Paese. The Sun di Rupert Murdoch ha lanciato la Brexit come una scelta tra gli “arroganti eurofili” e la classe lavoratrice del Paese, mentre ha inveito contro “l’immigrazione di massa che mantiene bassi i salari e pone una pressione catastrofica sulle nostre scuole, ospedali, strade e alloggi“. La retorica anti-UE si è intensificata poco prima del referendum, con storie spaventose sull’immigrazione incontrollata attraverso i confini europei aperti e rappresentazioni dei sostenitori di rilievo del Remain come imbroglioni. Il giorno prima del referendum, il titolo in prima pagina di Daily Mail affermava: “Bugie. Élites avide. O un grande futuro al di fuori di un’Europa rotta e morente. … Se credi nella Gran Bretagna vota Leave.” La prima pagina del The Sun nel giorno del referendum sulla Brexit titolava: “Independence Day: Britain’s Resurgence“, su una versione finta del poster per il film della 21st Century Fox (sempre di proprietà di Rupert Murdoch) “Independence Day: Resurgence“, che apriva in Gran Bretagna quel giorno.

Così gli elettori inglesi, senza adeguatamente riflettere sulle possibili difficoltà politiche ed economiche pratiche, come quelle di derogare alle tariffe UE, agli accordi doganali relativi all’attraversamento della Manica e del confine irlandese, hanno sfidato i ranghi di buona parte dell’establishment britannico (tutti i poteri forti, dalle banche alla Confederazione degli industriali e ai grandi giornali mainstream) e i consigli di Obama e di istituzioni mondiali come FMI e NATO. Senza contare il fatto che l’UK rappresentava il 17% del PIL della UE ed esportava ed importava beni e servizi in Europa per il 43% (2016) del proprio commercio. In cambio della possibilità di attuare una politica migratoria restrittiva e di un risparmio di circa 5,5 miliardi di euro annui, con la vittoria dell’opzione Brexit la Gran Bretagna ha accettato il rischio di dover deformare i propri flussi commerciali in maniera permanente, di perdere il proprio ruolo di centro finanziario internazionale, di disgregarsi, di impoverirsi culturalmente e di diventare irrilevante in termini di politica estera.

Politiche di austerità, disuguaglianze e Brexit

Molti degli elettori hanno votato leave perché si sono sentiti abbandonati e inascoltati in un Regno Unito sempre più disuguale, caratterizzato da una vasta ricchezza in alcune parti del sud-est dell’Inghilterra, dall’austerità generale e dall’abbandono post-industriale altrove.

La vittoria dell’opzione Brexit ha fatto emergere in modo clamoroso le paure e il malcontento delle classi medie e popolari inglesi di ”un’altra Inghilterra”, ossia di coloro che avevano perso i loro posti di lavoro, un tempo sicuri, finiti in Cina o nell’Europa dell’Est, o sostituiti da robot nei magazzini Amazon, e che comunque hanno visto diminuire i propri stipendi e salari ai tempi della crisi finanziaria del 2007-2008 e non li hanno visti più risalire a causa della mancata o scarsa crescita economica e della politica di austerità draconiana attuata dal 2010 in avanti dai governi guidati dal conservatore David Cameron (come poi anche dalla May): tagli drastici alla spesa in istruzione, protezione sociale – con i tagli del Cancelliere del Tesoro George Osborne e l’introduzione del sistema di workfare conosciuto come “universal credit” -, sicurezza e ordine pubblico, abitazioni sociali e sanità. Tagli alla spesa pubblica che hanno comportato la riduzione di un milione di dipendenti pubblici tra il 2009 e il 2016 (da 6,44 milioni a 5,43), tagliati, privatizzati o dati in outsourcing.

Un’ondata di austerità che ha prodotto un Paese più disuguale e povero che, suo malgrado, si è abituato a vivere con meno, anche se molti indicatori di benessere sociale – tassi di criminalità, dipendenza da oppioidi, afflusso alle banche alimentari, mortalità e povertà infantile, e numero dei senzatetto – indicano un forte deterioramento della qualità della vita.

I leader del partito conservatore inizialmente hanno venduto i tagli del budget della spesa pubblica come parte di una politica virtuosa di “conservatorismo compassionevole”, inaugurando quella che Cameron chiamava la Big Society, ossia un modello simile al “compassionate conservatism” brevemente promosso da Bush negli USA, ossia un welfare basato su una diminuzione del ruolo della burocrazia governativa in favore di un protagonismo delle organizzazioni di base, del volontariato, degli enti di filantropia e beneficenza e delle società private, che avrebbe dovuto far rivivere le comunità, offrendo più servizi pubblici. Ma, il modello della Big Society ha dimostrato di essere soprattutto una costruzione ideologica tesa a giustificare maggiori tagli della spesa sociale pubblica. Nel Regno Unito, nel periodo di 10 anni fino al 2017, più di due terzi di tutte le donazioni milionarie – 4,79 miliardi di sterline – sono andate all’istruzione superiore e la metà di queste è andata a due sole università: Oxford e Cambridge. Quando i ricchi e le classi medie fanno delle donazioni alle scuole, danno di più a quelle frequentate dai propri figli che a quelle dei poveri. I milionari britannici in quello stesso decennio hanno donato 1,04 miliardi di sterline alle arti e solo 222 milioni di sterline per alleviare la povertà.

Così, la spesa pubblica pro-capite a livello locale è diminuita del 23,4% in termini reali tra il 2009 e il 2015 e Brexit ha vinto soprattutto dove il suo calo è stato più significativo, ossia nelle aree con più basso livello di istruzione, con più alta concentrazione di popolazione anziana e con minore disponibilità di servizi pubblici. Secondo l’OCSE, solo Grecia, Irlanda e Spagna hanno registrato contrazioni peggiori di quelle inflitte al Regno Unito. Sempre più persone sono restate imprigionate in una sorta di “trappola della povertà”, ossia in un circolo vizioso di bisogni non soddisfatti, carenza di proposte serie di lavoro e indebitamento. I progressivi tagli ai sussidi e alle tutele impediscono anche di pagare spese per sanità, riscaldamento e affitto. Le persone al lavoro sono cresciute di tre milioni rispetto al 2008 (il tasso ufficiale di occupazione ha raggiunto il 76%), ma sono anche enormemente aumentati i working poors (soprattutto donne over 50) con lavori insicuri e bassi salari.

Secondo i dati Eurostat, i britannici che nel 2016 vivevano in aree con un PIL per abitante inferiore a quello medio della UE erano 43,7 milioni, ossia oltre i 2/3 della popolazione del Regno Unito. Più di un quarto dei circa 460 mila residenti di una città come Liverpool erano ufficialmente poveri e il 31% delle famiglie inglesi in cui c’era un adulto che lavora, viveva in povertà relativa (circa 8 milioni di cittadini che rappresentano quasi i due terzi dei 14 milioni in povertà relativa), almeno 1,5 milioni di persone vivevano in povertà assoluta, 3,2 milioni di famiglie avevano problemi con i debiti accumulati e spendevano il 25% del reddito per ripagare prestiti non garantiti, andando ad ingrossare l’esercito dei jams (just about managing).

La crisi del 2008 aveva rivelato gli sconcertanti livelli di debito privato presenti nell’economia britannica: il debito delle famiglie era al 98% del PIL, quello delle società non finanziarie al 109%, quello delle società finanziarie al 219% – o al 750%, se venivano inclusi i derivati – il più alto di qualsiasi economia del G-7. Includendo il debito pubblico pari all’81%, le passività totali del Regno Unito prima della crisi finanziaria erano il 487% del suo PIL, una quota superiore a quella del Giappone. Nell’ultimo decennio, una nuova classe di debitori occupati, ma in difficoltà, è stata creata da una debole crescita dei salari, tagli ai sussidi e contratti di lavoro che non garantiscono un minimo di ore di lavoro. Debitori con un’occupazione che tirano avanti grazie al sostegno dei debt centers dell’Esercito della Salvezza e di altre organizzazioni caritatevoli che li aiutano a rientrare dalle loro posizioni debitorie. Più di 1 milione di anziani sono a rischio di “estinguersi nelle proprie case” a causa della malnutrizione causata dall’isolamento sociale e dai tagli ai servizi pubblici.

Dopo il crollo finanziario del 2008, i salari reali in Gran Bretagna sono diminuiti di un punto percentuale ogni anno; a metà del 2010 il lavoratore tipico guadagnava il 10% in meno rispetto a prima del 2008 e alcuni avevano perso più di un terzo dei loro redditi – rispetto agli aumenti salariali medi in quel periodo dell’11% in Francia, del 14% in Germania e 23% in Polonia. Sette lavoratori su dieci nel Regno Unito sono ora “cronicamente al verde“, secondo un importante studio della Royal Society of Arts. “Il lavoro è la via migliore per uscire dalla povertà“, ha ripetuto il primo ministro Theresa May in diverse occasioni, ma 7 milioni di persone che vivevano al di sotto della soglia della povertà assoluta – che rappresentavano i due terzi di tutti coloro che erano in povertà – avevano un lavoro, ma si trattava di lavori che semplicemente non pagavano abbastanza.

Quando con il referendum è stato chiesto ai cittadini se volevano lasciare l’UE, la possibilità di votare per il Leave è stata percepita da parte dei “dimenticati” (forgotten) come un’opportunità per “farsi sentire” e per respingere sia la Osbornomics (le politiche di austerità) sia uno dei simboli più vividi di un sistema politico considerato senza volto, insensibile e non responsabile, in cui le decisioni sono prese da persone a centinaia di chilometri di distanza dal proprio territorio. La cinica strategia di Osborne di imporre enormi tagli ha ottenuto l’effetto di consentire che venissero considerati responsabili di tutti i disservizi pubblici i migranti al lavoro che pagavano le tasse e i trasferimenti finanziari verso l’Unione Europea: dalle liste d’attesa del sistema sanitario nazionale alla crescita delle dimensioni delle classi nelle scuole pubbliche, alla mancanza di alloggi pubblici.

Si è creato un clima politico-culturale che ha favorito dei leader politici estremisti come Nigel Farage, Boris Johnson e Liam Fox pronti a promettere l’impossibile e ad usare migranti e Unione Europea come capri espiatori. D’altra parte, era stato proprio Boris Johnson a forgiare un vigoroso euroscetticismo della Gran Bretagna a partire dai primi anni ’90, con i suoi articoli pieni di “fake news”, di pervasiva retorica antieuropea e di esagerazioni. Scritti da Bruxelles per il Daily Telegraph dal 1989 al 1994, nei quali aveva dipinto la Commissione Europea come un’istituzione assurdamente megalomane ed imperialista, con Jacques Delors e una burocrazia, dipinta come politicamente irresponsabile, impegnati a complottare per costruire un superstato europeo dotato di immensi poteri.

Il risultato del referendum ha esposto in modo brutale tutte le fratture che attraversavano il Paese. Innanzitutto, le fratture negli elettorati dei due principali partiti del sistema politico britannico: il 39% degli elettori del partito Conservatore ha votato per rimanere e il 61% ha votato per andarsene, mentre il 65% degli elettori del Labour ha votato per rimanere e il 35% ha votato per uscire. Poi, la divaricazione tra una regione ricca, Londra e il sud-est, e una regione deindustrializzata e pauperizzata che comprende il nord e il nord-est che con la Brexit sperava di beneficiare dall’istituzione di nuove zone economiche speciali in grado di offrire minori tasse di importazione e una regolamentazione ambientale e del lavoro più flessibile; quella tra le aree metropolitane più ricche e progressiste e la working class bianca, preoccupata per la concorrenza degli immigrati stranieri nel mercato del lavoro; quella tra chi dalla globalizzazione neoliberista ci guadagna e chi invece fatica a trovarci dei vantaggi in termini di salari e lavoro; tra i giovani e gli anziani; tra l’Inghilterra e la Scozia, l’Irlanda del Nord e il Galles; tra Londra e il resto dell’Inghilterra.

Negli ultimi anni si era ampliato il malcontento dei ceti medi e popolari impoveriti che hanno vissuto anche la concorrenza sul mercato del lavoro locale dei 3,2 milioni di cittadini europei (tra i quali c’erano circa 600 mila italiani e 400 mila romeni) e di altri milioni di immigrati extra-comunitari, ma appartenenti soprattutto ai Paesi del Commonwealth che vivono e lavorano nel Regno Unito. Come la cosiddetta “Windrush generation”, migliaia di migranti dei Caraibi arrivati in Gran Bretagna da giovani o nati qui tra il 1948 e i primi anni ’70, ad una parte dei quali si è scoperto di recente sono stati negati i diritti di cittadinanza e sono stati deportati o minacciati di deportazione come conseguenza della politica dell’’ambiente ostile” sull’immigrazione inaugurata dal ministro degli Interni Theresa May nel 2012, che ha imposto ai datori di lavoro, ai proprietari di case, alle banche e al Servizio Sanitario Nazionale di condurre ispezioni dei visti e permessi di soggiorno. Una presenza consentita dalla libera circolazione per i cittadini europei prevista dagli accordi UE (che consentivano anche a un milione e mezzo di cittadini inglesi di risiedere liberamente negli altri 27 Paesi della UE), dagli accordi tra UK e i Paesi del Commonwealth e dagli accordi internazionali relativi all’accoglienza di profughi, richiedenti asilo e altre persone con status di protezione internazionale.

Il ruolo chiave di leader politici conservatori e populisti

Il malcontento dei ceti medi e popolari impoveriti è stato abilmente mobilitato e canalizzato da un politico populista di destra come Nigel Farage, leader storico dell’eurofobico United Kingdom Indipendence Party (Ukip), che alle elezioni per il Parlamento europeo del 2014 era diventato il primo partito britannico con 24 deputati (anche grazie alla bassa affluenza), dallo slogan “mettere al primo posto gli interessi della gente britannica” e da leaders della destra thatcheriana del partito conservatore come Alexander “Boris” Johnson (ex sindaco di Londra per due mandati e ministro degli Esteri del governo May fino al luglio 2018), Michael Gove (ex ministro dell’Istruzione e della Giustizia e ministro dell’Ambiente nel governo May), Andrea Leadsom e Matthew Elliott che sostenevano (illusoriamente) che l’UK avrebbe potuto lasciare l’Unione Europea facilmente e velocemente, continuare a godere di tutti i suoi vantaggi, concludere più accordi commerciali e risparmiare miliardi di sterline da investire nei servizi pubblici inglesi. “Il giorno dopo aver votato per andarcene, teniamo tutte le carte e possiamo scegliere la strada che vogliamo“, aveva promesso Gove agli elettori durante la campagna referendaria nell’aprile 2016. Nel complesso, la Brexit si sarebbe tradotta in “un accordo migliore per le persone di questo Paese, per risparmiare denaro e per prendere il controllo; un accordo che è esaltante per questo Paese, che è una grande opportunità e che ci libera per diventare i difensori del libero scambio in tutto il mondo”, aveva affermato l’ideologo della Brexit Boris Johnson.

La questione della Brexit era stata posta all’ordine del giorno da Farage e dall’Ukip, ma se fosse stato solo per loro, la maggioranza dei britannici non si sarebbe mai convinta. E’ stata la popolarità di Johnson (l’incarnazione di quell’élite etoniana-oxfordiana ricca e cosmopolita contro cui gli elettori si sono apparentemente rivoltati), la sua personalità colorita ed eterodossa, la sua oratoria trascinante a fare la differenza. Senza l’appoggio di Johnson e di un piccolo, ma coeso gruppo di politici della destra del partito conservatore la cui agenda politica era “finire il lavoro avviato da Margaret Thatcher” (Nigel Lawson), l’opzione Brexit non avrebbe mai vinto il referendum.

Hanno trionfato vendendo con successo tre grandi “fake news”. In primo luogo, che la Brexit avrebbe fornito 350 milioni di sterline a settimana per il servizio sanitario nazionale. In secondo luogo, che la Turchia sarebbe presto entrata nella UE e avrebbe inondato la Gran Bretagna di milioni di migranti musulmani. Terzo, e soprattutto, che la Brexit sarebbe stata indolore. I leaders del movimento Brexit hanno assicurato ai loro seguaci che negoziati per lasciare l’UE sarebbero stati tra i “più facili della storia“, in vero stile trumpiano, accusando tutti coloro – politici, esperti, operatori, intellettuali – che mettevano in guardia sulle possibili conseguenze negative per il Paese di orchestrare un “project fear”, ossia di fomentare una campagna di paure ingiustificate.

L’immigrazione di massa, una paura diffusa in tutta Europa nel 2016 (ma anche dopo), è stata stigmatizzata senza sosta nel corso della campagna referendaria da Farage, da Johnson e da altre figure di primo piano del partito conservatore. Ma, l’immigrazione è un motore essenziale dell’economia britannica. Un recente rapporto del Comitato consultivo sulla migrazione che ha consultato oltre 400 datori di lavoro ha fatto emergere che la maggior parte di loro è preoccupata di qualsiasi restrizione all’accesso alla manodopera dell’UE. Considerano i lavoratori dell’UE più motivati, abili e disposti a lavorare in orari diversi. Nell’assistenza sociale, in quella sanitaria e nell’industria dell’ospitalità, la proporzione della forza lavoro proveniente dallo Spazio Economico Europeo è triplicata dal 1997. In futuro, a seguito della vittoria della Brexit, un giovane dell’Unione Europea non potrà più andare liberamente a Londra e cercarsi un lavoro. Nel 2016/17, i lavoratori migranti dell’Unione Europea hanno pagato 4,7 miliardi di sterline in più di quanto hanno percepito in erogazioni del welfare. Oggi, i cittadini UE hanno bisogno di un visto (della durata di un anno) e di un’offerta di lavoro per emigrare e risiedere in UK (ma senza accesso al welfare e l’accompagnamento dei familiari). L’obiettivo è quello di ridurre drasticamente gli arrivi dalla UE, dalle centinaia di migliaia a poche decine di migliaia l’anno. Il nuovo regime di visti a punti penalizza innanzitutto i lavoratori meno qualificati e stagionali (soprattutto coloro che lavorano nei ristoranti, bar e alberghi, da un lato, e nel settore agricolo, dall’altro). Ai lavoratori altamente qualificati (che guadagnano 21 mila o 30 mila sterline) può essere concesso un visto per 5 anni. Gli studenti potranno restare al massimo per sei mesi dopo aver ricevuto un diploma, a meno che non trovino un lavoro.

I difficili rapporti tra Regno Unito e Unione Europea

Il risultato del referendum ha determinato una chiusura definitiva dell’Isola di Sua Maestà verso un’istituzione mai troppo amata oltre Manica, scarso feeling sempre sottolineato dalla mancata adesione all’euro o agli accordi di Schengen (che dal 1985 hanno istituito uno “spazio” all’interno del quale gli Stati firmatari – oggi 22 – cancellano i controlli sulle persone alle frontiere comuni e introducono la libera circolazione dei loro cittadini) e dalla costante ricerca di deroghe e trattamenti speciali (opt-outs) da parte da Regno Unito stesso, tra cui una riduzione sostanziale del contributo al bilancio dell’UE.

I britannici hanno partecipato alla stesura delle regole relative all’euro, ma hanno contribuito a rendere l’euro debole, con pochi controlli e l’assenza di mutualizzazione dei rischi. Hanno perfino cercato di bloccare la democratizzazione dell’Unione Europea e il rafforzamento del Parlamento europeo. Dal dopoguerra il Regno Unito è stato un partner chiave degli Stati Uniti in Europa per questioni diplomatiche, militari ed economiche, e dalla Thatcher in poi, ha influenzato l’UE nella direzione del libero commercio e della deregolamentazione del mercato dei prodotti, dei servizi, della finanza e del lavoro. Era quindi un utile alleato per i governi europei conservatori, nonché per la Commissione Europea, l’OCSE e il FMI. Dal punto di vista di questi governi e istituzioni, accettare lo status eccezionale del Regno Unito era sinonimo di sostegno al neoliberismo.

Per l’UK, l’Unione Europea era una questione di convenienza e non di riaffermazione di una comune identità europea, un progetto esclusivamente economico, non un progetto politico di integrazione sempre più stretta. A partire dal 1979 con Margaret Thatcher, il Regno Unito è riuscito a cogliere in pieno le opportunità offerte dalla espansione del mercato unico europeo. Londra è diventato il centro finanziario dell’Europa grazie alla deregolamentazione del Big Bang dei mercati finanziari (27 ottobre 1986). Le politiche neoliberiste – che includevano il “workfare” (limitazione dei sussidi del welfare a coloro che cercano attivamente lavoro o si iscrivono a una formazione lavorativa); l’indebolimento dei sindacati; la privatizzazione dei servizi pubblici; l’abbassamento delle tasse per le imprese, gli individui con stipendi alti e i più ricchi – hanno attratto a Londra banche, fondi d’investimento finanziario, assicurazioni e super-ricchi (come gli oligarchi russi e i membri delle dinastie reali del mondo arabo) che hanno anche trovato un mercato azionario ampliato dalle privatizzazioni. I profitti venivano scarsamente tassati e anche gli alti salari nel settore finanziario godevano di una bassa tassazione. Molte grandi imprese europee hanno così trasferito investimenti e posti di lavoro dal continente a Londra.

Gli effetti del Blairismo

Il partito laburista di Tony Blair, eletto con una vittoria schiacciante nel 1997, ha poi consolidato la posizione dominante del Regno Unito all’interno dell’UE, facilitando lo sviluppo di un “sistema bancario ombra” (attività non regolate) e rifiutando di controllare i paradisi fiscali d’oltremare della Gran Bretagna. Nel 2004 ha facilitato l’istituzione a Londra del Comitato delle autorità europee di vigilanza bancaria, trasformato nell’Autorità Bancaria Europea nel 2011, che monitora la regolamentazione del settore bancario europeo.

L’introduzione di un salario minimo nazionale nel 1999 ha limitato il numero di lavoratori poveri, ma il governo Blair non ha fatto nulla per fermare il declino dei sindacati o per vietare il contratto di lavoro a zero ore nelle catene commerciali, il “gig work” che non garantisce un numero minimo di ore alla settimana e che permette alle imprese di convocare il lavoratore anche solo un’ora prima dell’inizio di un turno, di pagarlo un terzo dei dipendenti a tempo pieno e di imporgli straordinari massacranti. Invece di lavorare con un numero fisso di ore o turni, i dipendenti a zero ore devono rimanere perennemente a disposizione dei loro datori di lavoro, in attesa di una chiamata, però vengono pagati solo per il tempo in cui effettivamente lavorano, e non per gli orari, le settimane, persino i mesi di attesa.

Allo stesso tempo, sono stati fatti massicci investimenti nell’istruzione con la promessa che ciò avrebbe creato pari opportunità per tutti, indipendentemente dal proprio background sociale o culturale. Questa strategia ha rafforzato l’attrattiva economica del Regno Unito, alimentando l’immigrazione di europei con qualifiche sia elevate sia basse. Questo nuovo afflusso di immigrati e una popolazione autoctona più istruita e giovane hanno fornito forza lavoro per industrie creative diversificate, dalla pubblicità alla biotecnologia, e per i servizi personali consumati dai ricchi e dagli alti salariati.

Dopo la crisi del 2008, le politiche dei governi conservatori hanno contribuito ad alimentare l’humus di risentimento alla base della Brexit: tagli nel settore pubblico, riduzione dei salari, inquadramento dei lavoratori stranieri in una narrativa del sospetto e dell’ordine pubblico, la promessa di ridurre sempre di più le quote di immigrati.

La Brexit e la crisi del sistema politico britannico

La Brexit ha mandato in frantumi la politica britannica. La prima conseguenza sono state le dimissioni del premier conservatore David Cameron che, dopo aver promesso il referendum sulla permanenza in Europa – nel 2013, per tenere buona la minoranza euroscettica del partito in vista delle elezioni politiche del 2015 – lo ha poi indetto, aprendo il vaso di Pandora nella convinzione che convincere gli elettori a rimanere in Europa sarebbe stato facile. Dopo l’iniziale parere favorevole, ha tentato fino all’ultimo di convincere gli elettori a votare per il Remain, ma il Governo da lui presieduto è sempre stato accusato di non aver mai preso una posizione netta e definitiva. Questa ambiguità sull’argomento ha fatto perdere importanza alle indicazioni di voto suggerite e lasciato, di fatto, una sorta di libertà che è sfociata in un risultato giudicato, da molti, sorprendente. La Gran Bretagna, euro o non euro, era comunque uno Stato importante in Europa (la terza economia), e non solo, d’altro canto, far parte dell’UE aveva permesso alla Gran Bretagna di non rimanere isolata rispetto decisioni importanti in materia di economia e geopolitica.

Boris Johnson, leader conservatore della campagna per l’uscita dalla UE, veniva considerato il candidato più probabile per la successione a Cameron alla leadership del partito conservatore e del governo. Ma, ha dovuto fare i conti con un altro ambizioso Brexiteer, Michael Gove, che si è candidato al suo posto e lo ha liquidato affermando: “lo conosco bene, è inadatto alla leadership”. Perse da entrambi le primarie dei Tories, al governo ci è arrivata Theresa May che era stata ministro dell’Interno per sette anni e al referendum si era schierata tiepidamente per il Remain. Figlia di un vicario di campagna, May era espressione della destra moderata (centrista) del partito, conosciuta come un politico caparbio, tenace, poco spontaneo e austero (a parte le scarpe leopardate).

Come primo ministro, Theresa May non ha avuto vita facile. Dopo il referendum, i conservatori britannici (il partito europeo da sempre più favorevole all’apertura dei mercati) hanno mutato pelle e May, che era stata una sostenitrice tiepida del Remain, da un giorno all’altro è diventata una pasionaria antieuropea, al punto da apparire l’equivalente, in salsa britannica, di Marine Le Pen. La May ha ereditato una crisi non prodotta da lei e le divisioni nel suo esecutivo e nel suo partito tra euroscettici e pro-europei riflettevano le divisioni nel Paese. Quindi, ha dovuto procedere passo dopo passo, mediando e dovendo trovare via via le formule per tenere uniti il suo governo e partito. Così, fin dall’inizio del suo mandato, la May si è posta come obiettivo non solo una gestione efficace della Brexit, ma anche di cercare di mettere in moto un cambiamento di rotta nella mobilità sociale, per correggere le “brucianti ingiustizie” che devono affrontare gli oppressi e, quindi, di rimodellare “the forces of liberalism and globalisation which have held sway…across the Western world.”

Per mesi, nel governo e nella società inglese si sono scontrate le posizioni dei favorevoli all’uscita dura (hard Brexit), fuori non solo dalla UE, ma anche dal mercato comune e dall’unione doganale (costringendo quindi le aziende a pagare dazio sull’export/import nel e dal continente), e dei favorevoli a una transizione morbida (soft Brexit), dentro il mercato comune o l’unione doganale (come Norvegia, Islanda, Liechtenstein, Svizzera o Turchia, in modo da tutelare gli interessi della City e di altri settori economici forti) e trattativa sul resto. La premier May ha annunciato le sue “linee rosse” – lasciare il mercato unico, l’unione doganale e la giurisdizione della Corte di Giustizia Europea -, in sostanza di voler seguire la strada di una clean Brexit (di fatto, una hard Brexit). Ha anche minacciato di trasformare la Gran Bretagna in un paradiso fiscale – in una sorta di Singapore sull’Atlantico -, promettendo di abbassare al 15% la corporation tax, che era già previsto dovesse scendere dal 20 al 17% entro il 2020, in modo da avere le tasse societarie più basse del G-20.

I pro-Brexit hanno sostenuto che l’obiettivo era quello di trasformare la Gran Bretagna in una “global Britain” attraverso facilitazioni fiscali (istitutuzione di porti franchi e piattaforme per l’esportazione), una riedizione della special relationship con gli USA (un termine coniato da Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale e rilanciato dal duo Reagan-Thatcher e poi nella chiave della Terza Via riformista da Clinton-Blair) basata su un accordo di free-trade (il 25% dell’export e il 20% dell’import inglese sono realizzati con gli USA), anche se inevitabilmente meno speciale che in passato visto che buona parte della relazione era costruita sulla relazione della Gran Bretagna con il resto del continente europeo, accordi commerciali bilaterali con altri Stati e un rapporto privilegiato con il Commonwealth. Con i 53 Paesi che costituivano l’ex impero britannico (solo Birmania, Aden e Repubblica d’Irlanda non ne fanno parte), con un terzo della popolazione mondiale, circa il 15% della ricchezza mondiale (a seconda della misura utilizzata), e un quinto del commercio globale, si sogna di costruire una sorta di “Impero 2.0” (anche se ora, ad esempio, l’Australia assorbe solo l’1,6% delle esportazioni del Regno Unito e il Commonwealth nel suo complesso soltanto il 9,5%).

Nel 2010, il manifesto di Ukip aveva promesso una Zona di libero scambio del Commonwealth, che rappresenterebbe “oltre il 20% di tutti gli scambi e gli investimenti internazionali” e consentirebbe alla Gran Bretagna di prosperare al di fuori dell’UE, nella cosiddetta “Anglosphere”. Il manifesto dei Conservatori per le elezioni generali del 2015 si era impegnato a “rafforzare ulteriormente i nostri legami con i nostri stretti alleati del Commonwealth, Australia, Canada e Nuova Zelanda“. E quando arrivò il referendum, molti dei personaggi di spicco, tra cui Boris Johnson e l’eurodeputato Tory Daniel Hannan, furono felici di dire che il Regno Unito aveva “tradito” il Commonwealth quando era entrato a far parte della CEE nel 1973 e proposero una zona per la mobilità libera del lavoro con l’Australia. Era tempo, come affermava un titolo del Daily Telegraph, di “abbracciare il Commonwealth“, in particolare la parte bianca del Commonwealth britannico (“the white dominions”: Canada, Nuova Zelanda, Australia).

Con la Brexit la parte più neoliberista dei Conservatori ha proposto la prospettiva di una ”global Britain” che dovrebbe diventare un paradiso fiscale capace di entrare nella competizione per accaparrarsi business finanziario da tutto il mondo. Una sorta di Singapore o Hong Kong 2.0 dotata di forze militari in grado di intervenire ovunque nel mondo, ma che avrebbe l’effetto immediato di far aumentare deficit e debito pubblico. Una visione che fa leva sul passato coloniale e sull’incapacità di venire a patti con la sua fine, che ha dato l’impressione che la Gran Bretagna sia molto più grande, più forte e più influente di quanto sia realmente. I politici nazionalisti inglesi sembrano essere convinti che il motivo per cui l’UK è al centro della maggior parte delle mappe del mondo è perché la terra ruota intorno a lei, non perché sono stati gli inglesi a disegnare le mappe. Questo considerando anche che, stando nell’Unione Europea, la Gran Bretagna aveva un accesso senza dazi ai Paesi dell’Unione e ad accordi commerciali vantaggiosi negoziati dall’UE con il resto del mondo, per un totale di 33 accordi di libero scambio che coprono oltre 60 Paesi e oltre il 65% del commercio globale del Regno Unito. Le probabilità che il Regno Unito ottenga regimi commerciali più vantaggiosi di quelli di cui godeva stando dentro la UE sono limitate e tendenti a svanire tenendo conto delle tendenze protezioniste alimentate dalle guerre commerciali tra Stati Uniti e Cina che stanno scuotendo l’economia globale.

Il Labour, la maggiore forza di opposizione al governo conservatore, ha vissuto un dilemma: da un lato, il 75% dei suoi iscritti, dei suoi elettori e la stragrande maggioranza dei deputati aveva votato per restare nella UE, dall’altro, due terzi dei suoi parlamentari rappresentavano territori in cui al referendum aveva prevalso la Brexit. In particolare, il partito non voleva alienarsi i voti operai brexiteer del nord, ma allo stesso tempo oltre la metà degli iscritti era fieramente europeista. La posizione del partito era che fosse necessario accettare il risultato di un referendum nazionale, ma fare tutto il possibile per porvi condizioni che lo rendessero una scelta migliore. Per questo il Labour era favorevole ad un voto parlamentare autentico sull’accordo finale di uscita dalla UE e che vi fosse la garanzia per i 3,2 milioni di europei residenti in Gran Bretagna del diritto incondizionato di restarci.

In ogni caso, il programma del Labour ha continuato ad essere socialista, incentrato sulla ri-nazionalizzazione delle ferrovie e la difesa a spada tratta della sanità pubblica, sulla creazione di una banca centrale d’investimento, su più spese per opere pubbliche e infrastrutture, sul riconoscimento dei freelance e dell’imprenditoria giovanile come realtà che vanno tutelate.

Da anni il Labour è un partito diviso internamente, in cui sono convissute con difficoltà diverse anime: c’è un gruppo neo-liberale, di nostalgici del blairismo, concentrato soprattutto nel gruppo parlamentare, che ha spinto per sovvertire le gerarchie di partito e tornare al potere, pur non avendo intorno a sé lo slancio che caratterizzava la blairiana Terza Via centrista in Europa oltre vent’anni fa; ci sono i dirigenti laburisti social-democratici moderati, “soft Left”, pro-Europa come il sindaco di Londra Sadiq Khan o Clive Jones; c’è la sinistra accademica, multietnica e simpatizzante delle cause del partito, ma non pienamente integrata nei suoi gangli, come gli intellettuali che gravitano intorno a case editrici Verso o Zed Books; c’è Momentum, l’organizzazione grassroots degli oltre 40 mila militanti socialisti del partito – che provengono sia dalle città della classe operaia sia dalle città universitarie, dalla classe operaia manuale e dal salariato cognitario – fondata nel 2015 da Jon Lansman, veterano della sinistra laburista e responsabile del sito Left future, che ha sostenuto apertamente Jeremy Corbyn fin dall’inizio e fa da ponte tra l’universo dei movimenti (come Uk Uncut, Occupy, organizzazioni contro il cambiamento climatico, le tasse universitarie e altro) e della politica locale e quello del partito; infine c’è l’inner circle corbyniano (John McDonnell, Diane Abbott, Michael Meacher, Austin Mitchell), i custodi dell’ortodossia socialista (il Socialist Workers’ Party, la People’s Assembly, UK Uncut, la coalizione pacifista e po’ leninista di Stop the War contro la guerra in Iraq e la cosiddetta guerra al terrorismo), “Bennite”, ossia ex sostenitori di Tony Benn (deputato laburista per 47 anni dal 1950 al 2001, leader del partito dal 1971 al 1972 e ministro dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1979) che nel referendum del 1975 si era battuto affinché il Regno Unito non rimanesse all’interno della CEE, e attivisti marginalizzati durante l’era Blairiana che per anni hanno combattuto le cause più disparate, militanti duri e puri, ma anche, e non di rado, fanatici che hanno finito con il giustificare al-Assad o Putin o la retorica cospirazionista, ignorando qualsiasi vocazione europea. Corbyn stesso è stato uno dei più implacabili oppositori della “terza via” centrista blairiana e ha trascorso gran parte della sua carriera criticando l’Unione Europea come una cospirazione capitalista antidemocratica e neoliberista e che ha sempre pensato che se la Gran Bretagna tornasse ad essere libera da vincoli, potrebbe avere il “socialismo in un solo Paese”. La sua ascesa alla guida del Labour è stata in larga parte consentita da fattori contingenti – soprattutto, è stata la conseguenza involontaria del passaggio alle primarie aperte e al sistema “un membro, un voto” per le elezioni del partito del 2015 deciso da Edward Miliband – che lo hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica, facendo prendere al suo programma socialdemocratico e di cambiamento strutturale, il vento del malcontento popolare contro politiche di austerità che per gran parte del Paese erano chiaramente fallimentari.

L’errore di calcolo di May

Per provare a spazzare via l’opposizione ad una hard Brexit, sia interna al partito conservatore (il cameronismo) sia degli altri partiti, il premier May ha deciso a sorpresa di convocare un voto anticipato (con 3 anni di anticipo) l’8 giugno 2017, dopo aver negato per mesi l’eventualità che potesse aver luogo, in un momento in cui i sondaggi davano i Tories avanti di oltre 20 punti sul Labour (46% contro 25%) e i liberal-democratici erano ostacolati da una leadership debole.

L’obiettivo di May era di legittimare e rafforzare la sua leadership personale (era un primo ministro senza un mandato popolare) e la base parlamentare del suo governo: con soli 15 deputati in più ai Comuni (molti dei quali si erano schierati per il Remain , come del resto May, e ben 13 sotto inchiesta per finanziamenti elettorali illeciti) e addirittura in minoranza alla Camera dei Lord, la strada verso la Brexit legata alla trattativa con gli “euro-oligarchi senza popolo” di Bruxelles rischiava di farsi molto accidentata, visto che nei successivi due anni sarebbe stato necessario affrontare tutta una serie di passaggi legislativi. Allo stesso tempo, le elezioni anticipate hanno dimostrato che è stata una scelta disastrosa perché ha dato una chance agli elettori di esprimere la propria rabbia sia verso le politiche di austerità seguite dal governo conservatore sia verso la Brexit, dando anche la possibilità a coloro che avevano votato per la Brexit, ma non erano d’accordo con la hard Brexit proposta dalla May, di manifestare il proprio dissenso.

La signora May ha lanciato il suo manifesto elettorale (scritto dal suo consigliere Nicholas Timothy, figlio di un operaio siderurgico di Birmingham e proveniente dai “working-class Tories”, conservatori di estrazione popolare, una sorta di destra sociale) che ha ripetutamente rifiutato i “mercati liberi senza ostacoli” e ha messo in discussione l’affermazione della Thatcher secondo cui non esisteva una cosa simile alla società, attaccando “i pochi privilegiati“, denunciando i “prezzi da latrocinio dell’energia” e proclamando che “è tempo di ricordare il bene che il governo può fare“. Il “Maysmo”, con una sorta di populismo conservatore, la piattaforma elettorale dei Tories puntava a togliere il terreno sotto ai piedi alla sinistra laburista e a perseguire una terza via conservatrice – di “conservatorismo popolare” – fra globalizzazione e nazionalismo. “Se credi di essere un cittadino del mondo, sei un cittadino del nulla“, ha dichiarato May.

Prevedeva l’introduzione di congedi parentali, il diritto di assentarsi fino ad un anno per assistere familiari in difficoltà, l’innalzamento del salario minimo, l’estensione dei congedi di maternità e malattia ai lavoratori della nuova economia delle piattaforme digitali (Uber, Lyft, Deliveroo, etc.), incentivi per fare in modo che le madri tornino al lavoro, la nomina dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende, la fissazione di un tetto ai prezzi dell’energia e un piano per nuovi alloggi popolari. Il manifesto elettorale conservatore ha reintrodotto idee che Margaret Thatcher aveva alacremente combattuto e cancellato: i controlli sui prezzi dei mercati dell’energia e un tipo di politica industriale che i sostenitori del libero mercato hanno denunciato come “scegliere i vincitori“.

Nel 1942, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, Lord William Beveridge, un accademico liberale, nella relazione che ha posto le basi per il welfare state universale (Social Insurance and Allied Services, incentrato su tre punti: sussidi alla famiglia; assistenza sanitaria, politiche di pieno impiego) e per il piano Full Employment in a Free Society (1944) poi implementato dal governo Labour di Attlee nel dopoguerra, definì come compito del governo sconfiggere cinque “mali giganti” dell’umanità: miseria, malattia, ignoranza, squallore, ozio, facendo nascere, tra le altre cose, il National Health Service (1948) come strumento universalistico per rendere esigibile il diritto alla salute da parte di tutti i cittadini britannici. Il manifesto elettorale della signora May ha evocato il suo spirito riferendosi a cinque “sfide giganti“: l’economia, Brexit, le divisioni sociali, una società che invecchia e il cambiamento tecnologico. “Non crediamo nei mercati liberi senza vincoli“, ha sostenuto. “Rifiutiamo il culto dell’individualismo egoista. Aborriamo la divisione sociale, l’ingiustizia, l’iniquità e la disuguaglianza.

A questa piattaforma, si è contrapposto il programma più dichiaratamente socialista degli ultimi 70 anni del Labour che, con lo slogan “for the many, not the few” (per i molti, non per i pochi), ha sviluppato una critica dei princìpi centrali del neoliberismo – privatizzazioni, primato degli azionisti, emulamenti stratosferici per i consigli di amministrazione e i top manager, predominanza del settore finanziario – e ha esplicitamente promesso di porre fine all’austerità affidandosi ad uno statalismo dall’alto, prevedendo la rinazionalizzazione delle ferrovie, delle compagnie di autobus, della Royal Mail, delle società per la produzione di energia, dell’acqua potabile, l’azzeramento delle rette universitarie (attualmente di 9 mila sterline l’anno e con un regime di prestiti studenteschi in stile americano), l’investimento nelle infrastrutture per costruire più ospedali, scuole, case popolari, l’aumento di un terzo della retribuzione oraria minima (portandola a 10 sterline, circa 12 euro) e dei poteri dei sindacati, un incremento delle tasse per circa 50 miliardi di sterline l’anno da prelevare dai redditi e patrimoni del 5% più ricco della popolazione (con l’innalzamento dal 40 al 45% delle tasse per i redditi sopra le 80 mila sterline, e fino al 50% sopra 125 mila sterline, e sui bonus di banchieri e grandi manager sopra le 330 mila sterline) e attraverso un ritorno delle imposte sui redditi d’impresa ai livelli del 2012. Una soluzione che rientrava pienamente nella tradizione socialdemocratica per la quale la leva fiscale è lo strumento principale per ridistribuire reddito e potere.

La campagna elettorale di Theresa May avrebbe dovuto essere una sorta di marcia trionfale tesa a farle avere un’investitura plebiscitaria, invece ha esposto tutte le sue debolezze. La May si è rivelata un disastro: impacciata, goffa, a disagio tra il pubblico, fredda, innaturale, legnosa, robotica e, soprattutto, è apparsa non essere in grado di offrire un progetto o un programma coerenti. Ha ripetuto sino alla noia lo slogan “un governo forte e stabile”, ma ha dato l’impressione di piegarsi alle pressioni e di cambiare continuamente opinione. May intendeva incentrare tutta la campagna elettorale sull’importanza delle trattative sulla Brexit. In realtà, dopo un anno in cui ogni telegiornale, mattina e sera, ha parlato di Brexit, il pubblico ha preferito sentir parlare di sanità e istruzione, di tasse e di pensioni. E su questi temi il governo Tory è sembrato incapace di presentare una politica coerente: aumenti di spesa, in aree “popolari”, non erano controbilanciati da crescita delle entrate al di là di una vaga promessa di tagliare il costo del welfare. In più il suo programma conteneva tagli ai pasti gratis nelle scuole e all’assistenza agli anziani pensionati benestanti (lo zoccolo duro dell’elettorato conservatore anche perché le misure di austerità dei Tories non sono state mai applicate a loro) nelle case di cura e a domicilio (proponendo la cosiddetta dementia tax, che avrebbe costretto tanti anziani a vendere le loro case per pagare i costi dell’assistenza, privando i figli dell’eredità), in parte ritrattati nel bel mezzo della campagna elettorale.

Corbyn, invece, ha fatto una buona campagna, è apparso onesto, autentico, empatico, univoco, coerente, tutte caratteristiche che erano esattamente quelle che chiedeva la gente, stanca di politici avidi di potere, cinici e corrotti. Ha messo l’accento sulle ingiustizie e le disuguaglianze, ha dato voce alle preoccupazioni per il comportamento del big business. Ha fatto leva sul bisogno di idealità e valori che molti degli iscritti laburisti (vecchi e nuovi) chiedevano, in contrapposizione ad una politica dei conservatori che da molti era vista solo come tattica e compromessi. Non ha corteggiato i media, ma ha incontrato le persone per parlare con loro ed ascoltare quello che avevano da dire. Inoltre, Corbyn ha incalzato May sulla questione sicurezza (la campagna elettorale è stata insanguinata da due attentati da parte di estremisti islamici), accusandola di aver autorizzato nei sette anni da ministro dell’Interno il taglio di 20 mila posti nelle forze di polizia, “aprendo una falla nella sicurezza nazionale”. L’appello della May al “popolo” come entità astratta si è scontrato con l’appello di Corbyn alla gente comune che chiedeva una scuola e una sanità efficienti e trasporti pubblici decenti. Il populismo conservatore della May si è scontrato con un modello di radicalismo anti-establishment più autentico, capace di convincere i giovani e gli emarginati che valeva la pena andare a votare.

I Tories hanno ottenuto la maggioranza relativa (318 seggi, -13), ma non hanno avuto più la maggioranza assoluta (326). Il voto ha prodotto un hung parliament e la May è stata costretta ad un’alleanza con gli unionisti evangelici nordirlandesi del Democratic Unionist Party (10 seggi, +2). Partito unionista fondato dal reverendo Ian Paisley nel 1971 e il più socialmente di destra dei partiti britannici (contro i matrimoni gay e l’aborto, negazionisti sul climate change) e contrari ad una hard Brexit. In cambio dell’appoggio del DUP, May si era impegnata a devolvere un miliardo di sterline di sovvenzioni supplementari per strade, scuole e ospedali in Irlanda del Nord (fondi che avrebbero dovuto sostituire quelli ottenuti dalle politiche di coesione dell’Unione Europea). La ragion d’essere del DUP è la preservazione dell’identità “britannica” e della fedeltà politica tra i protestanti nordirlandesi – e quindi il mantenimento del posto dell’Irlanda del Nord all’interno del Regno Unito, questo sebbene la “britishness” del DUP sia sempre meno in linea con la Gran Bretagna stessa (se non con la parte protestante più conservatrice della società inglese).

Il Labour (262 seggi, +32) ha realizzato una rimonta che sembrava impossibile: da meno 20 punti a poco più di due dai Tories (40% contro 42,4%, 12,8 milioni di voti contro 13,6). Una sconfitta politica per May (che ha dovuto da subito affrontare la sfida alla sua leadership dall’interno del suo partito) e una vittoria morale per Corbyn. Una sconfitta anche per il partito nazionalista scozzese (35 seggi, -21; riconquistati soprattutto dai Tories, ma anche dal Labour), che ha significato la fine per il momento del sogno di una Scozia indipendente, e un azzeramento per l’Ukip, mentre i liberal-democratici hanno registrato un modesto avanzamento (12 seggi, +4), considerando che erano convinti di poter raccogliere almeno in parte i voti del 48% che al referendum del 2016 aveva votato per il Remain. Sinn Féin ha vinto 7 seggi a Westminster, ma ha deciso di non partecipare ai lavori del Parlamento, non riconoscendo il dominio del Regno Unito sull’Irlanda del Nord. In ogni caso, è stata la consistenza dei seggi vinti dal SNP in Scozia che ha reso impossibile per i Conservatori avere una solida maggioranza parlamentare.

Se May e i conservatori hanno ottenuto il consenso degli elettori di mezza età (59%), i giovani sono stati dalla parte del Labour (63%) che ha vinto anche nelle maggiori città (Londra e le grandi città del nord), ha riconquistato il nord industriale e si è incuneato nel sud-est (vincendo per la prima volta a Canterbury, feudo conservatore dai tempi di Dickens), riguadagnando i suoi elettori transfughi verso l’Ukip. Corbyn si è preso quasi tutta Londra, l’area metropolitana dove il Remain aveva stravinto, le constituencies dei quartieri centrali (anche a Kensington, il quartiere dei ricchi) e quelle dei sobborghi, compresi i più problematici dove la rabbia urbana si era orientata sul Leave. Ha vinto nei distretti industriali del Galles, old working class anch’essa schierata per la Brexit, e a macchia di leopardo nelle Midlands, tagliando a metà gli schieramenti referendari grazie al nuovo cleavage sociale chiamato a incrociare e neutralizzare quello neo-nazionalistico e identitario. I Tories, invece, hanno dominato come sempre nell’Inghilterra rurale e delle città medie, nell’Inghilterra profonda. Ancora una volta è emerso il quadro di un Paese profondamente diviso, polarizzato: ricchi contro poveri, giovani contro anziani, contee e aree rurali contro grandi città. I Tories si sono presentati come il partito dei vecchi valori conservatori britannici – patriottismo, autodeterminazione e sospetto degli stranieri – e hanno avuto il voto delle persone di classe media delle aree rurali e degli ex-operai anziani del nord post-industriale. Il Labour, invece, ha cercato di aggregare un blocco sociale trasversale che unifica strati sociali inferiori e medi contro le politiche neoliberiste.

Guerre parlamentari e trattative con l’Unione Europea. Le sconfitte di May

Priva di una maggioranza parlamentare assoluta e dipendente dai 10 voti del DUP, il premier May ha avviato, in un clima da guerra di tutti contro tutti, le difficili trattative con l’Unione Europea per arrivare ad un accordo sull’uscita del Regno Unito e sui rapporti futuri.

Nelle nuove condizioni politiche post-elezioni, non solo la leadership di May è divenuta assai debole, ma proprio sulla Brexit si è scatenata una continua e serrata resa dei conti nei Tories, tra la corrente filo-europea, che faceva capo al ministro del Tesoro Philip Hammond e spingeva per una soft Brexit nel negoziato con la UE, e i sostenitori di una hard Brexit (o anche di un no deal) che facevano capo al ministro degli Esteri Boris Johnson, a Michael Gove (Ambiente), a Liam Fox (Commercio Estero) e al deputato ultra-conservatore Jacob Rees-Mogg, leader della fazione European Research Group che contava su circa 60 deputati conservatori, ma anche deus ex machina di un hedge fund, Somerset Capital Management, che viene gestito attraverso delle sussidiarie domiciliate in paradisi fiscali come le Cayman Islands e Singapore.

Per ottenere il sostegno dei 10 parlamentari del DUP, e anche per mantenere quello dei 13 deputati del Partito conservatore scozzese, però, la May avrebbe dovuto accettare una Brexit molto morbida, che avrebbe dovuto prevedere di rimanere nell’unione doganale e forse comportare anche di rimanere nel mercato interno. L’Irlanda del Nord avrebbe avuto tutti i vantaggi a rimanere nell’Unione Europea, affrancandosi definitivamente da Londra. Del resto, è dall’accordo di pace del Good Friday del 1998, da quando cioè il legame con l’Inghilterra è diventato quasi solo formale, che la regione ha vissuto un significativo balzo economico. Tornare a dipendere da un governo centrale britannico fuori del mercato comune europeo era una situazione che non piaceva né ai cattolici di Sinn Fèin né a protestanti del DUP.

Il Sinn Féin (principale contendente del DUP) ha sostenuto che un governo Tory-DUP metteva in discussione l’Accordo del Venerdì Santo, il che era senz’altro vero visto che questo ha previsto l’abolizione del confine fisico tra le due Irlande e la neutralità dei governi del Regno Unito e della Repubblica d’Irlanda rispetto alle questioni interne nordirlandesi. Se consideriamo che fu quell’accordo a risolvere la questione nordirlandese e a garantire la fine dei “The Troubles” nella zona, l’accusa era di un certo rilievo e metteva in difficoltà unionisti e conservatori. L’accordo fu venduto come “trampolino di lancio per un’Irlanda unita” dai repubblicani, mentre gli unionisti sostenevano che consentiva di “assicurare l’unione“. Il simbolismo era la chiave: un confine fisico avrebbe reso visibile che l’isola è divisa in due parti, senza di esso questo non è visibile. L’Unione Europea ha svolto un ruolo importante nel contesto dell’Accordo del Venerdì Santo. Ha sostenuto il processo di pace fornendo finanziamenti e la spinta economica derivante dal commercio senza confini, ma anche per i diritti che ha concesso alle persone di entrambe le parti in quanto cittadini europei.

D’altra parte, per l’Unione Europea il Regno Unito non avrebbe potuto lasciare l’UE, il mercato unico, l’unione doganale senza avere allo stesso tempo dogane e controlli alle frontiere. Da questo punto di vista, c’erano evidenti contraddizioni nelle richieste dei Tories. Per l’Unione l’uscita dal mercato unico e dall’unione doganale del Regno Unito avrebbe reso necessaria la reintroduzione di controlli alle frontiere con l’Unione per proteggere i consumatori e il bilancio dell’UE, proteggere le imprese e fermare la contraffazione. Ma la reintroduzione di una frontiera fisica e di controlli doganali tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord per proteggere il mercato unico avrebbe messo a rischio pace e stabilità in Irlanda.

Tutte queste polemiche hanno lacerato i Tories e reso più complicata la trattativa con Bruxelles (considerando che sullo sfondo c’erano 54 accordi commerciali da rinegoziare) iniziata il 19 giugno 2017 senza che si fosse ancora formato un nuovo governo britannico. L’ipotesi preferita era quella di un accordo “Canada plus plus plus”, un patto di libero scambio più ampio di quello che Bruxelles aveva sottoscritto di recente con il Canada, includendo anche auto, prodotti farmaceutici e servizi (l’80% dell’economia britannica, anche se in gran parte di proprietà straniera). A distanza di oltre un anno dal referendum, però, la situazione appariva ancora piuttosto nebulosa. Il governo sembrava non avere alcun piano preciso, mentre nel Paese esistevano due schieramenti contrapposti che non trovavano corrispondenza nei due schieramenti maggioritari in Parlamento. Uno era quello di Brexit, capitanato dalla May, che avrebbe voluto una hard Brexit, cioè un’uscita senza tante concessioni all’Unione Europea; l’altro, invece, era quello di una larga fetta della popolazione britannica (che secondo i sondaggi superava largamente il 50% dell’elettorato) che avrebbe voluto, se non addirittura tornare a votare su Brexit/Remain, almeno una soft Brexit. Questa larga percentuale di britannici non aveva una rappresentanza politica precisa perché il Labour, che pure prima delle elezioni generali dell’8 giugno si era espresso per un negoziato che garantisse i diritti ai cittadini europei, nelle ultime settimane di giugno, astenendosi sugli emendamenti contro la hard Brexit, ha dimostrato che considerava la questione chiusa: quello che era stato votato un anno prima in qualche modo era legge e quindi non c’era spazio non soltanto per l’ipotesi di un nuovo referendum, ma neppure per una soft Brexit.

Nelle trattative con la Commissione propedeutiche a quelle riguardanti gli accordi commerciali, tre erano i nodi fondamentali che sono stati sciolti (anche se con una grande dose di ambiguità diplomatica e di indeterminatezza) solo il 12 dicembre 2017, facendo presagire una soft Brexit (ma l’esito finale delle trattative rimaneva imprevedibile):

  • la quantificazione dell’accordo finanziario (quanti soldi l’UK deve ancora versare alla UE per liberarsi dagli impegni finanziari presi in passato): la Commissione chiedeva 60 miliardi di euro e alla fine l’UK ha dovuto accettare di pagare una cifra di 43,85 miliardi (39 miliardi di sterline);
  • la garanzia che gli oltre 3 milioni di cittadini europei che vivono e lavorano in Gran Bretagna e il milione e mezzo di cittadini inglesi che vivono e/o lavorano nei Paesi UE manterranno gli stessi diritti di cui godevano prima. I tribunali britannici presiederanno all’esecuzione dei diritti sui cittadini dell’Unione Europea in Gran Bretagna, ma possono riferire casi non chiari alla Corte di Giustizia Europea per otto anni dopo il ritiro;
  • la questione del confine irlandese: l’UK ha garantito che non ci sarà un confine fisico tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda con il cosiddetto backstop, una clausola di salvaguardia per conservare la fluidità del confine. A rendere possibile l’accordo di pace del Venerdì Santo del 1998 era stata la promessa che il confine tra le due Irlande sarebbe praticamente scomparso, il che ha permesso ai nazionalisti cattolici dell’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) di credere che la loro guerra non era stata solo una futile lotta che aveva provocato oltre 3 mila vittime. Potevano così sperare che con il libero transito tra i due lati della frontiera, le due parti dell’Irlanda avrebbero finito per riavvicinarsi e, prima o poi, per riunificarsi. L’eventuale rinascita di un vero e proprio confine, quindi, li avrebbe fatti sentire traditi col rischio che una parte dei militanti dissidenti repubblicani potessero riprendere le armi per ribellarsi. Dal 1998 la violenza non è mai del tutto scomparsa: da allora ci sono stati circa 150 morti, metà cattolici e metà protestanti, più 3 poliziotti e 2 soldati. Il governo inglese aveva proposto di concedere il cosiddetto “continued regulatory alignment” tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda dopo la Brexit, ma il Democratic Unionist Party, il cui supporto era necessario ai Conservatori per mantenere il potere, si è opposto alla concessione di questo status speciale se questo comportava l’esistenza di un confine fisico con il resto dell’UK. May, però, ha promesso che non vi sarebbe stata alcuna frontiera o dogana tra l’Irlanda del Nord e l’UK e che eventualmente sarebbero state trovate delle “soluzioni specifiche” per risolvere la questione.

Con una sostanziale resa della May alle richieste di Bruxelles, si è potuta così aprire la seconda fase della trattative, quella più difficile, complessa e impegnativa che riguardava l’economia, ossia il tipo di accordo commerciale tra l’UK e i Paesi della Unione Europea: la permanenza o meno nel mercato unico. Restarci era quello che caldeggiavano molti deputati laburisti, per ragioni soprattutto economiche, perché, come sembravano ben sapere banche e grandi imprese, un’uscita dal mercato unico avrebbe avuto effetti negativi immediati. Corbyn ha sostenuto che il Regno Unito dovesse rimanere quanto meno nell’unione doganale dell’UE, una soluzione che gli avrebbe permesso di commerciare con l’UE senza tariffe e quote interne, ma restando all’interno di una tariffa esterna comune. Una soluzione che è stata esclusa dal governo britannico perché il Regno Unito avrebbe dovuto applicare tutte le tariffe e i controlli sulle importazioni dell’Unione, e non avrebbe potuto negoziare accordi di libero scambio indipendenti con altri Paesi come gli Stati Uniti o l’Australia. Questo sarebbe stato un duro colpo per “Brexiteers” come Boris Johnson, che aveva fatto della Brexit una campagna per rendere la Gran Bretagna una grande nazione commerciale globale.

D’altra parte, all’opinione pubblica inglese è cominciato ad apparire sempre più evidente la stridente differenza tra ciò che era stato (irresponsabilmente) promesso agli elettori britannici (the “have-cake-and-eat-it” o “cherry-pickingpositions: uscire dall’UE, dall’unione doganale e mantenere l’accesso libero al mercato unico senza pagare alcun prezzo) e la realtà di ciò che era sul tavolo nella trattativa con Bruxelles. Per May e per il Regno Unito è diventato sempre più evidente che non sembrava esistere un modello di Brexit che potesse soddisfare l’ala destra del partito conservatore; l’esecutivo; il Partito Unionista Democratico dell’Irlanda del Nord, da cui May dipendeva per la maggioranza parlamentare; e i membri conservatori del Parlamento che avevano votato – insieme con il 48% del Paese – che la Gran Bretagna restasse nell’UE.

Date queste divisioni, non c’era accordo sulla Brexit che sia il governo britannico sia l’UE potessero accettare senza cedere e scontentare una parte degli interessi che rappresentavano. Qualsiasi accordo accettabile per il governo sarebbe stato troppo generoso con la Gran Bretagna per Bruxelles, mentre qualsiasi accordo accettabile per Bruxelles sarebbe stato troppo oneroso per Westminster.

A fine febbraio 2018 la UE ha pubblicato il suo progetto di accordo (di 118 pagine) di uscita della Gran Bretagna che prevedeva di mantenere l’Irlanda del Nord nel mercato unico e nell’unione doganale dopo la Brexit (ossia seguendo le norme e le aliquote dell’UE in materia di dogane, imposte sulle vendite, aiuti di Stato, accise e norme sanitarie e fitosanitarie), con controlli richiesti sulle merci provenienti dal resto del Regno Unito. Le leggi sul mercato unico si sarebbero applicate anche per garantire che il territorio rimanesse in linea con le leggi della Repubblica d’Irlanda che sono rilevanti per il flusso commerciale nord-sud (in modo da formare una “common regulatory area”). Questa sarebbe stata la posizione di ripiego che sarebbe entrata in vigore se il Regno Unito e l’Unione Europea non si fossero accordati su un accordo di libero scambio che avrebbe risolto il problema e se non fosse stato possibile trovare altre soluzioni.

Questa posizione della Commissione ha rischiato di mettere in crisi i negoziati. May ha subito dichiarato che non avrebbe aderito a “tutto ciò che minaccia l’integrità costituzionale del Regno Unito“, affermando che l’UE stava cercando di annettere l’Irlanda del Nord. “Nessun primo ministro dell’UK potrebbe mai essere d’accordo” – ha dichiarato May in Parlamento – “non lo faremo mai.” La proposta dell’UE avrebbe creato una nuova frontiera tra l’isola d’Irlanda e il continente britannico, un’eresia per il Partito Democratico Unionista nordirlandese che sosteneva il governo di minoranza della May. “Ci impegniamo a garantire che non ci sia un confine fisico tra Irlanda del Nord e Irlanda” – ha detto May – “ma il testo di dicembre ha anche chiarito che dovrebbero continuare ad esserci scambi tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito, come avviene oggi.

L’UE e la Repubblica d’Irlanda non consideravano il piano come un’interferenza negli affari interni del Regno Unito, piuttosto come il modo per onorare l’accordo già siglato con l’UK nel dicembre 2017 e risolvere il complesso problema che rappresentava il cuore della discussione: come controllare la futura frontiera terrestre dell’UK con la Repubblica d’Irlanda, membro dell’Unione Europea, dopo la Brexit. D’altra parte, l’UE ha sempre sostenuto che avrebbe aperto le trattative su un futuro accordo commerciale solo se “tutti gli impegni assunti durante la prima fase saranno pienamente rispettati e tradotti fedelmente in termini legali il più rapidamente possibile“. Il documento ha affermato inoltre che la Corte di Giustizia Europea sarebbe stato l’arbitro delle controversie sull’accordo di recesso, una posizione che è stata descritta da Jacob Rees-Mogg come la trasformazione del Regno Unito in uno “Stato vassallo”.

Da questo momento in avanti, May si è trovata a dover combattere contro una guerriglia parlamentare, orchestrata contro di lei e le sue ipotesi di accordo con la UE in gran parte dall’ala più ostinatamente pro-Brexit del suo stesso partito, che spingeva per una hard-Brexit. Durante il suo mandato di governo si è scatenata una lotta continua fra fazioni e aspiranti leader interni al partito conservatore e vi sono state 38 dimissioni di ministri e viceministri. Il suo accordo di uscita dalla UE, approvato dal Consiglio Europeo il 25 novembre 2018, è stato clamorosamente bocciato per ben tre volte dalla Camera grazie ad un fronte parlamentare comprendente, oltre ad un terzo dei Conservatori, Laburisti, Liberal-democratici e i partiti scozzesi, gallesi e unionisti nordirlandesi. Alla fine, stremata ed umiliata, May si è arresa e ha dato le sue dimissioni da leader dei Conservatori e da primo ministro il 7 giugno 2019, dopo aver dovuto chiedere alla UE delle estensioni alla scadenza concordata per l’uscita del Regno Unito (al 12 aprile e poi al 31 ottobre). Nel corso di un breve discorso, la politica “robotica” ha ammesso di avere fallito la sua missione (trasformatasi in una mission impossible), concludendo tra le lacrime. La Brexit le aveva consentito di diventare premier, ma la Brexit è stata anche la sua rovina.

Aveva promesso una “leadership forte e stabile nell’interesse nazionale“, di unire la nazione divisa dal referendum – di costruire “un Paese che funziona per tutti” e di combattere le “brucianti ingiustizie” che correttamente aveva identificato come i fattori che avevano portato alla Brexit – ma poi, nei tre anni successivi, ha presieduto al maggiore aumento della povertà infantile in tre decenni, ad un peggioramento della crisi abitativa e al lancio del sistema di “credito universale” che ha creato grandi difficoltà alle persone in condizione di povertà. La May ha lasciato una nazione incattivita e senza una prospettiva. Aveva promesso di proteggere l’unità nazionale e ora si rischiava la secessione di Scozia e Irlanda del Nord; di dimostrare che i Tories non sono un partito cinico e impopolare e ha lasciato un partito dilaniato e allo sbando.

Boris Johnson e la vittoria della hard Brexit

Con le dimissioni della May dalla carica di premier e dalla leadership dei Tories, si è aperta la lotta per la successione che ha portato alla vittoria di Boris Johnson (23 maggio), che ha fatto una campagna su una piattaforma di riduzioni fiscali per i ricchi combinata con una ferma difesa dei banchieri e l’impegno a forzare un no deal sulla Brexit ad ottobre.

Una volta al governo Johnson ha provato a ricontrattare con la UE l’accordo raggiunto da May per evitare il famigerato backstop, il protocollo di salvaguardia per evitare un confine fisico tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Soprattutto, ha apertamente minacciato e provato a chiudere e a sciogliere la Camera ed andare ad elezioni. Ha subito sei sconfitte parlamentari nel giro di sei giorni. Ma poi, proprio quando sembrava che le trattative con la UE fossero finite su un binario morto ed era già cominciato, tra Londra e Bruxelles, il gioco dello scaricabarile, è arrivato un incontro tra Johnson e il primo ministro della Repubblica d’Irlanda Varadkar in cui hanno annunciato “un cammino verso un’intesa”. Johnson ha concesso che l’Irlanda del Nord potesse restare nello stesso regime doganale della UE, oltre a rimanere allineata al mercato unico. Una soluzione analoga era stata respinta da Theresa May come un accordo che nessun primo ministro britannico poteva accettare.

In pratica, su tutti i prodotti in entrata nell’Irlanda del Nord viene applicata la regolamentazione dell’UE. Quelli poi destinati ad attraversare il confine con la Repubblica d’Irlanda (entrando così all’interno del Mercato Unico Europeo) sono soggetti ai dazi europei, mentre su quelli destinati alla sola Irlanda del Nord si possono applicare i dazi del Regno Unito. In questo modo si garantisce che – almeno in parte – l’Irlanda del Nord rimane nella stessa unione doganale del Regno Unito. Il nuovo accordo permette di non avere alcun confine fisico tra le due parti dell’isola d’Irlanda, rispettando quanto disposto nell’accordo del Venerdì Santo del 1998 e consentendo che il 30% del latte della Repubblica d’Irlanda possa essere esportato senza dazi nell’Irlanda del Nord per la produzione di formaggio e burro (ma ci sono anche bovini, pollame, funghi, etc.), mentre 400 mila pecore nordirlandesi all’anno possano essere macellate nei mattatoi della Repubblica. Confine fisico e dogana sono stati invece spostati in prossimità del mare d’Irlanda: l’applicazione dei dazi europei e i controlli sul rispetto della regolamentazione UE (come ad esempio i controlli fitosanitari) sono stati spostati ai porti che collegano la Gran Bretagna all’Irlanda del Nord.

Per cercare di superare le resistenze del DUP al nuovo accordo – diversamente da quello di May – ha previsto il coinvolgimento di Stormont (il Parlamento dell’Irlanda del Nord), che dovrà pronunciarsi in merito al mantenimento dell’accordo 4 anni dopo il periodo di transizione (ovvero verso la fine del 2024). In caso di voto negativo, Londra e Bruxelles avrebbero 2 anni di tempo per decidere cosa fare. Per confermare l’accordo per altri 4 anni, a Stormont basterà un voto a maggioranza semplice (se otterrà invece una maggioranza ben più ampia l’accordo resterà in vita per altri 8 anni). Quello della maggioranza semplice era l’aspetto più controverso, perché gli unionisti del DUP chiedevano fosse rispettato quanto previsto dall’accordo del Venerdì Santo, ovvero che sulle decisioni più importanti Stormont adottasse il cosiddetto “cross-community support”: l’accordo passa se gli unionisti e gli indipendisti l’approvano ciascuno al proprio interno. In pratica ciò si sarebbe tradotto in un diritto di veto in capo agli uni o agli altri (meccanismo che in passato ha permesso al DUP di bloccare matrimonio omosessuale e aborto, per cui le leggi contro l’aborto sono state abrogate solo nell’ottobre 2019). Un veto che né Johnson né l’UE hanno inteso concedere agli unionisti e che quindi il DUP ha interpretato come un vero e proprio tradimento da parte di Johnson.

Risolta in questo modo la questione nordirlandese e ottenuto lo scioglimento della Camera, Johnson ha portato il Paese alle elezioni il 12 dicembre 2019, trasformandole in un remake del referendum sulla Brexit. Il Labour era favorevole ad un accordo per restare nel mercato comune e ad una seconda consultazione confermativa, i Lib-Dem per la revoca della Brexit, Johnson e i Tories per l’approvazione del nuovo accordo, Farage favorevole ad un no-deal. Johnson ha impostato tutta la sua campagna sullo slogan “get Brexit done”, mentre Corbyn sull’opportunità storica “per trasformare il nostro Paese, colpire gli interessi costituiti che tengono bloccato il popolo ed assicurare che nessuna comunità sia lasciata indietro”, dando alle elezioni un significato politico molto più ampio e una caratterizzazione fortemente anti-austerità, anti-disuguaglianze e anti-establishment, (contro “i privilegi dei pochi”). Ha promesso tasse più alte sulle società (portando l’aliquota al 26% e introducendo una web tax e una tassa sulle corporations del petrolio e del gas) e sul 5% più ricco della società (sopra 80 mila sterline un’aliquota del 45%; sopra 125 mila del 50%). Lo slogan della campagna del Labour, “Its time for real change”, è stato sostenuto da proposte radicali per ricostruire tutti i servizi pubblici (NHS, istruzione, life-long learning, etc.) e ridisegnare l’economia britannica in senso socialdemocratico, accentuando l’impostazione radicale della piattaforma delle elezioni 2017, nelle quali il Labour fu protagonista di una spettacolare rimonta. Il Labour poteva contare sul mezzo milione di iscritti e soprattutto sulle migliaia di giovani attivisti del movimento grassroots Momentum.

Con due semplicissimi e chiari sloganget Brexit done (inventato da Cummings) e “unleash Britain’s potential”– Johnson ha vinto le elezioni (365 seggi, +66), sfondando nelle medie e piccole città, nelle aree rurali e nel cosiddetto “muro rosso” del Labour, ossia nelle aree del nord, Midlands e Galles storicamente laburiste, ma sostenitrici della Brexit. Corbyn e il Labour hanno tenuto nelle grandi aree metropolitane, ma nel complesso pagato duramente (203 seggi, -42) la mancanza di una posizione chiara sull’Europa e sulla Brexit (l’idea di un secondo referendum è stata una concessione all’ala moderata del partito e molti hanno percepito il Labour come pro-Remain), l’ambizione di “costruire il socialismo in un solo Paese” che ha spaventato il centro moderato, mentre non è stato ritenuto credibile da una parte del tradizionale elettorato laburista, e le accuse di tolleranza dell’antisemitismo e di settarismo del gruppo dirigente Corbynista. I nazionalisti dell’SNP hanno conquistato 48 seggi su 54 (+13) sulle ali della minaccia della secessione, mentre gli unionisti nordirlandesi (DUP) sono usciti ridimensionati (8 seggi, -2). Il vero grande fallimento delle elezioni è stato quello dei Lib-Dem (11 seggi, -10): avevano una grande opportunità come partito risolutamente opposto alla Brexit, ma la leader, Jo Swinson, ha commesso il grande errore di partire dall’intenzione di voler annullare la Brexit senza passare dall’approvazione popolare.

Una settimana dopo la schiacciante vittoria elettorale ottenuta dai conservatori, la Camera ha approvato in seconda lettura la legge sull’accordo di recesso dall’Unione Europea con una maggioranza di 124 voti (358 a 234). La legge è stata privata di una serie di impegni che il governo aveva fatto in precedenza nel tentativo di farla approvare prima delle elezioni, comprese le protezioni ai lavoratori, la Corte europea sui diritti umani e l’accoglienza dei minori rifugiati. Johnson ha insistito sul fatto che su questi temi la Brexit restituisce alla Gran Bretagna il diritto di prendere le proprie decisioni: “approfitteremo di questa nuove libertà per legiferare in parallelo sull’ambiente, sui lavoratori e sui diritti dei consumatori“.

Il 22 gennaio 2020, tre anni e sette mesi dopo il referendum, l’accordo negoziato da Boris Johnson con l’Unione Europea ha ricevuto l’approvazione definitiva del Parlamento britannico. Dopo le firme della regina, von der Leyen e Michel, la settimana successiva è toccato al Parlamento europeo votare e approvare l’intesa (621 a 49). Dopodiché, dalle 23 ora di Londra del 31 gennaio, mezzanotte sul continente, il Regno Unito è ufficialmente uscito dalla UE di cui ha fatto parte per 45 anni. E’ iniziata la fase di transizione che si è conclusa il 31 dicembre 2020, mentre si è aperta la trattativa con la UE su un accordo commerciale post-Brexit.

L’accordo commerciale e di cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea

Ad inizio settembre 2020 Johnson ha annunciato che stava elaborando un disegno di legge sul mercato interno che avrebbe annullato, almeno in parte, il protocollo dell’accordo di recesso dalla UE firmato a gennaio riguardante l’Irlanda del Nord. Una mossa che il governo stesso ha ammesso avrebbe violato il diritto internazionale e che minacciava di far collassare le fragili trattative con Barnier (bloccate sulle questioni degli aiuti di Stato alle imprese e sui diritti di pesca). D’altra parte, Johnson ha anche lanciato un ultimatum ai negoziatori, dicendo che il Regno Unito e l’Unione Europea dovevano concordare un accordo commerciale post-Brexit entro il 15 ottobre (data del Consiglio Europeo) o la Gran Bretagna se ne sarebbe andata per sempre con un no-deal.

Un annuncio che ha creato allarme e Belfast e Dublino e che ha provocato prima il fermo richiamo da parte della von der Leyen al rispetto degli impegni sottoscritti e delle norme internazionali, poi Bruxelles ha dato al governo Johnson tre settimane per abbandonare i piani per infrangere il diritto internazionale o affrontare sanzioni finanziarie o commerciali, poiché gli avvocati dell’UE hanno stabilito che la Gran Bretagna aveva già violato l’obbligo di buona fede previsto dall’accordo di recesso (articolo 5) presentando la legge sul mercato interno.

Ciò nonostante, e nonostante le tensioni del partito Tory, Johnson è andato avanti. Un prima lettura la legge sul mercato interno è stata approvata per 77 voti (30 parlamentari Tory si sono astenuti e 2 hanno votato contro), per essere poi approvata in seconda lettura con 340 voti contro 256 e passare al dibattito alla House of Lords, dove Johnson non aveva la maggioranza e la legge stata bocciata (9 novembre). In ogni caso, la Commissione Europea ha intrapreso un’azione legale contro il Regno Unito per aver “violato l’obbligo di buona fede previsto nell’accordo di recesso”. Solo ad inizio dicembre, il governo ha deciso di eliminare tutte le clausole Brexit relative all’Irlanda del Nord nel testo della legge sul mercato interno in cambio della promessa dell’UE di ridurre al minimo i controlli da imporre su cibo e medicinali che sarebbero entrati nell’Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna dal 1° gennaio 2021.

L’8 dicembre il NHS ha iniziato a vaccinare circa 800 mila cittadini con il vaccino sviluppato da Pfizer-BioNTech, ma tutta l’attenzione politica era concentrata sulle frenetiche trattative con la UE per arrivare ad un accordo commerciale e di cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea sul dopo Brexit. Johnson è volato a Bruxelles per colloqui con la von der Layen. Dopo l’incontro, entrambi hanno affermato che un “no-deal” era il risultato più probabile. Le questione irrisolte restavano le stesse da mesi:

  • come ci si assicura di poter introdurre un sistema “no quote, no tariffe, no dumping”, ossia le condizioni di concorrenza, che implica che le regole non divergano (il cosiddetto level-playing field);
  • la pesca, settore che pesa meno dell’1% del PIL, ma ha un forte valore simbolico, riguarda la possibilità per gli europei di pescare nelle acque inglesi, le quote di pesca, l’export verso la UE;
  • la governance, come si decide, come ci si assicura su eventuali controversie sull’applicazione degli accordi, quale debba essere la giurisdizione che giudica (la UE proponeva la Corte di Giustizia Europea).

Con le trattative tra UK e UE che proseguivano in modo febbrile, Johnson si è trovato isolato, con l’incubo degli scaffali dei supermercati vuoti a Londra, i voli aerei cancellati, i traghetti fermi e l’Eurotunnel chiuso a causa della variante inglese del coronavirus. Il premier britannico ha rassicurato: “Le nostre scorte sono robuste”, ma anche la destra Tory lo ha attaccato perché sapeva della mutazione del coronavirus già a settembre. Alla fine, alla vigilia di Natale, l’accordo sui futuri rapporti commerciali e di cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea è arrivato e Johnson ha cantato vittoria per “Global Britain” e “la completa riconquista dell’indipendenza nazionale”. “Finalmente abbiamo ripreso il controllo sulle nostre leggi e il nostro destino, possiamo ora definire i nostri standard, innovare come vogliamo noi. D’ora in poi, le leggi britanniche saranno fatte dal Parlamento britannico, interpretate dai giudici britannici che siederanno in corti britanniche”, ha dichiarato esultante Johnson. Dopo oltre quattro anni di tensioni, quasi un anno di negoziati, scadenze disattese e posticipate, e quando in molti avevano perso ogni speranza, gli ultimi ostacoli al compromesso tra Londra e Bruxelles sono stati rimossi.

Mentre il Regno Unito si trovava ad affrontare le conseguenze della variante inglese del CoVid-19, Johnson ha fatto concessioni che hanno finalmente sbloccato l’accordo. UE e UK hanno negoziato un accordo commerciale e di cooperazione prevalentemente di libero scambio (“Canada style” secondo Johnson) che permette alle merci inglesi di entrare nel mercato unico europeo di 450 milioni di consumatori (nel 2019 il Regno Unito ha esportato il 43% dei propri beni verso la UE) senza alcun dazio e vincoli quantitativi, mentre alcuni adempimenti doganali entrano in vigore con possibili code alle dogane, e viceversa alle merci provenienti da Paesi UE e dirette verso Londra. Secondo il negoziatore UE Barnier, questo accordo è destinato a diventare “il modello per i prossimi trattati di libero scambio che l’Unione firmerà in futuro”. Quasi del tutto escluso è il settore dei servizi (inclusi quelli finanziari), malgrado questi siano di significativa importanza per il Regno Unito. Ma nelle 1.246 pagine del testo principale dell’accordo e negli accordi collaterali sulla cooperazione nucleare o sullo scambio di informazioni riservate c’è spazio anche per la collaborazione in altri campi (come ad esempio la difesa e l’intelligence) che peraltro potrà essere estesa e approfondita in futuro.

Tra i punti chiave dell’accordo c’è il cosiddetto level playing field. In pratica, Bruxelles teme che in futuro Londra possa promuovere delle norme (ad esempio in campo fito-sanitario, ambientale, dei diritti dei lavoratori e della fiscalità) meno stringenti rispetto a quelle che l’UE impone alle proprie aziende, con il risultato di una concorrenza sleale da parte di Londra. Cosa che potrebbe avvenire anche nel caso in cui il Regno Unito riconoscesse alle proprie imprese degli aiuti di Stato più generosi rispetto a quelli dei Paesi europei (che devono sottostare alle regole comunitarie) distorcendo la concorrenza. L’accordo prevede che Londra possa sì discostarsi dalla regolamentazione europea (mentre la UE chiedeva un “allineamento dinamico”), ma non fino al punto di arrecare un danno alla libera e leale concorrenza.

Qui, entra in gioco la governance dell’accordo, ovvero le procedure che vengono avviate se una delle due parti ritiene che l’altra abbia assunto un comportamento sleale o si rifiuti di rispettare gli accordi, come quello sulla pesca. Tra questi ultimi anche quelli già previsti nell’accordo di recesso per i quali il Regno Unito dovrà provvedere a effettuare controlli doganali nel mare d’Irlanda, di fatto istituendo una (per quanto piccola) barriera doganale tra l’isola di Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, al fine di garantire il rispetto degli accordi del Venerdì Santo, che vietano l’istituzione di un confine fisico sull’isola d’Irlanda, tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord.

Sul nodo cruciale della governance, Bruxelles ha ottenuto un meccanismo di arbitrato particolarmente snello e veloce nel caso in cui sorgano delle divergenze future sull’accordo e la possibilità di applicare delle sanzioni (ad esempio sotto forma di dazi) qualora il Regno Unito si discosti da una leale concorrenza o non rispetti gli accordi (e ovviamente viceversa). In ogni caso, nella aggiudicazione dei contenziosi futuri è stato escluso qualsiasi ruolo della Corte di Giustizia Europea, che potrà però intervenire in eventuali contenziosi riguardanti i rapporti con l’Irlanda del Nord.

Alla Camera dei Comuni la legge sull’accordo commerciale e di cooperazione con l’UE è stata approvata velocemente in seconda lettura con 521 voti contro 73, una maggioranza di 448. Almeno 36 parlamentari laburisti non hanno seguito la linea del partito astenendosi, ma solo uno ha votato contro. Hanno votato contro SNP, Lib Dem, DUP, Plaid Cymru e SDLP. In poche ore anche la Camera dei Lords ha votato a favore. La legge è stata approvata in terza lettura dai Commons ed è quindi stata firmata dalla regina. Da quel momento, il Regno Unito non fa più parte dell’Unione Europea né è soggetto alle sue regole. Ha chiuso la porta e se ne è andato.

La questione nord irlandese è aperta

Negli ultimi mesi, dopo la firma dell’ultimo accordo sui rapporti futurii, la situazione nell’Irlanda del Nord è diventata la principale causa immediata di preoccupazione sia per il Regno Unito sia per l’Unione Europea.

L’accordo del Venerdì Santo era basato su un delicato equilibrio che, attraverso l’assenza di un confine sull’isola d’Irlanda, consentiva ai cittadini dell’Irlanda del Nord di abbracciare un’identità irlandese o britannica o nordirlandese – o tutte e tre insieme – come desideravano. Quell’equilibrio, a sua volta, dipendeva dal fatto che il Regno Unito e la Repubblica d’Irlanda fossero membri del mercato unico e dell’unione doganale dell’UE. Al fine di mantenere tale assenza di confine dopo la Brexit, il protocollo dell’Irlanda del Nord ha stabilito la necessità di controlli doganali sulle merci che si spostano nell’Irlanda del Nord dal resto del Regno Unito.

Piuttosto che affrontare i problemi pratici e tecnici che questo impegno avrebbe creato – e fare i preparativi per ridurre le interruzioni – i ministri di Londra hanno scelto semplicemente di negare che ci sarebbero stati controlli. Nel 2020, Johnson ha detto alle aziende che “non avrebbero assolutamente” dovuto compilare moduli per inviare merci attraverso il Mare d’Irlanda, suggerendo che o non comprendesse l’accordo di recesso o che non avesse remore a travisarlo.

Invece, ci sono stati scaffali vuoti nei supermercati in Irlanda del Nord, poiché anche le grandi catene commerciali hanno lottato con l’onere amministrativo di far passare alcune merci attraverso i nuovi controlli. La burocrazia ha costretto alcune aziende britanniche a smettere del tutto di vendere merci ai clienti dell’Irlanda del Nord.

A fine gennaio, l’UE ha intrapreso il passo incendiario di attivare l’articolo 16 del protocollo dell’Irlanda del Nord senza consultazione o notifica preventiva come parte della sua lite con AstraZeneca sulla fornitura di vaccini. Lo ha poi ritirato quasi immediatamente, ma non prima di aver ulteriormente danneggiato la fiducia tra l’UE e il Regno Unito, abbassando il livello delle minacce per attivare l’articolo 16 in future controversie. Al tempo stesso, il Regno Unito ha scritto all’UE un elenco di richieste, minacciando di utilizzare “tutti gli strumenti a sua disposizione” se l’UE non rispetta i suoi termini, mentre il Partito Democratico Unionista ha chiesto la sospensione del protocollo. Le ispezioni nei due porti più trafficati dell’Irlanda del Nord sono state interrotte dopo che erano state fatte minacce al personale che eseguiva i controlli. Si è presto determinata una situazione delicata, ma del tutto prevedibile, creata dagli accordi per la Brexit.

Il 15 marzo l’UE ha annunciato di aver avviato una azione legale alla Corte di Giustizia Europea contro Londra per non aver rispettato il Protocollo sull’Irlanda del Nord incluso proprio nell’accordo Brexit tra i due blocchi e che il governo di Boris Johnson ha deciso unilateralmente di non rispettare. “Si tratta di una violazione di un accordo internazionale vincolante”, hanno detto da Bruxelles, “e crea un serio problema all’Europa. Per questo abbiamo deciso di agire”. Si è trattato della seconda volta in sei mesi che Bruxelles ha avviato una procedura di infrazione contro il Regno Unito sulla Brexit, dopo la minaccia della fine del 2020 da parte del primo ministro britannico Johnson di ignorare parte dell’accordo di recesso attraverso la legge sul mercato interno. Al Regno Unito è stato concesso un mese per presentare le proprie osservazioni nell’ambito della costituzione in mora. Se non fosse entrato in buona fede in un negoziato, l’UE avrebbe potuto avviare un meccanismo di risoluzione delle controversie che, se non risolto, avrebbe potuto “finire con l’imposizione di sanzioni finanziarie” o una sospensione dell’accordo di recesso in tutti gli aspetti tranne l’accordo sui cittadini dell’UE.

L’avviso formale di azione legale è stato emesso con una lettera di accompagnamento del vicepresidente della Commissione europea, Maroš Šefčovič, al ministro della Brexit David Frost. Šefčovič ha scritto che “le decisioni unilaterali e le violazioni del diritto internazionale da parte del Regno Unito annullano il suo stesso scopo e minano la fiducia tra di noi“. La lettera ha denunciato “violazioni di disposizioni sostanziali del diritto dell’UE in materia di circolazione delle merci e viaggi di animali domestici rese applicabili in virtù del protocollo sull’Irlanda e l’Irlanda del Nord“. Ha invocato l’articolo 12, clausola 4, del protocollo dell’Irlanda del Nord, nonché le disposizioni più ampie sulla circolazione delle merci ai sensi dell’articolo 258 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. L’UE ha accusato inoltre il Regno Unito di violare il dovere di buona fede ai sensi dell’articolo 5 dell’accordo di recesso.

Tutto è nato da un annuncio unilaterale (ossia senza alcuna discussione o consultazione con l’UE) del governo Johnson due settimane prima (3 marzo), per cui il Regno Unito non avrebbe garantito, almeno fino ad ottobre, i pattuiti controlli doganali di beni e merci che viaggiano dalla Gran Bretagna ed entrano in Irlanda del Nord. Commercianti e spedizionieri erano stati informati che, in violazione dell’accordo sulla Brexit, potevano continuare a inviare merci di origine animale, alimenti, mangimi e prodotti vegetali senza la necessità di documenti cartacei come certificati sanitari. Londra, infatti, ha deciso di estendere unilateralmente il “periodo di grazia” su questi controlli, che originariamente sarebbe scaduto il 1° aprile, anche perché non ha mai fatto preparativi per un nuovo confine forse per non rendere esplicito ciò che il modello di Brexit negoziato con l’UE significava per l’Irlanda del Nord.

Londra ha compiuto un clamoroso dietrofront rispetto agli impegni presi con la UE, adducendo come causa il fatto che molte imprese nordirlandesi non fossero pronte al nuovo regime dei numerosi controlli doganali dal 1° aprile, e ciò avrebbe causato ingorghi e ritardi nei porti e nei checkpoint, con il rischio di svuotare gli scaffali dei supermercati dell’Irlanda del Nord. Questo avrebbe provocato pericolose tensioni per il governo britannico in un contesto già molto agitato dalle recenti scritte minatorie apparse sui muri di Belfast e Larne contro gli agenti doganieri in Irlanda del Nord.

Da inizio aprile, funzionari di Londra e Bruxelles sono stati coinvolti in intensi “colloqui tecnici” sulla questione dei controlli doganali tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, con l’obiettivo di arrivare ad un nuovo accordo che consentisse di facilitare i controlli alle frontiere. Dal punto di vista della UE, il 90% dei controlli alle frontiere potrebbe scomparire se la Gran Bretagna acconsentisse ad allineare gli standard alimentari a quelli del blocco. Ma, un simile accordo sui prodotti alimentare è e sarà improbabile in fututo perché rappresenterebbe un’inversione di marcia completa per il Regno Unito, che si è opposto all’allineamento normativo per ottenere una hard Brexit.

La reazione politica dei lealisti: i nuovi troubles

Ai primi di marzo, i gruppi paramilitari lealisti nordirlandesi (unionisti protestanti) hanno scritto una lettera al primo ministro Johnson, dicendo di volere temporaneamente ritirare il loro sostegno all’accordo di pace del 1998 – noto come accordo di Belfast o del Venerdì Santo – a causa delle preoccupazioni sul protocollo sull’Irlanda del Nord allegato all’accordo sulla Brexit. Hanno promesso un’opposizione “pacifica e democratica” al protocollo, ma si è trattato di un primo avvertimento per Johnson, il suo omologo irlandese Micheál Martin e l’Unione Europea.

I paramilitari lealisti – una forza di circa 10 mila uomini – che fanno parte del Loyalist Communities Council, tra cui l’Ulster Volunteer Force, l’Ulster Defense Association e il Red Hand Commando, si sono detti preoccupati per l’interruzione del commercio tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord a causa dell’accordo sulla Brexit. “Per favore, non sottovalutate la forza dei sentimenti su questo tema in tutta la famiglia unionista. Se voi o l’UE non siete pronti a onorare la totalità dell’accordo [del 1998], allora sarete responsabili della distruzione permanente dell’accordo“, hanno affermato nella lettera, sostenendo che non sarebbero tornati all’accordo fino a quando i loro diritti non fossero stati ripristinati e il protocollo dell’Irlanda del Nord – parte del Trattato Brexit del 2020 – non fosse stato modificato per garantire scambi commerciali senza restrizioni tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Ma, hanno sostenuto anche che il loro disaccordo principale era più sostanziale: che nel protocollo dell’Irlanda del Nord la Gran Bretagna, l’Irlanda e l’Unione Europea hanno violato i loro impegni verso l’accordo di pace del 1998 e le due comunità.

I paramilitari lealisti avevano acquisito notorietà internazionale nel 2001 e nel 2002, quando folle inferocite di manifestanti hanno attaccato le studentesse che frequentavano una scuola cattolica in una zona protestante di Belfast. L’ultimo grande ciclo di violenza lealista era iniziato alla fine del 2012, quando il Belfast City Council, dominato dai nazionalisti, aveva votato per non sventolare più la bandiera britannica ogni giorno dell’anno, generando rabbia diffusa tra i lealisti che sentivano che i loro simboli culturali venivano messi da parte; circa 157 persone erano rimaste ferite in quelle rivolte.

L’Ulster Volunteer Force (UVF), gruppo paramilitare lealista che ha svolto un ruolo centrale nella lotta contro l’IRA durante The Troubles ed è stato in ultima analisi responsabile della morte di oltre 400 persone, è stato accusato di intimidire le famiglie cattoliche fuori dalle loro case in alcune parti del Paese. Il gruppo era dietro a recenti attacchi a tre case a Belfast in cui si credeva vivessero dei cattolici e ha ordinato a famiglie cattoliche di lasciare le loro case a Carrickfergus.

Al momento della firma dell’accordo del Venerdì Santo, il sostegno dei gruppi paramilitari lealisti era considerato così strumentale al successo del processo di pace che sia il taoiseach irlandese che il primo ministro inglese tennero diversi incontri privati con i leader lealisti per convincerli a sostenere un compromesso politico. Ed è bene ricordare che quando alcuni dei leader paramilitari lealisti si erano dichiarati favorevoli alla fine della violenza, il DUP li aveva ridicolizzati. Il DUP ha mantenuto la lealtà delle fazioni che si opponevano all’accordo del Venerdì Santo. Gli unionisti sono sempre stati profondamente divisi sui termini dell’accordo del Venerdì Santo. Sebbene il 71% degli elettori dell’Irlanda del Nord fosse favorevole all’accordo nel 1998, solo il 57% dei protestanti lo era, rispetto al 99% dei cattolici. Lo stesso DUP ha accolto membri dissidenti del Partito Unionista dell’Ulster contrari all’accordo e si è opposto all’accordo fino al 2007, quando lo storico leader del partito, Ian Paisley Sr, si è incontrato con il leader storico di Sinn Féin, Martin McGuinness.

La decisione del DUP di far parte di un governo regionale insieme allo Sinn Féin nel 2007 ha aumentato il sentimento di marginalizzazione tra molti unionisti di base. Significava anche che non c’erano più grandi partiti unionisti anti-accordo, rendendo la protesta di strada un’alternativa più attraente.

Il DUP ha pensato di piacere davvero al Partito Conservatore, quando sembrava perfettamente ovvio a chiunque prestasse attenzione che tutto ciò che Theresa May cercava erano i loro preziosi 10 voti per sostenere il suo governo dopo le disastrose elezioni del 2017. Una volta che Boris Johnson non ha più avuto bisogno di quei voti, la finzione poteva finire.

Pochi giorni dopo lo scontro tra l’Unione Europea e il governo Johnson, il 29 marzo sono iniziati i nuovi Troubles notturni in Irlanda del Nord, nottate di scontri e proteste, con decine di feriti e arresti, principalmente tra polizia e unionisti protestanti e qualche nazionalista. Gli scontri notturni sono scoppiati per la prima volta a Londonderry, una città prevalentemente cattolica che tuttavia occupa una posizione elevata nella memoria culturale protestante.

Londonderry, anche chiamata Derry, alla frontiera irlandese, è tristemente nota per il Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, quando l’esercito britannico aprì il fuoco su una manifestazione pacifica uccidendo 14 persone, al picco dei The Troubles che in trent’anni causarono la morte di circa 3.500 persone. Nel gennaio 2019, a Londonderry era stata fatta esplodere un’automobile, evento che aveva fatto temere una nuova ondata di violenza proveniente da gruppi paramilitari, in piena tensione per la Brexit. La nuova IRA è emersa nel 2012 con la fusione di diversi gruppi contrari al processo di pace, tra cui la Real IRA, ed è stata collegata all’omicidio di due agenti penitenziari e di numerosi altri attacchi. Sempre nel 2019, appena prima del fine settimana di Pasqua, nel corso del quale i repubblicani irlandesi celebrano la Rivolta di Pasqua contro i britannici del 1916, si sono verificate delle violenze a Londonderry. Lyra McKee, una giornalista di 29 anni di Belfast è morta, colpita da colpi d’arma da fuoco durante gli scontri in cui la polizia è stata bersagliata di spari e lanci di bombe molotov durante un’operazione di sicurezza contro i “repubblicani dissidenti” (la nuova IRA) nel quartiere di Creggan, una tradizionale roccaforte repubblicana. La polizia aveva aperto un’inchiesta, trattando l’episodio come “atto terroristico“.

Gli scontri notturni sono durati per una settimana e si sono estesi ad altre cittadine e città dell’Irlanda del Nord, tra cui Belfast, Carrickfergus, Ballymena e Newtownabbey, con il preoccupante il coinvolgimento nelle proteste di giovani e giovanissimi dei quartieri popolari poveri lealisti su cui i vertici dei partiti unionisti (Democratic Unionist Party, Ulster Unionist Party e Traditional Unionist Voice) non sembrano avere più presa. Questi giovani dovevano essere la generazione che avrebbe dovuto ereditare la pace, la stabilità e la prosperità, e invece sono cresciuti in un contesto che ha continuato a vivere il trauma lacerante del conflitto, ricordato incessantemente dai murales, dalle bandiere, dai memoriali degli assassinati e di coloro che hanno ucciso. Le divisioni tribali continuano ad essere alimentate anche dalla continua segregazione nel sistema educativo, che comprende scuole protestanti, scuole cattoliche e scuole integrate. Il bilanciamento degli interessi confessionali, culturali e nazionali ha creato un sistema scolastico diviso, frammentato e costoso. Belfast est, da sempre a stragrande maggioranza protestante, ha visto le quasi 100 “linee della pace” della città – barriere di mattoni, acciaio e filo spinato che separano i distretti nazionalisti e unionisti – continuare a crescere durante gli ultimi due decenni di relativa calma, un periodo in cui il resto della capitale dell’Irlanda del Nord è diventato sempre più cattolico.

Ad accendere la scintilla è stata, il 28 marzo, la decisione della magistratura e polizia locale di non procedere contro le circa duemila persone e i leader del Sinn Féin, il partito cattolico repubblicano, che nel giugno 2020 avevano violato le restrizioni per il CoVid-19, partecipando al funerale di Bobby Storey, un ex membro dell’IRA. Le foto dell’evento hanno mostrato centinaia di persone, comprese figure senior dello Sinn Féin, nonostante vi fosse un limite rigoroso alle riunioni all’aperto.

Per la prima volta da anni, a Belfast e a Londonderry la polizia ha usato gli idranti, i lacrimogeni e i proiettili di gomma per disperdere giovani lealisti che lanciavano mattoni, fuochi d’artificio, sassi e bombe molotov. Almeno 88 agenti di polizia sono rimasti feriti nel corso dei disordini. All’inizio si è ipotizzato che i gruppi paramilitari lealisti fossero dietro la violenza – o almeno avessero aiutato a istigarla – ma la polizia ha riferito che la protesta era in gran parte spontanea e disorganizzata. Tuttavia, è difficile ignorare il ruolo che i paramilitari hanno svolto nel suscitare il malcontento pubblico negli ultimi anni. Così come è difficile prevedere quale sarà l’esito di questa ondata di disordini. Tutti i leader politici dell’Irlanda del Nord hanno condannato fermamente la violenza e larghe sezioni di entrambe le comunità hanno respinto completamente qualsiasi tentativo da parte dei paramilitari di trascinare il Paese nella violenza.

Al centro di tutto c’è il timore che la Brexit possa alla fine portare a un’Irlanda unita. I lealisti ed unionisti temono che in futuro, il cosiddetto meccanismo di backstop che ha creato di fatto un confine doganale “invisibile” nel Mare d’Irlanda, tra l’Irlanda del Nord e le altre parti del Regno Unito, possa materializzarsi, separandoli dalla Gran Bretagna e trasformandoli in una minoranza (protestante) in un’Irlanda territorialmente riunita, repubblicana e a maggioranza cattolica.

Qualsiasi nuovo accordo tra Londra e Bruxelles incentrato sul protocollo non sarà in grado di fugare i timori delle comunità lealiste che si identificano principalmente come britanniche e protestanti e che vedono il confine commerciale come un attacco al posto occupato dall’Irlanda del Nord nell’unione del Regno Unito. Lo status costituzionale controverso dell’Irlanda del Nord è l’asse principale dell’espressione politica nel Paese e la maggior parte dei lealisti vota per i partiti unionisti che considerano la protezione dell’unione come la loro massima priorità.

Una clausola dell’accordo del Venerdì Santo prevede la possibilità di un referendum per l’Irlanda unita. Il ministro per dell’Irlanda del Nord del Regno Unito ha la facoltà di indire un referendum in qualsiasi momento, tuttavia è legalmente obbligato a indirne uno se c’è una maggioranza nell’Irlanda del Nord a favore dell’unificazione. La Brexit ha aumentato l’interesse per il referendum, anche perché la maggioranza delle persone dell’Irlanda del Nord ha votato per rimanere nella UE, proprio come la Scozia. Da allora, i nazionalisti hanno usato questo risultato per intensificare la loro spinta per un referendum sull’unità irlandese. Questa campagna si verifica sullo sfondo del cambiamento demografico che sembra favorire i cattolici, dopo decenni di tassi di natalità più alti e più bassa emigrazione rispetto ai protestanti, e un aumento della popolarità dello Sinn Féin in tutto il Paese. Di conseguenza, un numero sempre maggiore di cittadini nordirlandesi (ora circa il 43%) considera l’unità irlandese un’opzione praticabile per il futuro. L’Unione Europea stessa ha dichiarato che in caso di Irlanda unita, l’isola diventerebbe automaticamente parte della UE, senza alcuna negoziazione e ritardo.

Il risultato della decisone di Boris Johnson di optare per uscire dal mercato unico e dall’unione doganale, rendendo quindi necessari i controlli sulle merci, e al contempo raccontando ai nordirlandesi che la Brexit ci sarebbe stata, ma che non ci sarebbero stati confini a dividere il Regno Unito. E intanto quei confini venivano eretti e a pagarne le conseguenze sono i nordirlandesi che si sentono parte del Regno Unito.

L’accettazione del protocollo proposto dalla UE da parte di Johnson è stata vista come l’ultimo tradimento da parte dei lealisti. Il primo ministro si era precedentemente descritto come un “unionista fervente e appassionato” e in gran parte è andato al potere grazie al suo fermo sostegno per l’unione. Questa posizione gli è valsa il sostegno del DUP in Parlamento, che a quel tempo deteneva 10 seggi ed era considerato vitale per approvare qualsiasi legislazione sulla Brexit prima delle elezioni del 12 dicembre 2019. Dopo la vittoria dei conservatori in quelle elezioni, il DUP è diventato per lo più irrilevante e la politica britannica è andata avanti senza tenere conto delle preoccupazioni unioniste.

All’indomani dell’accordo con l’UE, i lealisti hanno organizzato numerosi incontri in tutto il Paese per dimostrare la loro opposizione all’accordo. Membri di gruppi paramilitari lealisti erano presenti ad alcune di queste riunioni. Alcune persone hanno chiesto “resistenza” e di fare tutto il necessario per prevenire ulteriori compromessi sulla Brexit. Poco prima della pandemia, anche membri dell’Ulster Defense Association (UDA) stavano preparando proteste e manifestazioni su larga scala contro l’accordo.

Sono trascorsi 23 anni dalla firma dell’accordo del Venerdì Santo, che ha effettivamente posto fine al conflitto nell’Irlanda del Nord, ma non ha mantenuto le promesse di pace, prosperità e stabilità. Nel 1998 fu detto che la pace era a portata di mano, che il nuovo Parlamento dell’Irlanda del Nord avrebbe finalmente permesso alle persone di questo territorio di autogovernarsi. La devoluzione delle forze dell’ordine e della giustizia è arrivata dopo una serie di false partenze e per un po’ tutto è sembrato calmo, alimentando la speranza che si fosse imboccata la strada verso una pace definitiva. In realtà, la sensazione è che il conflitto potrebbe essere finito, ma non la lotta all’interno della comunità nordirlandese. La lotta per il lavoro, l’istruzione, la salute mentale e il sostegno per le dipendenze, per l’alloggio e gli investimenti è continuata, con l’establishment politico sia in Gran Bretagna sia in Nord Irlanda che ha equiparato l’assenza di violenza al successo del processo di pace.

Il fatto è che la transizione tra il conflitto e la pace non si è manifestata in alcun modo come un vantaggio reale o significativo per le comunità della working class dell’Irlanda del Nord. I paramilitari esistono ancora, la privazione è ancora diffusa, lo scarso rendimento scolastico e le disuguaglianze sanitarie pervadono ancora tutte le parti economicamente più deboli del Paese. Sui due lati dei cosiddetti “cancelli della pace” di Lanark Way, una delle linee di demarcazione tra le due comunità – protestante e cattolica -di Belfast, si trovano due tra le aree più povere dell’intera Irlanda del Nord. Questa deprivazione si misura nei livelli di reddito, occupazione, salute e disabilità, criminalità, accesso ai servizi pubblici e condizioni di vita. Su entrambi i lati del “muro della pace” di Shankill Road/Springfield Road nella parte ovest di Belfast, il rendimento scolastico rimane basso: circa due terzi degli alunni che vivono in una parte di Falls Road e il 70% in parte dello Shankill hanno conseguito valutazioni del tutto insufficienti. Delle 50 aree peggiori della regione in termini di povertà educativa, 37 si trovano a Belfast, con tassi di Neet che oscillano tra il 10% e il 17% degli adolescenti più grandi (soprattutto maschi delle famiglie protestanti working class) in alcune parti della città.

I giovani che hanno lanciato molotov oltre il muro durante gli scontri notturni sono stati profondamente delusi dall’establishment politico e le loro famiglie ora fanno affidamento sugli aiuti dei banchi alimentari per il cibo che consumano. L’Irlanda del Nord ha una popolazione di 1,8 milioni di persone e 55 mila sono registrate come senzatetto. Sei anni fa l’Alta Corte ha stabilito che l’incapacità dell’esecutivo dell’Irlanda del Nord di adottare una strategia contro la povertà era illegale, ma sei anni dopo non è stato posto rimedio. La mancanza di un futuro per alcuni giovani significa che rimane un terreno fertile per il reclutamento da parte di gruppi paramilitari dissidenti lealisti e repubblicani. Al tempo stesso, l’emigrazione è ancora un fenomeno rilevante. C’è una fuga di giovani cervelli – verso la Repubblica d’Irlanda, l’Inghilerra, i Paesi dell’Unione Europea, gli Stati Uniti – alla ricerca non solo di opportunità, ma anche di una evasione dai ristretti vincoli tribali che ancora strutturano e dividono la società locale.

L’Irlanda del Nord ha il tasso di disoccupazione più basso nel Regno Unito, ma ha anche il tasso di occupazione più basso – 69,4% rispetto al 75,1% nel resto del Regno Unito. La regione ha livelli relativamente bassi di investimenti di capitale e innovazione; quantità limitate di startup locali; livelli più elevati di occupazione nel settore pubblico e una forza lavoro meno qualificata rispetto al resto del Regno Unito. Insieme, questi fattori portano a una minore competitività e occupazione. Inoltre, registra il più alto tasso di persone economicamente inattive del Regno Unito – un gruppo che comprende casalinghe, caregivers a tempo pieno, malati di lunga durata o disabili, studenti e pensionati. Il Regno Unito ha speso quasi 28 miliardi di sterline in Irlanda del Nord nel 2019, ma ha raccolto solo 18,5 miliardi di sterline in tasse locali, dati che riflettono gli alti costi e la bassa produttività della regione. Uno studio dettagliato ha rilevato che la Repubblica d’Irlandai dovrebbe pagare fino a 15,7 miliardi di euro all’anno per finanziare l’Irlanda del Nord (più di 3.200 euro per ciascun cittadino).

La Brexit e il protocollo dell’Irlanda del Nord sono solo una piccola parte di un più ampio scenario negativo in cui lealisti e unionisti della working class si vedono, a torto o a ragione, come schiacciati dai propri rappresentanti politici e dal governo britannico. La rabbia per l’accordo commerciale tra il Regno Unito e l’Unione Europea, che ha stabilito i controlli sulle merci tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, era palpabile sin dai primi giorni del progetto di accordo di recesso di Theresa May, e tale rabbia è solo aumentata durante il governo Johnson. Theresa May era politicamente dipendente dai 10 seggi detenuti dal Democratic Unionist Party (DUP) e non aveva altra scelta che prendere sul serio le preoccupazioni unioniste. Ma, dalla schiacciante vittoria elettorale dei conservatori nel dicembre 2019, Johnson è stato libero di perseguire la sua Brexit preferita senza dover prendere in considerazione gli unionisti.

Nonostante la loro feroce lealtà nei confronti della Gran Bretagna e della cultura britannica, i lealisti nutrono una profonda sfiducia nei confronti del governo britannico e hanno a lungo temuto che Londra li avrebbe abbandonati per amore della convenienza politica. Questi sentimenti risalgono almeno alla fine del XIX secolo e sono stati esacerbati dalla decisione del primo ministro Boris Johnson di accettare il protocollo dell’Irlanda del Nord nell’ottobre 2019 che garantiva che l’Irlanda del Nord sarebbe rimasta una parte de facto del mercato unico dell’UE e dell’unione doganale anche dopo l’uscita del resto del Regno Unito. La creazione di un confine doganale nel Mare d’Irlanda invece che lungo il confine irlandese, ha aggiunto una barriera tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord e così è cresciuto un sentimento di alienazione, frustrazione ed emarginazione tra i lealisti, la sensazione della perdita di controllo sul “loro” Paese.

In diverse fasi durante la pandemia, le restrizioni del lockdown hanno messo il servizio di polizia dell’Irlanda del Nord in contrasto con repubblicani, lealisti e attivisti per i diritti civili che sono stati accusati di aver infranto i regolamenti Covid-19 per scopi diversi. La decisione del pubblico ministero di non perseguire un certo numero di funzionari dello Sinn Féin all’indomani dei funerali di Bobby Storey nel giugno 2020 ha spinto il primo ministro, Arlene Foster, a chiedere le dimissioni del capo della polizia della PSNI, Simon Byrne, il quale però si è rifiutato di darle.

Le dimissioni di Arlene Foster

Il 28 aprile, Arlene Foster ha annunciato che il 28 maggio si dimetterà dalla carica di leader del DUP e alla fine di giugno da quella di primo ministro dell’Irlanda del Nord dopo un’improvvisa rivolta interna al partito. L’annuncio è arrivato solo un giorno dopo che la maggior parte dei 27 membri del DUP del Parlamento di Stormont e quattro degli otto parlamentari di Westminster hanno firmato una lettera di sfiducia verso Foster e che chiedeva l’apertura della procedura per la selezione di una nuova leadership del partito.

Dopo le elezioni generali del 2017, il DUP di Foster ha mantenuto l’equilibrio del potere a Westminster e ha mantenuto Theresa May in carica per due anni. Ma, il partito ha rifiutato ogni versione della Brexit offerta ed è stato determinante nell’affondare l’accordo di May. Il DUP ha lodato Boris Johnson per aver dichiarato che il “backstop irlandese” nel suo accordo di recesso avrebbe convertito l’Irlanda del Nord in una “semi-colonia economica” dell’UE, “danneggiando così … il tessuto dell’Unione“. Ma, una volta arrivato al numero 10 di Downing Street, Johnson è diventato, come i suoi predecessori, notevolmente più pragmatico. Si è reso conto che la sua unica strada per un accordo commerciale con l’UE era evitare un confine terrestre duro sull’isola d’Irlanda. Aveva due opzioni. In primo luogo, uscire dall’UE senza un accordo commerciale in una Brexit senza accordo dannosa e disordinata – che aveva ammesso pubblicamente equivarrebbe a un “fallimento della politica” – e assorbire il danno economico. Oppure, in secondo luogo, proteggere il mercato unico dell’UE ponendo il confine commerciale nel Mare d’Irlanda tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord. Johnson ha scelto quest’ultima opzione e, rinnegando le sue precedenti promesse al DUP, ha fatto un accordo con il taoiseach irlandese Leo Varadkar che ha sostituito il backstop con il protocollo dell’Irlanda del Nord. Da una prospettiva unionista, questo era di gran lunga peggiore del backstop, non solo perché manteneva l’Irlanda del Nord allineata all’UE, ma perché lo faceva in un modo che non si applicava alla Gran Bretagna; ha imposto una frontiera commerciale interna potenzialmente permanente attraverso il Mare d’Irlanda che ha sottolineato ancora una volta la posizione unica dell’Irlanda del Nord all’interno dell’Unione.

Il DUP ha deciso di mettere fuori gioco il suo leader per cercare di evitare un contraccolpo degli elettori nelle elezioni parlamentari del 2022. Avendo sostenuto la Brexit e spianato la strada a Boris Johnson a Downing Street, il partito è accusato di complicità nel protocollo dell’Irlanda del Nord dell’accordo di uscita dall’UE. I parlamentari del DUP temono che gli elettori arrabbiati li abbandoneranno in favore di unionisti rivali con una linea più dura. La richiesta di dimissioni di Foster offre un un capro espiatorio e sembra essere un tentativo di voltare pagina.

Anche i Presbiteriani Liberi – cristiani evangelici fondamentalisti che costituiscono una parte in diminuzione, ma ancora importante della base del partito – si sono risentiti anche per il fatto che Foster e due ministri del DUP si erano astenuti la settimana precedente in un voto in parlamento per vietare la pratica pericolosa e screditata della “terapia di conversionegay. Il defunto reverendo Ian Paisley Sr era stato il fondatore della campagna Save Ulster From Sodomy nei primi anni ’80, in un momento in cui l’omosessualità veniva depenalizzata nell’Irlanda del Nord. Il DUP ha votato contro, o revocato, quasi ogni singola questione pro-LGBTQ+ nel Parlamento dell’Irlanda del Nord, a Westminster o a livello di governo locale.

Il colpo di mano ha segnato la fine brusca e umiliante del mandato di Foster, iniziato nel 2015 tra l’entusiasmo e la buona volontà. Cresciuta vicino al confine, nella contea rurale di Fermanagh, dove i protestanti si sentivano assediati dagli attacchi dell’IRA durante The Troubles, con suo padre, un contadino e agente di polizia part-time che è stato gravemente ferito fuori dalla casa di famiglia nel 1979, e poi con il suo scuolabus che è stato colpito da una bomba, la Foster è trasmigrata dall’Ulster Unionist Party al DUP ed è stata la persona più giovane e la prima donna a guidare il DUP e l’Irlanda del Nord. Lo scandalo “cash for ash” (un pasticciato programma energetico che ha infranto la fiducia nei politici e alimentato dubbi sulla capacità della regione di autogovernarsi) e gli scontri con lo Sinn Féin hanno fatto crollare la condivisione del potere per tre anni (2017-2019), per poi essere ripresa nel gennaio 2020 solo per essere travolta dal CoVid-19 e dalle ricadute della Brexit. Foster ha mediato, ma si è battuta soprattutto per la sua parte, arrivando ad affermare di dover proteggere le finanze pubbliche e la comunità unionista dai “ladri e rinnegati” dell’SDLP e dello Sinn Féin – i suoi partner nell’esecutivo per la condivisione del potere – e che ha definito la richiesta dello Sinn Féin di una legge sulla lingua irlandese simile a quella di un coccodrillo (se li nutri, ha detto, continuerebbero a tornare per averne di più). Un politico che non ha intrapreso alcuna azione quando uno dei suoi parlamentari ha detto che se tale legislazione fosse stata approvata, l’avrebbe trattata come carta igienica. Ha fatto crescere l’idea che la condivisione del potere stesse creando danni, trasformando gli unionisti in cittadini di seconda classe. Ha anche affermato che immagina di trasferirsi in Inghilterra se l’Irlanda del Nord diventasse parte della Repubblica d’Irlanda: “Non credo che mi sentirei a mio agio. Questo è il motivo per cui me ne andrei“.

L’uscita di Foster probabilmente aprirà un nuovo capitolo incerto per l’Irlanda del Nord, che deve affrontare una corsa alla leadership del DUP e un cambio di comando all’esecutivo di Stormont in mezzo a una pandemia e a una diffusa rabbia unionista sulla questione del confine commerciale della regione post-Brexit con la Gran Bretagna. Una linea politica del DUP centrata su una resistenza più tenace al protocollo può coprire il fianco destro del partito (rispetto al Traditional Unionist Voice), ma anche accelerare la defezione dei moderati verso il Partito dell’Alleanza. Potrebbe anche destabilizzare l’esecutivo, potenzialmente annunciando un ritorno al governo diretto dalla “perfida” Londra, o potrebbe innescare una nuova elezione – in cui lo Sinn Féin potrebbe battere il DUP e diventare il più grande partito, facendo diventare la sua leader, Michelle O’Neill, primo ministro.

Non c’è un ovvio successore a Foster, ma i principali condidati sono Jeffrey Donaldson, un parlamentare a Westminster che si propone come un centrista moderato e una figura unificante che vorrebbe sanare le fratture del partito e fare appello a un’ampia base di elettori (ma ha iniziato la sua carriera politica nell’Ulster Unionist Party come aiutante del nazionalista bianco ed euroscettico Enoch Powell, per poi passare al DUP per protestare contro le concessioni fatte ai nazionalisti dall’UUP), ed Edwin Poots, parlamentare di Stormont, ministro dell’Agricoltura, legato all’ala dei Liberi Presbiteriani e un fervente creazionista che crede che il pianeta Terra abbia solo 6 mila anni. Poots ha preso una linea dura sul protocollo dell’Irlanda del Nord che ha imposto il confine marittimo e che sarà la questione determinante per il prossimo leader. Secondo le regole del partito, un elettorato di 41 membri dell’assemblea, parlamentari e pari sceglierà il nuovo leader.

L’uscita di scena di Foster ha aperto una crisi nella leadership unionista in corrispondenza del centenario dell’Irlanda del Nord – le prime celebrazioni si sono tenute questa settimana con un bassissimo profilo – e nel periodo che precede la stagione delle marce lealiste, che molti temono porterà a nuovi disordini nelle strade.

Tutti i partiti unionisti sono allo sbando e in preda al panico. La comunità protestante sta per perdere la maggioranza e Foster non è riuscita a far “abbandonare” il protocollo dell’Irlanda del Nord, e nemmeno chi la sostituirà ci riuscirà. Per cui, non è solo il DUP ad attraversare una crisi, ma anche gli altri partiti – Ulster Unionist e Traditional Unionist Voice – mancano di peso politico. In riferimento alle celebrazioni del centenario della fondazione dell’Irlanda del Nord, l’atmosfera invece che essere festosa è ansiosa e concentrata sulla perdita – perdita di potere, coesione, fiducia – e con la paura che il peggio possa venire, che la storia dell’unionismo si stia chiudendo.

Anche perché al governo del Regno Unito c’è un politico come Boris Johnson, espressione del nazionalismo inglese, che sembra voler ridisegnare uno Stato, un Regno Unito post-Brexit basato sulla nozione ristretta di sovranità parlamentare inglese del XVII secolo che fa affidamento esclusivamente sui voti degli inglesi e dei gallesi. Una ridefinizione dell’identità nazionale inglese in chiave nazionalistica – per ricostruire una sorta di “Grande Inghilterra” dominante e non una partnership unionistica all’interno del Regno Unito – che tende a ignorare, respingere ed emarginare scozzesi e nordirlandesi, minoranze nazionali che non rientrano o non condividono questo disegno e per le quali l’identità europea aveva contribuito a sdrammatizzare il loro senso di essere delle comunità minoritarie all’interno del Regno Unito. Il prezzo che il Regno Unito era disposto a pagare per “get Brexit done” era quello di giocare d’azzardo con la stessa Unione, non solo nel contesto dell’Irlanda del Nord, ma anche con la Scozia.

Uno dei motivi per cui i politici britannici possono permettersi di essere indifferenti al destino politico dell’Irlanda del Nord è perché nessuno dei principali partiti vi cerca il sostegno elettorale. A differenza della Scozia o del Galles, l’elettorato non è in grado di votare per nessuno dei potenziali partiti di governo a Westminster – Tory e Labour. Gli elettori in Irlanda del Nord non hanno voce in capitolo su quale dei principali partiti prenderà il potere a Westminster, tranne nella rara situazione di un “hung Parliament” come quello del 2017.

Finora non c’è stato alcun riconoscimento da parte del governo britannico del fatto che la Brexit sia stata altamente distruttiva per entrambe le identità politico-culturali della comunità nordirlandese (come per quella scozzese). Con la Brexit, infatti, invece di promuovere la stabilità nell’Irlanda del Nord, il governo ha raggiunto il suo obiettivo politico di uscire dalla UE, ma ha di fatto minato il delicato equilibrio politico e sociale costruito dall’accordo del Venerdì Santo del 1998. Dal punto di vista del loro futuro costituzionale, forse gli unionisti farebbero meglio a fidarsi del governo irlandese, piuttosto che fare affidamento su Boris Johnson.

Il centenario è probabilmente arrivato nel momento più difficile per l’unionismo nei 100 anni movimentati di storia dello Stato. Gli unionisti sembrano essere attraversati da un malessere fatalistico e pensano di essere trattati come cittadini di seconda classe all’interno dell’Unione, rispetto a quelli che vivono in Gran Bretagna. Sentono di essere alla periferia politica, economica e culturale del Regno Unito, piuttosto che al centro della sua comunità immaginata.

D’altra parte, per la prima volta i cattolici sono sul punto di superare in numero i protestanti – un cambiamento demografico evidente nelle maggioranze cattoliche nelle scuole e nelle università. I sondaggi suggeriscono che lo Sinn Féin potrebbe guidare i prossimi governi a nord e a sud del confine. Un referendum sull’unità irlandese sembra una questione di quando, non di se. Il 3 maggio, sostenitori di un’Irlanda unita hanno fatto la loro dichiarazione drappeggiando con uno striscione gigante un palazzone a Belfast ovest (territorio dell’ex leader di Sinn Féin, Gerry Adams), esortando la regione a lasciare il Regno Unito. “Un’Irlanda unita è per tutti. Parliamone“, diceva lo striscione, che aveva il logo dello Sinn Féin. Il leader dell’altro partito nazionalista, lo SDLP, Colum Eastwood, sostiene che l’Irlanda del Nord ha raggiunto un bivio e che: “È ora che abbiamo una conversazione significativa su dove dobbiamo andare in futuro.

La strategia dello Sinn Fèin

Sinn Féin (“Solo Noi” in gaelico) è il partito più antico d’Irlanda e uno dei più antichi partiti politici europei (venne fondato nel 1905 da Arthur Griffith), che nel corso della sua storia ha subito molte variazioni e opera sia in Irlanda del Nord sia nella Repubblica d’Irlanda. Fondato come partito nazionalista moderato con una base prevalentemente borghese, divenne il punto di confluenza di tutte le forze che volevano la separazione dal Regno Unito. Dopo la rivolta armata di Pasqua a Dublino del 1916, per la quale vennero giustiziati 16 dei leader della ribellione che avevano dichiarato una repubblica, tra i quali James Connolly, interprete di una visione del movimento di liberazione irlandese strettamente collegata a quella di una trasformazione in senso socialista della società, il Sinn Féin divenne l’espressione di massa del movimento nazionalista repubblicano.

Seguì una brutale guerra di tre anni tra l’esercito repubblicano irlandese (IRA) e le forze britanniche. Si concluse con un cessate il fuoco nel luglio 1921 con un forte danno reputazionale per la Gran Bretagna. Nel dicembre 1921 seguì un trattato anglo-irlandese che portò alla creazione dello Stato Libero irlandese di 26 contee, comprese tre contee della provincia dell’Ulster. Gli inglesi hanno approvato la legge sul governo irlandese dell’Ulster nel dicembre 1920, che ha previsto l’istituzione di due parlamenti, e che entrò in vigore il 3 maggio 1921, data che determinò l’attuale forma del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord

Una parte del movimento, tra cui lo stesso Griffith, accettò il compromesso con la Gran Bretagna e la separazione delle sei contee del nord dallo Stato Libero. Si accese una breve, ma violenta guerra civile tra il Sinn Féin opposto al Trattato e la parte favorevole che poi darà vita al partito Fine Gael. Il principio dei repubblicani era di rifiutare qualsiasi partecipazione alle istituzioni nate dal Trattato. Questa scelta astensionista portò ad un’ulteriore rottura nel 1927, quando la maggioranza del Sinn Féin, guidata da Eamon De Valera diede vita al partito Fianna Fail e decise di partecipare alle elezioni in Irlanda. Con la crisi economica degli anni ’30 il Fianna Fail riuscì a conquistare la maggioranza e il governo su una piattaforma programmatica che conteneva anche elementi socialmente più avanzati rispetto alle politiche liberoscambiste del Fine Gael.

Sinn Féin, presente anche nella Repubblica d’Irlanda, oltre che nelle sei contee del nord rimaste legate a Londra, dall’inizio degli anni ’50 era progressivamente diventato, seppure con un ruolo abbastanza marginale, il braccio politico dell’IRA, l’organizzazione armata che continuava la linea della lotta insurrezionale contro la Gran Bretagna. Predicava e praticava l’astensione dalla partecipazione alle istituzioni nate dal Libero Stato.

A cavallo tra gli anni ’50 e ’60 l’IRA ha tentato di riprendere l’azione armata, ma di fatto ha dimostrato la propria inconsistenza dal punto di vista militare. Questo ha portato ad un ripensamento ideologico di una parte del gruppo dirigente che si è orientato verso una visione marxista del conflitto irlandese. Nasce così il processo che porta alla divisione del 1970 tra l’ala official, influenzata dal marxismo, e quella provisional, più radicale sul piano dell’azione armata, ma con un’ideologia nazionalista pura e dai tratti fortemente anticomunisti.

L’ala official, organizzata nell’IRA e nel Sinn Féin, abbandonò progressivamente la lotta armata e concentrò la sua attività come partito politico nella Repubblica irlandese, trasformandosi prima in Workers’ Party e poi in Democratic Left che si trovò rapidamente a non avere più un’identità precisa e finì quindi per confluire nel Partito Laburista, mentre il Sinn Féin attuale, erede della corrente provisional, ha anch’esso subito una notevole evoluzione. Oltre a vecchi leader, nei provisional sono confluiti giovani militanti come Gerry Adams e Martin McGuinness mossi, più che dalle pregiudiziali ideologiche, dalla maggiore combattività dei provisional nel difendere i ghetti cattolici dall’oppressione e dalla discriminazione. Occorrerà una decina di anni alla nuova generazione per assumere la guida dell’IRA e con essa del Sinn Féin, il cui ruolo è restato però puramente ancillare. All’inizio degli anni ’80 l’IRA e il Sinn Féin hanno cominciato a riprendere i temi del “repubblicanesimo sociale” o di sinistra che inizialmente erano stati appannaggio dell’ala official. Con la candidatura di Bobby Sands e altri militanti incarcerati impegnati in un digiuno di protesta dall’esito mortale, l’IRA inizia a comprendere l’utilità non solo dell’azione politica, ma anche di quella specificamente elettorale. Sands ha vinto un’elezione per il posto vacante di Westminster prima di morire nella prigione di Maze il 5 maggio 1981. L’elezione di Sands è stata una svolta epocale per lo Sinn Féin, che presto ha iniziato a vincere seggi in tutta l’Irlanda del Nord.

Un altro punto di svolta è stata la decisione nel 1986 di abbandonare l’astensionismo che non impediva la presentazione di candidature, ma era incompatibile con la partecipazione alle attività parlamentari. La leadership dell’IRA e del Sinn Féin, si rese conto progressivamente che non esisteva uno sbocco armato al conflitto e anche l’azione violenta doveva essere inquadrata dentro un progetto politico. Venne così definita la strategia detta “della scheda elettorale in una mano e dell’Armalite (l’arma più usata nel conflitto) nell’altra”. Per il Sinn Féin è stata una risposta legittima a uno Stato settario non riformabile e che fondamentalmente era una struttura postcoloniale, costringendo alla fine il governo britannico a negoziare, culminando nell’accordo del Venerdì Santo del 1998 e ottenendo la condivisione del potere a Stormont e parità e rispetto per il nazionalismo irlandese. L’IRA si è ritirata definitivamente dalla scena e l’azione del movimento repubblicano avviene tutta sul terreno politico attraverso il Sinn Féin sia al nord che al sud.

Nella Repubblica irlandese. Sinn Féin è cresciuto come principale partito di sinistra togliendo consensi sia ai laburisti che al Fianna Fail, che ha sempre avuto una base importante nell’elettorato popolare di sentimento nazionalista. Ha perseguito un’abile strategia di crescita elettorale puntando soprattutto sui giovani e sull’elettorato astensionista dei quartieri popolari, la cui conquista era considerata più salda che non quella di elettori fluttuanti provenienti da altri partiti. E’ quindi passato dall’essere una forza extraparlamentare con meno del 2% dei voti al ruolo di primo partito irlandese. Aderisce al GUE/NGL, il gruppo che raccoglie comunisti, socialisti di sinistra, formazioni di nuova sinistra al Parlamento Europeo. Alle elezioni dell’8 febbraio 2020 Sinn Féin, guidato da Mary Lou McDonald, ha avuto un successo straordinario. Partito dalla conquista di due deputati per la prima volta nel 1997, in poco più di vent’anni ha cambiato completamente uno scenario politico nazionale che era più o meno stabile dalla metà degli anni ’20. E’ attualmente la principale forza di opposizione di un governo che viene sostenuto da una coalizione tra i due maggiori partiti di centrodestra, Fianna Fail e Fine Gael, e i Verdi. Subito dopo la firma dell’accordo commerciale UE-U.K. alla vigilia di Natale del 2019, la leader dello Sinn Féin Mary Lou McDonald ha dichiarato che l’unità irlandese rappresenta ora la strada migliore per il ritorno in Europa dell’Irlanda del Nord. “I leader dell’UE hanno accettato la posizione unica dell’Irlanda e hanno convenuto che il nord diventerà automaticamente parte dell’UE nel contesto di un’Irlanda unita“, ha detto.

A differenza dello Sinn Féin, con i suoi appelli aggressivi per un referendum anticipato, il governo della Repubblica non vuole fissare alcuna data. Il Primo Ministro Micheál Martin e il suo partito Fianna Fáil, così come il Vice Primo Ministro Leo Varadkar e il suo partito Fine Gael, immaginano uno sforzo molto più lento per conquistare i cuori e le menti degli unionisti, senza prevaricarli. Citano una lezione chiave del referendum sulla Brexit: non chiedere agli elettori di fare una scelta senza un quadro concordato di cosa significherebbe quella scelta in pratica. Prima di qualsiasi referendum irlandese, sostengono Martin e Varadkar, deve essere già stato raggiunto un accordo con una parte considerevole dell’opinione unionista sulle strutture e i simboli di uno Stato irlandese. “Dobbiamo discutere di come accogliere 1 milione di persone su quest’isola che si identificano come britannici, che sono britannici“, ha detto Varadkar, l’ex primo ministro. Martin ha respinto l’idea di tenere un referendum durante la vita del suo governo, che potrebbe durare fino all’inizio del 2025. Nell’ottobre 2020, ha invece creato un’unità chiamata Shared Island Unit all’interno della sua governo con un budget di 500 milioni di euro da spendere per il dialogo transfrontaliero, la ricerca e infrastrutture. Per i partiti di governo irlandesi l’aspirazione alla riunificazione è certamente presente, ma è sublimata sotto il più potente desiderio di stabilità politica ed economica. Alle orze politiche al governo della Repubblica piace l’idea dell’unità, ma temono anche di dover accogliere una numerosa e infelice comunità unionista dell’Irlanda del Nord. Collegata a questa preoccupazione, non hanno mai veramente pensato a come si dovrebbe adattare il tessuto politico, economico e culturale del Paese per accoglierla.

Nelle sei contee del Nord, Sinn Féin è diventato il principale partito della minoranza cattolica, ha contribuito a realizzare gli accordi di pace del Good Friday Agreement e partecipa tra periodiche tensioni al governo assieme al principale partito protestante, il Democratic Unionist Party. E’ stato il vincitore morale delle elezioni locali del febbraio 2017, mentre ha prevalso in 7 seggi a quelle per il parlamento di Westminster (dove si rifiuta di sedere) del 2017.

Le elezioni politiche per Westminter del dicembre 2019 hanno prodotto dei risultati assai interessanti nelle constituencies dell’Irlanda del Nord. Per la prima volta i partiti nazionalisti – Sinn Féin e Social Democratic Labour Party – hanno conquistato più seggi rispetto agli unionisti (9 a 8), vincendo in tutti i collegi di confine con la Repubblica d’Irlanda. Anche il centrista Partito dell’Alleanza ha ottenuto un buon risultato.

Nei collegi nordirlandesi, avendo la maggioranza degli elettori votato – in occasione del referendum del 2016 – per il Remain, l’agenda sulla Brexit non ha catalizzato l’attenzione degli elettori. L’idea di lasciare l’UE era impopolare sia nelle comunità dei lealisti sia in quelle dei nationalisti. Nell’Irlanda del Nord (come anche in Scozia, anche se in misura minore) sono venuti fuori per la prima volta i patti pro-remain e il voto tattico, che alla fine hanno avuto un impatto sul voto al Sinn Féin e al DUP. L’esempio più eclatante riguarda il risultato nel collegio elettorale di Belfast Nord, ove il leader DUP al parlamento di Westminster e politico navigato, Nigel Dodds, è stato battuto dal candidato del Sinn Féin John Finucane, figlio dell’avvocato Pat Finucane, assassinato dai paramilitari lealisti nella sua casa nel 1989.

Il Social Democratic Labour Party (SDLP), rivale nazionalista di Sinn Féin in altri collegi elettorali, ha deciso di non contendere a quest’ultimo il collegio di Belfast Nord in un patto non-ufficiale, con lo scopo di sconfiggere Dodds che ricopriva il seggio da ben 18 anni. Finucane ha vinto con 23.078 voti contro i 21.135 di Dodds. Un altro seggio storico del DUP, quello di Belfast Sud, è stato perso a favore del SDLP. D’altra parte, l’Alliance Party, non settario, si è assicurato un seggio. Il risultato finale ha confermato 8 seggi per il DUP (che quindi ne ha persi 2 rispetto al 2017), mentre i partiti nazionalisti, Sinn Féin e SDLP, si sono imposti, rispettivamente, in 7 e 2 collegi.

Questo risultato è stato significativo per una serie di ragioni. In primo luogo, Boris Johnson ha sacrificato il DUP nell’accordo sulla Brexit con il governo irlandese e l’UE. Ora, la Brexit si è realizzata senza l’aiuto del DUP ed a prescindere dalle sue preoccupazioni. D’altra parte, per la prima volta, tre dei quattro collegi di Belfast, un tempo bastione delle forze lealiste, sono passati ai partiti nazionalisti. Sinn Féin ha mantenuto il collegio di Belfast Ovest, territorio dell’ex leader Gerry Adams, e ha guadagnato il seggio di Belfast Nord. Il SDLP ha conquistato – come detto – il seggio di Belfast Sud a seguito di una decisione di non belligeranza del Sinn Féin. Il DUP ha mantenuto il solo seggio di Belfast Est.

Lo Sinn Fèin è pronto a chiedere di organizzare un referendum sull’unità dell’isola nel 2025 o nel 2028 (a 30 anni dal Good Friday Agreement), ovvero sulla riunificazione fra le 6 contee della parte settentrionale, rimasta alla Gran Bretagna da quando l’isola fu brutalmente divisa nel 1921 in seguito alla guerra d’indipendenza dell’Irlanda, e le restanti 26 contee della Repubblica d’Irlanda che consentirebbe all’Irlanda del Nord di aderire automaticamente alla UE, come successe per la Germania Est nel 1990. Il successo elettorale di Sinn Féin alle elezioni generali della Repubblica d’Irlanda (8 febbraio 2020) rende questa prospettiva più probabile. Il censimento dell’Irlanda del Nord nel 2021 probabilmente confermerà che per la prima volta i cattolici, che tendono a guardare a Dublino, sono più numerosi dei protestanti, che tendono a guardare a Westminster. La Repubblica è diventata anche più accogliente poiché l’influenza della Chiesa cattolica è in larga parte svanita. Mentre il 51% degli over 65 dell’Irlanda del Nord si considera britannico, solo il 17% di quelli tra i 18 ei 24 anni si sente britannico, secondo un sondaggio del quotidiano Belfast Telegraph (3 maggio 2021). Un numero crescente di persone non si identifica né come nazionalista né come unionista, un terzo blocco che potrebbe essere decisivo in un referendum sull’unità irlandese.

Il nuovo tentativo di ripartenza del nazionalismo scozzese

Il 6 di maggio si vota in Scozia per il Parlamento di Holyrood. Lo Scottish National Party (SNP) è al potere da 14 anni. Nel caso di una nuova vittoria, il partito si è impegnato a battersi per un secondo referendum sull’indipendenza da tenersi entro la fine del 2023, a condizione che la crisi CoVid-19 sia passata.

Nicola Sturgeon, la leader del SNP e premier della Scozia ha descritto le elezioni del 6 maggio al parlamento di Holyrood come le “più importanti nella storia scozzese” e questa non è un’iperbole elettorale: la posta in gioco è anche la direzione del recupero della nazione dallo shock economico e di salute pubblica più significativo in un secolo, come il futuro del Regno Unito come unione. Se l’SNP si assicurasse la maggioranza, farà pressioni su Westminster perché i poteri legali concedano l’indizione di un secondo referendum sull’indipendenza, e sta già sostenendo che Boris Johnson “non può negare la democrazia“. Questo anche se gli ultimi sondaggi indicano un calo nel sostegno al SNP e all’indipendenza, suggerendo che la maggioranza e il mandato per un secondo referendum rimangono in bilico.

Tuttavia, nonostante le conseguenze potenzialmente enormi, c’è poca eccitazione per il voto. Tutto sta accadendo nel contesto imprevedibile della pandemia da CoVid-19, con i webinar Zoom che sostituiscono le visite porta a porta e candidati socialmente distanziati che lottano per raggiungere un elettorato apparentemente esausto e distratto.

E’ una conseguenza del “picco della politica costituzionale” che le elezioni siano condotte su una singola questione, con altri partiti che cercano solo di limitare il trionfo del SNP. I due maggiori partiti unionisti, Tory e Labour, si battono per arrivare secondi. Sotto la guida di Ruth Davidson (ritiratasi dalla politica dopo l’ascesa di Johnson alla guida dei Tory e del governo), i conservatori hanno scavalcato i laburisti nel 2016 per diventare l’opposizione ufficiale. Per il Labour una tendenza interessante è la deriva degli elettori blairiani, che si erano trasferiti ai Tory a causa della linea di sinistra che Jeremy Corbyn aveva imposto al Labour, ma ora sono attratti dal nuovo leader laburista scozzese Anas Sarwar e dalla linea centrista di Keir Starmer. Dal 2014, la maggioranza dei giovani scozzesi, anche i figli di immigrati pakistani e punjabi, istruiti (il SNP ha reso gratuiti gli studi universitari) ha appoggiato il progetto di indipendenza, e la sinistra radicale scozzese si è unita a loro, togliendo il consenso elettorale al Labour. Da allora il SNP ha rimpiazzato il Labour come forza politica dominante in Scozia.

Naturalmente, è la dimensione della vittoria del SNP che rimane fondamentale. La stessa Sturgeon ha descritto le elezioni come “sul filo del rasoio“. I sondaggisti hanno evitato di fare previsioni precise perché ritengono che il sistema elettorale per il parlamento di Holyrood (un parlamento che esiste solo dal 1999, a seguito del processo di devoluzione dei poteri dal Regno Unito) – che prevede voto per collegi (73 seggi) e voto per liste regionali (56 seggi) – sia specificamente progettato per non fornire una maggioranza. Ci sono state molte discussioni sul complesso sistema di voto scozzese in questa campagna, sollecitate dal nuovo partito nazionalista Alba dell’ex primo ministro e ex leader del SNP per oltre due decenni Alex Salmond (investito nel recente passato da uno scandalo relativo ad una condotta inappropriata verso il suo staff di genere femminile, da cui è uscito assolto), che sostiene che i voti del SNP sono “sprecati” al voto regionale perché il partito fa così bene nel voto di collegio elettorale, e che i sostenitori dell’indipendenza dovrebbero invece votare Alba per inaugurare una “super maggioranza” a favore dell’indipendenza a Holyrood.

Recenti sondaggi hanno registrato un calo del sostegno all’indipendenza – un sondaggio la scorsa settimana lo ha riportato al 42%, compresi gli indecisi – il livello più basso da poco prima delle elezioni generali del 2019. Gli analisti sottolineano una combinazione di fattori per la caduta: il successo del programma vaccinale come impresa gestita a livello britannico; soft-Remainers resi ansiosi dai recenti rapporti sul possibile trasferimento della sede centrale della Royal Bank of Scotland (RBS) in Inghilterra in caso di indipendenza; elettori affini, preoccupati dalla prospettiva di un confine duro con l’Inghilterra se la Scozia dovesse rientrare nell’UE; o i discorsi del partito Alba di manifestazioni di piazza e plebisciti illegali, che potrebbero respingere i sostenitori timidi e moderati.

Riguardo a RBS è bene ricordare che a seguito della crisi finanziaria del 2008 si è verificata una una vera e propria “nazionalizzazione” della banca con la quota di controllo statale che ha raggiunto l’83%, pagando 5,02 sterline per azione. L’UK Government Investments ha venduto il 5,4% del capitale della banca a 3,30 sterline per azione nel 2015 e il 7,7% a 2,71 sterline nel giugno 2018, perdendo quindi oltre 3 miliardi di sterline. Dopo oltre un decennio il governo britannico detiene ancora il 62,4% della RBS (le cui dimensioni sono ora ridotte ad un terzo rispetto al 2008) e la banca è tornata per la prima volta a fare un profitto nel 2017, avendo perso nei precedenti 9 anni oltre 66 miliardi di euro per svalutazioni, multe e costi di ristrutturazione.

Salmond insiste che il suo è l’unico partito che “prende sul serio l’indipendenza“, attirando coloro che credono che Sturgeon sia stata troppo cauta sulla questione con la promessa di aprire negoziati con Westminster nei primi giorni del nuovo parlamento. Salmond ha detto che una super maggioranza per l’indipendenza renderebbe la posizione del governo di Westminster e Boris Johnson, che ha costantemente affermato che rifiuterà qualsiasi richiesta di Holyrood per i poteri necessari per tenere un secondo referendum sull’indipendenza, significativamente più debole.

In ogni caso, l’SNP ha dichiarato di non essere disponibile ad allearsi con Alba, mentre sarebbe possibile una coalizione con i Verdi che sono anch’essi pro-indipendenza. In ogni caso, l’SNP punta ad ottenere la maggioranza assoluta al Parlamento di Holyrood come nel 2011 (ha bisogno di 65 seggi su 129; l’ultima volta ne ha vinti 63), per rivendicare un mandato per un secondo referendum sull’indipendenza.

Uno degli elementi di debolezza per la Sturgeon e l’SNP nella loro negoziazione con Johnson sulla questione referendum riguarda la condizione economica del governo locale. Una Scozia indipendente dovrebbe essere in grado di affrontare il problema del suo deficit finanziario. Secondo un rapporto dell’Istituto per il governo, infatti, il livello di spesa per i servizi pubblici in Scozia nel 2018-19 è stato di 2.543 sterline pro capite superiore all’importo delle tasse raccolte. Una Scozia indipendente dovrebbe fare scelte difficili di spesa e tassazione.

Nicola Sturgeon ha suggerito che le mosse per rientrare nell’UE (il 62% degli scozzesi nel 2016 aveva votato per il Remain) sarebbero automatiche dopo un voto sì al referendum, piuttosto che richiedere un referendum aggiuntivo, ma i tempi per l’adesione e le regole fissate dall’UE rimangono incerti. Una Scozia indipendente potrebbe passare per l’EFTA mentre tratta la sua adesione all’UE. Con la Brexit, molte delle argomentazioni a favore della permanenza della Scozia nel Regno Unito in occasione del referendum indipendentista del 2014 (in cui prevalsero i no, 55-45%) sono evaporati. Ai 5 milioni di scozzesi era stato detto che restare nella Gran Bretagna era il loro unico modo per rimanere nell’Unione Europea, dal momento che l’indipendenza avrebbe richiesto loro di riapplicare e affrontare l’opposizione della Spagna, che vuole scoraggiare i separatisti catalani e baschi.

La Sturgeon ha anche detto che “lavorerà per evitare” attriti commerciali con l’Inghilterra in caso di rientro di una Scozia indipendente nell’UE, ma le domande rimangono, in particolare date le difficoltà ai confini irlandesi in corso dopo la Brexit e, soprattutto, in relazione al fatto che la Scozia è profondamente integrata nell’economia britannica, verso la quale esporta 4 volte di più che verso l’UE.

 

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1 Commento. Nuovo commento

  • Giovanna Scassellati Sforzolini
    06/05/2021 10:18

    Bell’articolo solo che dovrebbe essere più corto trovo che è veramente un’analisi interessante e completa complimenti.Ma il lettore si perde

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