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Quale “Futuro dell’Europa”?

di Pier Virgilio
Dastoli

Jacques Delors aveva paragonato l’Unione Europea ad un ingranaggio nella convinzione – ispirata al metodo funzionalista che Jean Monnet aveva proposto di applicare all’invenzione comunitaria – che il gradualismo introdotto nei trattati di Roma avrebbe consentito all’integrazione europea di realizzare l’obiettivo dell’Unione Economica e Monetaria, iscritto nel Trattato di Maastricht, aprendo poi la via all’unione politica resa ancor più necessaria dalla frantumazione dell’impero sovietico e dalla prospettiva di unificazione del continente.

Sappiamo che, dall’Atto Unico in poi, l’ingranaggio è stato sottoposto ogni cinque anni ad una revisione (Maastricht, Amsterdam, Nizza e infine Lisbona) e che, in occasione della firma del Trattato di Lisbona nel dicembre 2007, la soddisfazione di essere usciti dall’impasse della sfortunata costituzione europea aveva spinto la pur prudente cancelleria Merkel ad affermare che esso avrebbe contrassegnato la vita dell’Unione fino al 2050.

Sappiamo anche che l’entrata in vigore di quel trattato nel dicembre 2009 è avvenuta nel pieno della più grave finanziaria, e poi economica e sociale, dalla recessione del 1929 e che le istituzioni europee e i governi nazionali hanno prima gravemente sottovalutato l’impatto della crisi ed hanno poi adottato decisioni i cui effetti sono stati ancora più devastanti non solo perché hanno accresciuto le asimmetrie fra i paesi dell’Unione ma per la stessa solidità del progetto europeo.

Alla vigilia delle elezioni europee del 2019, si era diffusa l’opinione che l’incapacità dell’Unione di dare delle risposte comuni alla crisi avrebbe rafforzato nello stesso tempo il crescente astensionismo e la presenza dei movimenti euro-scettici o euro-ostili nel Parlamento europeo sulla scia di quello che era avvenuto nel Regno Unito con il referendum sulla Brexit del giugno 2016.

In questa situazione di incertezza, il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha lanciato l’idea di riaprire il cantiere europeo, chiuso dieci anni prima, convocando una “Conferenza sul Futuro dell’Europa” come spazio di dialogo e di confronto con i cittadini europei senza precisare tuttavia se l’esito del confronto sarebbe dovuto sfociare in un processo di riforma dell’Unione attraverso una revisione dei trattati.

Le elezioni europee del maggio 2019 si sono chiuse con risultati parzialmente in controtendenza rispetto alle aspettative o ai timori, perché la crescita dell’astensionismo si è interrotta e la presenza dei movimenti euroscettici o euro-ostili si è fermata al livello della legislatura che si era appena chiusa.

La pandemia dal COVID-19 ha cambiato radicalmente l’agenda dei governi e delle istituzioni europee condizionando il funzionamento dell’Unione europea per tutto il 2020 e certamente ancora per buona parte dell’anno in corso; un’agenda concentrata sulla gestione dell’emergenza, prima sanitaria, quindi sull’urgenza della ricostruzione ed ora sulla campagna delle vaccinazioni.

La data del 9 maggio 2020, come inizio di una Conferenza che sarebbe dovuta durare due anni, è rapidamente scomparsa dal calendario delle Istituzioni, così come è apparso chiaro che la Presidenza tedesca del Consiglio, nel secondo semestre del 2020, si sarebbe concentrata sulle emergenze e non sull’avvio della Conferenza.

Infine, la Presidenza portoghese del Consiglio, iniziata il 1° gennaio 2021, ha raggiunto un compromesso con il Parlamento europeo e con la Commissione su un complicato governo interistituzionale della Conferenza e su una lista non esaustiva di temi su cui organizzare il dialogo con i cittadini lasciando totalmente nell’incertezza la questione della riapertura del cantiere europeo di riforma dei Trattati.

Appare ora evidente che, più di undici anni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’ingranaggio descritto da Jacques Delors all’inizio degli anni Novanta necessita di un’accurata revisione che le nuove emergenze hanno reso ancora più urgente.

Nel dibattito sul futuro dell’Europa deve essere innanzitutto collocata una visione innovativa e progressista del concetto di “autonomia strategica” che viene normalmente associato alla politica della sicurezza e della difesa.

L’autonomia strategica dell’Unione europea, con l’obiettivo di un multipolarismo globale, deve porre invece al centro le nuove sfide planetarie che riguardano da una parte le questioni della sicurezza (l’Europa che protegge) oggi legate al terrorismo internazionale, alla criminalità organizzata, all’elusione fiscale e alla corruzione e d’altra parte la dimensione della sicurezza ambientale e dunque la lotta al cambiamento climatico insieme all’indispensabile indipendenza esterna dalle energie fossili, gli effetti dirompenti sui sistemi democratici delle nuove tecnologie della società digitale, la cybersecurity e last but not least  la competitività europea nella dimensione dell’intelligenza artificiale.

L’autonomia strategica dell’Unione europea riguarda poi la dimensione esterna dell’Unione economica e monetaria in tutte le sedi internazionali dove si discutono le questioni legate al governo della finanza, essendo necessario e urgente riaprire il dibattito sulla riforma del sistema di cooperazione rimasta in sospeso dopo la crisi del 2007-2008 e porre sul tavolo il tema del ruolo internazionale dell’euro.

L’autonomia strategica dell’Unione europea riguarda infine il governo della sfida planetaria dei flussi migratori sapendo che la politica di accoglienza appartiene agli Stati o, nel nostro caso, alle organizzazioni regionali a dimensione sovranazionale ma che la lotta alla cause delle migrazioni (la fame, le guerre, i disastri ambientali, il land grabbing, la violenza dei regimi autoritari, i conflitti religiosi) appartiene alla responsabilità delle organizzazioni internazionali a cominciare dalle Nazioni Unite che devono far rispettare le convenzioni internazionali come quelle di Ginevra e Amburgo.

Tutto ciò pone la questione della riforma delle organizzazioni globali internazionali come l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e l’Organizzazione Mondiale della Sanità dove l’Unione europea deve porre come priorità assoluta il rispetto dello stato di diritto che è un valore imprescindibile al suo interno e nelle relazioni con i paesi terzi e che comprende le cinque componenti della dimensione democratica: rappresentativa, partecipativa, economica, paritaria e di prossimità.

È evidente che, rispetto alla fase iniziale del processo di integrazione europea, il metodo confederale ha mostrato tutta la sua inadeguatezza nel dare risposte di fronte a problemi che superano le frontiere nazionali ed è diventato il terreno privilegiato dell’azione di chi difende le apparenti sovranità assolute degli Stati paralizzando la capacità di intervento dell’Unione.

L’esperienza di questi ultimi venti anni ha messo in luce la totale incompatibilità fra confederalismo ed europeismo e la necessità di superare i vincoli imposti dal ruolo del Consiglio Europeo, con particolare riferimento al diritto di veto e al principio della unanimità.

In modo meno evidente, anche il metodo funzionalista ha mostrato i suoi limiti invalicabili essendo stato concepito per la realizzazione di obiettivi settoriali come la Comunità del Carbone e dell’Acciaio o generali ma incapaci di mutare un sistema fondato sulla centralità degli Stati come il mercato interno.

In tutti questi anni, il punto debole del funzionalismo è rimasto indissolubilmente legato ad una concezione tecnocratica del processo di integrazione con l’effetto di scambiare – come è stato sottolineato più volte da Altiero Spinelli – l’efficienza esecutrice del potere amministrativo con la creatività del potere politico in una dimensione democratica.

Un’amministrazione – ha scritto Spinelli – è sempre necessaria per realizzare un piano politico ma tende per sua natura ad irrigidirlo ed a concepirlo come qualcosa di concluso in sé, quindi incapace di generare nuovi piani”. E l’Unione Europea ha oggi bisogno proprio di nuovi piani per rispondere alle sfide del ventunesimo secolo.

La discriminante non potrà essere limitata all’alternativa fra europeismo e sovranismo ma fra la scelta del metodo federale indispensabile per creare un vero spazio pubblico democratico europeo e un generico europeismo incapace di dare risposte adeguate ai problemi del nostro tempo e delle nuove generazioni europee.

È questa la sfida essenziale di fronte a cui si trova un vero radicalismo riformista e su cui far convergere la cultura dell’universalismo cattolico, dell’internazionalismo socialista e del cosmopolitismo liberale a cui si deve aggiungere la cultura ambientalista nella prospettiva della trasformazione dell’Unione europea in una Comunità federale percorrendo la via costituente e non quella di una revisione intergovernativa dei Trattati.

Il dibattito sul futuro dell’Europa percorrerà questa via solo se queste culture si uniranno in una alleanza di innovatori, seppure nell’ambito dei partiti europei, e se esse si impegneranno finalmente ad attuare la missione che è stata assegnata loro dai Trattati di contribuire “alla formazione della coscienza politica europea e all’espressione della volontà delle cittadine e dei cittadini dell’Unione”.


*Pier Virgilio Dastoli è il Presidente del Movimento Europeo – Italia

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