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Quale riforma per carcere e giustizia penale?

di Livio
Pepino

Riproponiamo questo articolo comparso il 2 agosto 2021 su gruppoabele.org con lo stesso titolo.

Il tormentone continua. Da anni. Il funzionamento della giustizia penale è insoddisfacente, il carcere scoppia (sia pure con presenze variabili), la funzione rieducativa della pena è un’illusione. Ma il dibattito pubblico al riguardo è, salvo poche eccezioni, deludente ed elusivo. A volte pare che tutto si riduca alla disciplina della prescrizione, su cui si contrappongono due opposte tifoserie (entrambe poco interessate al funzionamento e alla razionalità del sistema complessivamente inteso).

Partiamo, dunque, dalla prescrizione. È un istituto che esiste pressoché ovunque, sia pure con diversità di disciplina. Per una ragione semplice e intuitiva. Nessun processo può durare in eterno: perché negli anni le persone cambiano e non ha senso sottoporle a pena dieci, venti o trent’anni dopo i fatti; perché l’interesse sociale alla repressione viene meno quando del reato si è perso finanche il ricordo; perché quando è passato troppo tempo diventa difficile (se non impossibile) accertare l’esatta dinamica dei fatti. Per questo la legge prevede che, dopo un certo lasso di tempo, se il processo non si è concluso, i reati si prescrivono e gli imputati non possono essere ulteriormente perseguiti. Evidente il nesso tra prescrizione e durata dei processi: se questi hanno tempi accettabili, i reati che si prescrivono sono pochi e marginali; se, al contrario, durano lustri o decenni (come accade nel nostro Paese), la prescrizione diventa un esito frequente che manda al macero centinaia di migliaia di processi (e, quel che è peggio, di vicende umane spesso drammatiche).

Che fare, dunque? Razionalità vorrebbe che si intervenisse per ridurre, salvaguardando le garanzie, la durata dei processi. Ma per farlo in maniera significativa ci sono solo due strade, potenzialmente concorrenti: diminuire i carichi degli uffici giudiziari con una drastica depenalizzazione (a cominciare dai settori degli stupefacenti e dell’immigrazione, nei quali, tra l’altro, la bulimia repressiva si è rivelata inefficace oltre che ingiusta) e/o aumentare il numero di pubblici ministeri e giudici. Strade che richiedono, peraltro, risorse economiche consistenti e un ampio consenso e che sono oggi impraticabili per la decisiva ragione che tali condizioni non esistono. E, allora, si mascherano come risolutivi, perché l’Europa lo chiede e – come si ripete ossessivamente – per non perdere il treno del Piano nazionale di ripresa e resilienza, interventi di piccolo cabotaggio o aggiustamenti pur importanti e utili (come alcuni di quelli previsti nel “pacchetto” della ministra Cartabia: dal potenziamento dei riti alternativi alla revisione del sistema delle pene sostitutive, dall’estensione della causa di non punibilità per tenuità del fatto all’allargamento della messa alla prova e alla restituzione di effettività delle pene pecuniarie). Mentre la disciplina della prescrizione oscilla tra l’ottusa rigidità della legge Bonafede (che ne prevede la non operatività dopo la sentenza di primo grado per tutti i reati, compresi quelli bagatellari, come gli oltraggi, i piccoli furti in un supermercato o le violazioni di modesta entità della legge sugli stupefacenti) e la scommessa del progetto Cartabia (che conferma quella disciplina ma introduce tempi ridotti e vincolanti per la celebrazione dei processi in appello e in Cassazione, pena la loro improcedibilità).

Non serve promettere l’impossibile. Allo stato attuale non ci sono soluzioni appaganti, anche se è possibile dare maggiore razionalità alla disciplina della prescrizione operando ulteriormente sulla sua durata a seconda della gravità e dell’allarme sociale prodotto dai reati ad essa interessati. In attesa di tempi migliori, che consentano di intervenire sugli snodi fondamentali del sistema penale, e per evitare che la situazione si incancrenisca ulteriormente c’è una strada: un’amnistia e un indulto ponderati e ben calibrati. A fronte di una proposta siffatta tutti, sulla scena politica, si stracciano le vesti. Ma non c’è alternativa, come ha sostenuto recentemente su Avvenire, Paolo Borgna, già Procuratore della Repubblica aggiunto a Torino: “L’unico modo per rendere meno lenti i processi è dover celebrare meno processi. Ebbene: se questa è, da anni, l’emergenza quotidiana, dopo la spallata della pandemia la situazione sarà più grave. […] Quando il motore si imballa bisogna resettarlo. A costo di provocare oggi qualche piccola ingiustizia che servirà però ad evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie. Per questo i tribunali devono essere alleggeriti da un carico che rischierebbe di metterli in ginocchio. E ciò vale anche per quei detenuti già condannati a pena definitiva che, in questi mesi, stanno vivendo, tra le mura di un carcere, il timore di un contagio incontrollabile. […] Così è stato in tutti i passaggi cruciali della storia del nostro Paese, sempre accompagnati da provvedimenti di clemenza”. Parole sagge e realistiche, su cui varrebbe la pena di confrontarsi laicamente, invece di lanciare anatemi o di parlar d’altro.

 

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