Grazie a Alberto Benzoni, già prosindaco di Roma con Luigi Petroselli, e che ora si candida con la lista “Roma ci riguarda” che inizia oggi una collaborazione con transform! Italia. –
Le perline di Colombo e il nuovo stadio della Roma
Cos’hanno in comune le perline regalate da Colombo ai “servaggi” dei Caraibi (vedi Pascarella) e il nuovo stadio della Roma proposto dal duo Parnasi/Pallotta alle autorità capitoline? Quello di essere offerte truffaldine.
Nel primo caso perché di nessun valore.
Nel secondo per una serie di motivi, ognuno dei quali sufficiente a bocciare l’operazione sin dall’inizio e in ogni momento: la totale inaffidabilità del proponente unita all’insostenibilità economica del suo progetto; i suoi chiari intendimenti speculativi, ancora più evidenti nel suo degno compare, il presidente della Pallotta, il cui interesse per la squadra e i suoi tifosi si era sempre mantenuto vicino allo zero; la localizzazione del progetto in un’area inidonea da ogni punto di vista; la disponibilità di aree pubbliche adeguate per la costruzione di uno stadio nel tessuto cittadino; l’impossibilità giuridica di dichiarare di interesse pubblico un’operazione per impegno finanziario e volume di investimenti di edilizia privata e commerciale; e, a coronare il tutto, il fatto che il sullodato proponente fosse stato accusato, incarcerato e poi condannato agli arresti domiciliari per avere distribuito, in modo ecumenico, soldi ad esponenti capitolini e non certo a puri fini caritativi.
E invece no; la vicenda si trascina anno dopo anno, dal 2014 sino agli inizi del 2021. Mentre, a troncarla di netto, basterà che la nuova presidenza della Roma dichiari, in un semplice comunicato, un po’ come il bambino della favola di Andersen, che l’imperatore è nudo e che uno stadio così non serve assolutamente alla Roma.
E, qui, occorre dirlo, il raffronto tra i “servaggi” dei Caraibi e gli amministratori romani è tutto a vantaggio dei primi, o meglio a totale svantaggio dei secondi. Gli indios non erano assolutamente in condizione di capire il valore delle perline; ma avrebbero capito ben presto gli intendimenti del donatore. Mentre nessuno, dico nessuno, di quanti, politici e amministrativi, erano perfettamente a conoscenza dei vizi irredimibili dell’operazioni Parnasi/Pallotta, dice una sola parola delle tante che sarebbero bastate per metterla in discussione sin dall’inizio. A sfoggiare una incapacità di intendere e di volere che colpisce, curiosamente, sia le giunte a guida Pd che la lanciano nel 2013/14; sia la dirigenza M5S che dall’opposizione l’avevano ferocemente avversata mentre, dal 2016 in poi, la sosterrà contro venti e maree.
Corruzione? In buona parte sì: ma, parafrasando Lincoln, “si può corrompere qualcuno per sempre; e tutti per qualche tempo; ma non tutti per sempre”.
E, allora, c’è qualcos’altro. Una specie di malattia sociale. Definibile come “privatite”; ossia come propensione ad accettare, a scatola chiusa, tutte le proposte per lo sviluppo della città vengano fatte dai privati.
Come e perché questa malattia sia nata e si sia diffusa, cercheremo di capirlo insieme nella prossima nota.
La privatite: natura e cause della malattia e possibili rimedi
Abbiamo parlato della vicenda dello stadio. Ma potremmo, anzi dovremmo ricordare anche quella della linea C; quella, particolarmente indegna, della rimozione, a furor di notaio, del sindaco Marino; e, con loro, quelle degli infiniti piccoli sconci, dai parcheggi alle deturpazioni edilizie, che segnano il volto della nostra città. Cos’hanno in comune queste vicende? E come mai non sono rievocate da nessuno, criticamente o, meglio ancora, auto criticamente, in questa campagna elettorale?
In questi casi, la prima cosa che viene in mente è la complicità individuale. Se fossimo in un bar Sport (con tutto il rispetto possibile per questa istituzione nazional-popolare) potremmo chiuderla lì, nel consenso generale. Ma il fatto è che questa complicità è stata avallata e coperta dalla passività pressoché totale dell’istituzione e dei suoi responsabili politici e amministrativi, a copertura totale di specifiche responsabilità.
Ora, una passività generale, generalizzata e ormai quasi permanente non può che avere cause generali oltre che maturate e consolidate nel tempo. O, più precisamente, essere il frutto di una sorta di mutazione genetica in cui una struttura, il comune di Roma, leggi i suoi vertici politici e amministrativi, hanno progressivamente smarrito il senso della “missione del pubblico”; servire, al meglio, gli interessi della collettività. “Facendo cose – come diceva Keynes – che il privato non può (o non vuole N.d.R) fare”.
Sulle origini e sulla cause lontane di questa progressiva regressione si possono avere le più diverse opinioni. Ma quelle che sono certe, perché avvenute davanti ai nostri occhi, sono le tappe e le modalità di questa regressione; e anche la situazione di degrado cui stiamo assistendo oggi.
La prima, perché più lontana nel tempo, è stata la rinuncia al governo del territorio, condizione necessaria per ridurre i costi dell’urbanizzazione e per contrastare le pressioni, altrimenti irresistibili, della rendita fondiaria. Questo, il tema, centrale dello scontro tra sinistra e destra lungo tutta la seconda metà del secolo scorso; questa l’eredità delle giunte di sinistra e della grande cultura urbanistica che le aveva accompagnate (e senza fare sconti). Dopo, abbiamo avuto il “pianificar facendo”: formula accattivante ma suscettibile di essere riempita da contenuti diversi e via via sempre più negativi; come poi è puntualmente avvenuto.
Immediatamente dopo, la privatizzazione/esternalizzazione dei servizi. Simboleggiata, a livello di base, dalla liquidazione del servizio giardini e, ai piani alti, dal trasferimento, in una sorta di terra di nessuno, di tutte le strutture di progettazione. La posizione, anzi l’occasione ideale, per riscoprire e consolidare antichi legami con i pari grado delle grandi imprese private; legami che potremmo definire tranquillamente “pericolosi” per gli interessi della collettività.
Passività regressiva anche nei rapporti con il mondo esterno. Dove, alla ricerca di risorse interne da utilizzare per il raggiungimento di obbiettivi di interesse pubblico, si sostituisce l’attesa ansiosa per il soccorritore esterno: soldi, ripiano dei debiti da parte di un governo amico; proposte di investimento da parte di babbi Natale, di qualsiasi natura e provenienza.
E, ancora, totale perdita di controllo sulle aziende municipalizzate: contratti di servizio redatti sotto la loro dettatura e, ancora, liberi da qualsiasi verifica; nomine sostanzialmente arbitrarie perché non soggette a controllo pubblico sulle capacità e i requisiti del nominato o sugli obbiettivi che intende perseguire.
Trasformazione delle aziende municipalizzate in società per azioni: così da assoggettare il loro comportamento – clientelismi e sprechi a parte – agli stessi vincoli esistenti per le imprese private.
E, infine, a coronare che dico a saldare il tutto, la privatizzazione della politica. Dove la bandiera della trasparenza, con apposito assessorato, serve a coprire l’esigenza dell’invisibilità. Un’invisibilità, un muro di gomma che ognuno di noi, nella sua veste personale e collettiva, ha potuto sperimentare nel corso di questi anni; e che va dall’impossibilità di sapere le sorti di una qualsiasi delibera al velo di omertà che copre le grandi scelte dell’amministrazione e dei suoi rappresentanti politici.
Ed è, signori, l’esercizio della democrazia formalmente concesso per un giorno o due. Ma negato per tutto il resto dell’anno.
Fermare, allora, l’onda finchè siamo in tempo. Per, contribuire a ricostruire, dalle fondamento, quel patto tra governanti e governati su cui si fonda la civiltà democratica e liberale.
Questo il messaggio e l’impegno che intendiamo assolvere in questa campagna elettorale. Consapevoli della modestia delle nostre forze; ma consapevoli anche del fatto che basta la voce di uno solo per far capire che il re è nudo.
Perché Berdini
Sostengo la candidatura di Paolo Berdini a sindaco di Roma e mi candido nella sua lista.
Lo devo a Riccardo Lombardi, che mi ha insegnato la dignità di ogni scelta politica e le ragioni perenni di un socialismo di sinistra.
Lo devo agli amici di una vita, che hanno condiviso con me la grande esperienza dell’Iri e della sua missione pubblica; così come hanno sofferto sino in fondo la sua decadenza e la sua frettolosa liquidazione.
Lo devo agli anni trascorsi, con loro, per aiutare gli altri a “capire Roma per cambiarla”; scontrandoci sempre con la totale sordità dei pubblici poteri.
Lo devo a Petroselli, al mondo che lo circondava e ai tanti compagni, protagonisti delle lotte e delle speranze di quegli anni; ritrovare molti di loro mi restituisce la convinzione che quell’impegno non è stato profuso invano e non è stato cancellato dal tempo.
Lo devo a Paolo Berdini, intellettuale e uomo vero che ha traversato, senza mai tirarsi indietro, anni di solitudine e di sofferenza a difesa dei diritti dei più deboli e degli interessi della collettività. E a cui ora potete offrire l’opportunità di fare sentire la su a voce.
E, per finire, lo devo a me stesso. Potere fare la cosa giusta, verso la fine del proprio percorso pubblico, è un’opportunità data a pochi. E sento profondamente la responsabilità che ne deriva.
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