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Putin nelle sabbie mobili ucraine

di Franco
Ferrari

Sul fronte ucraino le ultime settimane e soprattutto gli ultimi giorni hanno registrato un’ulteriore escalation sia sul piano militare che su quello politico. La Russia ha proceduto ad incorporare parte dell’Ucraina orientale. Non solo le zone del Donbass ,che erano di fatto separate dal 2014, e la cui “indipendenza” aveva riconosciuto nel febbraio scorso, ma anche un’area più ampia che grosso modo ne ne raddoppia l’estensione. Questa iniziativa è stata assunta sulla base di referendum che si sono tenuti in condizioni tali da poter essere difficilmente considerati rappresentativi delle opinioni degli abitanti di quelle zone. Sicuramente nelle regioni abitate da cittadini di lingua russa e che si sono sempre sentiti parte di quella nazione, pur trovandosi per complesse ragioni storiche inglobati all’interno dello Stato ucraino, era presente una componente che ha vissuto l’evoluzione politica ucraina, dalla deposizione di Yanukovic in poi come una progressiva cancellazione dei propri diritti di minoranza linguistica. Difficile però quantificare l’esistenza di un effettivo consenso nel cambiare i confini e ancora di più l’accettazione di una guerra, dall’impatto catastrofico sulle condizioni di vita, quale mezzo per risolvere le controversie esistenti.
La decisione assunta da Putin è avvenuta oltre tutto in un momento nel quale le forze militari russe si trovano in crescente difficoltà sul terreno e hanno dovuto cedere, di fronte alla controffensiva militare ucraina, territori che avevano conquistato a prezzo di notevoli costi di uomini e mezzi. Il risultato è di aver dichiarato come parte del territorio della Federazione Russa zone che in realtà l’esercito non sembra in grado di difendere con l’uso della forza.
L’esercito ucraino, destinatario di consistenti e crescenti sostegni militari da parte di Stati Uniti e Nato, ritiene, sulla base dei primi successi ottenuti, di poter invertire i rapporti di forza sul terreno e quindi di avviare la riconquista delle zone ora occupate dall’esercito russo. La “vittoria” di cui parla Zelenski prevede non solo il ritorno alla situazione antecendente al 24 febbraio ma anche la rioccupazione di Luhansk e Donetsk e la riannessione della Crimea all’Ucraina. L’attacco al ponte di Kerc ha avuto l’indubbio significato di riaffermare l’obbiettivo finale di riportare i confini dello stato ucraino alla situazione precedente al 2014.
Gli attacchi missilistici russi alle città ucraine in risposta all’attentato di Kerc sono serviti invece a dimostrare la determinazione russa, ma hanno anche confermato che Putin non sembra in grado di definire una via d’uscita dal conflitto che ha deciso di avviare e i cui reali obbiettivi sono sempre stati piuttosto confusi e per certi versi poco credibili.

Con un nuovo discorso, il Presidente russo ha cercato di riformulare, in primo luogo per suoi concittadini, ma anche per l’opinione pubblica mondiale e per gli altri Governi, le ragioni che starebbero alla base del conflitto. Questo discorso può essere scomposto in tre elementi di fondo. Il primo si colloca in coerenza con una tradizione ideologica nazionalista che vive come una tragedia la frammentazione della popolazione russa dovuta al crollo dell’Unione Sovietica. La fine dell’URSS è indicata come un disastro ma non per il contenuto internazionalista, universalista e socialista che (almeno nello dimensione ideologica) ne costituiva la ragion d’essere, ma solo perché ha costretto milioni di russi a vivere da minoranza in altri Stati, spesso (e questo è vero) privati di diritti civili fondamentali. La visione etno-nazionalista di Putin, con l’esaltazione della “civiltà russa”, la sua connessione con la religione ortodossa e così via, rischia spesso di entrare in contraddizione con il fatto che nemmeno la Federazione Russa è etnicamente omogenea. E sono soprattutto le minoranze etniche (come avviene anche negli Stati Uniti) a doversi sobbarcare maggiormente il costo umano del conflitto.
Il secondo elemento di fondo del discorso di Putin consiste nel rivendicare il conservatorismo sociale che è proprio di tutta la nuova destra radicale che è cresciuta nel mondo. Da Trump a Bolsonaro, dalla Meloni a Orban. La convergenza su questa ideologia reazionaria non esclude per altro l’innestarsi di conflitti legati a visioni geopolitiche e ad interessi nazionalistici contrastanti. Un Paese come la Polonia è ideologicamente affine alla concezione di Putin ma è contemporaneamente la parte più avanzata del fronte russofobo.
Il terzo elemento è decisamente più complesso e rivendica l’esistenza di un assetto mondiale che non sia dominato economicamente, politicamente e militarmente dal blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti. Putin ha rivendicato il ruolo dell’Unione Sovietica nel sostenere l’affermazione dei movimenti anti-coloniali, anche se poi ne rimuove l’ispirazione internazionalista che pure nelle deformazioni e contraddizioni (soprattutto del periodo staliniano) che pesavano, ha continuato ad influenzare l’azione sovietica sulla scena mondiale.
Questo appello al “fronte anti-occidentale” in nome di un mondo multipolare trova evidentemente echi favorevoli in ampie aree del mondo, come dimostrano il rifiuto di molti paesi significativi ad aderire alle sanzioni anti-russe o la recente decisione condivisa con l’Arabia Saudita (un paese normalmente alleato del blocco occidentale) di diminuire la produzione di petrolio. Di fronte al tentativo di Biden di rilanciare il predominio americano nel mondo in nome di un fronte ideologico simile a quello costituito negli anni ’50, molti Paesi reagiscono negativamente o quanto meno con scetticismo. Anche quando poi non condividono la scelta di Putin di avviare un conflitto militare ritenuto, se non sbagliato, quanto meno inopportuno e avventurista.

Putin, al fine di cercare di mantenere o consolidare il consenso della popolazione russa alla guerra (le cui effettive dimensioni è difficile valutare), ha spostato l’asse della narrazione dal rapporto Russia-Ucraina alla dimensione del confronto Russia-Occidente.
La decisione di mobilitare 300.000 riservisti, la cui effettiva influenza sull’esito del conflitto militare è tutt’altro certa date le carenze logistiche e organizzative che le formazioni russe hanno dimostrato sul campo, ha però aperto un conflitto con una parte dell’opinione pubblica interna. Le manifestazioni di piazza si sono rapidamente esaurite, anche per effetto della repressione, mentre un consistente numero di potenziali reclute è fuggito all’estero. Come evidenziato da precedenti crisi del sistema putiniano, esiste un’opposizione radicata in settori di ceto medio e di nuove generazioni che si considerano più occidentalizzate e sono insofferenti del crescente autoritarismo politico, ma finora non sembrano avere scosso la Russia profonda.
Al di là dei proclami ideologici, più o meno coerenti, o delle indagini sulla psicologia putiniana, vi è chi vede nella decisione di avviare un conflitto militare in Ucraina un elemento proprio alla struttura del capitalismo russo, interpretato come una forma di capitalismo “politico”. Il sistema è dominato da un blocco sociale che basa la sua forza sul controllo diretto dello Stato e del territorio che è poi quello che garantisce la gran parte delle risorse economiche su cui si basano le ricchezze delle classi dominanti.
Classi dominanti che non hanno la forza per inserirsi con un ruolo che non sia del tutto subalterno, nel sistema della globalizzazione capitalistica e che per questo si sono via via allontanate dalle politiche di integrazione progressiva nell’Occidente. Perseguite da Eltsin e in una prima fase anche da Putin, ma poi abbandonate di fronte ad una sostanziale impossibilità di modificare le gerarchie mondiali.
La guerra è stata avviata per garantire alla Russia un ruolo meno subalterno e marginale negli assetti mondiali di quello a cui era destinata dall’etablishment statunitense, ma senza avere alle spalle una struttura militare e un retroterra economico e produttivo adeguato a imporre un rapido esito positivo al conflitto. Le spese militari russe negli anni passati sono state equivalenti a quelle di una potenza di medie dimensioni, una frazione di quelle del blocco occidentale,  in più largamente sprecate per effetto di una diffusa corruzione.
Fatto salvo un sovvertimento completo degli equilibri interni, che ancora non sembra probabile, la Russia ha avviato una guerra che rischia di non poter né vincere, né perdere, dovendo perseguire una relativa escalation politica e militare, ma senza arrivare (si spera) all’utilizzo dell’arma nucleare.

Dall’altra parte Stati Uniti e Nato puntano su una vittoria militare completa dell’Ucraina, aderendo alla posizione più oltranzista che include nelle condizioni della vittoria anche la rioccupazione della Crimea. Il coinvolgimento militare occidentale nella guerra è sempre più ampio (sistemi d’arma molto sofisticati e costosi, addestramento militare delle truppe, condivisione dei sistemi d’intelligence) e si unisce anche alla necessità di tenere in vita economicamente lo Stato ucraino. Con una certa dose di ipocrisia, si dichiara, come è toccato a Stoltenberg, che una vittoria della Russia sarebbe una sconfitta per la Nato ma anche che la Nato non è in guerra con la Russia. È evidente che il conflitto, dietro i proclami ideologici e la propaganda, ha la funzione di mantenere o di ristabilire, qualora si pensasse si stesse perdendo, la supremazia occidentale e in particolare statunitense.
Il meccanismo delle sanzioni, sulla cui efficacia esistono opinioni contrastanti, ha intanto contribuito ad accrescere le prospettive di una crisi economica e sociale che vede in prima fila l’Europa e su cui peserà anche l’impatto delle misure anti-cinesi adottato dall’Amministrazione Biden. Lo scenario globale è quello di una crescente militarizzazione dei rapporti tra Stati e di una parziale deglobalizzazione che inverte processi di espansione capitalistica che hanno dominato gli ultimi 30-40 anni. Una sorta di “decrescita” gestita dal capitalismo occidentale con l’idea (o l’illusione) di poter mantenere il proprio primato nel mondo, sostituendo l’uso della forza a quello di un egemonia ideologica in crisi.

Putin sembra essere finito nelle sabbie mobili con la sua decisione di alzare il livello del conflitto militare in Ucraina. Ma in quelle sabbie mobili sembrano destinati a finire anche molti altri. L’Unione Europea prima e più di tutti.

Franco Ferrari

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