di Stefano Galieni – L’ingresso problematico nella cosiddetta “fase 2” dell’emergenza covid-19 sta producendo effetti interessanti anche rispetto alle modalità con cui affrontare le tematiche relative all’immigrazione tanto in Italia quanto nel resto d’Europa. Con l’inizio dell’emergenza gran parte dei Paesi UE avevano reagito semplicemente sospendendo la già ridotta libertà di circolazione, le espulsioni dei migranti che risultano irregolarmente presenti, il blocco dei “provvedimenti Dublino” relativi a chi aveva chiesto asilo in un Paese e si era poi spostato in un altro.
L’unico fatto nuovo, peraltro inevitabile, è stato quello di prorogare, in ogni paese a seconda della valutazione dell’emergenza sanitaria, la validità dei titoli di soggiorno.
Una positiva eccezione è stata quella del Portogallo. Il governo lusitano sin dall’inizio ha infatti emanato un provvedimento secondo cui chi risulta irregolarmente presente ha diritto ad un permesso di soggiorno temporaneo, fino al 30 giugno a coloro che avevano già presentato domanda di regolarizzazione presso il SEF (Servico de Estrangeiros e Fronteiras) del Ministero dell’Interno. Ma il Portogallo ha normative avanzate rispetto al resto d’Europa in materia di migrazione. Ci si può infatti regolarizzare anche dopo essere entrati irregolarmente a condizioni di aver lavorato con contratto e avendo i contributi versati per 12 mesi.
Ma ora cosa accade? Se in Portogallo probabilmente il governo sarà spinto a prorogare i termini della durata del permesso, la Germania sta implementando l’arrivo di lavoratori comunitari, soprattutto dalla Romania, per ovviare alla carenza di manodopera in agricoltura per la raccolta degli asparagi bianchi e dei lamponi. E in Italia? La situazione nel nostro paese è da tanti anni bloccata dalla saldatura fra le restrizioni assurde imposte dalla Bossi Fini (ci si può regolarizzare per motivi di lavoro solo se si ha un contratto prima ancora di entrare in Italia) e l’assenza o la marginalità anche dei “decreti flussi” che in qualche maniera consentivano ad una minoranza, funzionale al mercato, di regolarizzare la propria posizione.
Il numero di quelle e quelli che con intento criminalizzante vengono chiamati “clandestini” è cresciuto in maniera non estrema unicamente grazie al fatto che molti fra coloro che hanno sanato la propria posizione nel lontano 2009 hanno fatto richiesta di cittadinanza, hanno il permesso da lungo soggiornanti (Carta CE) o si sono allontanati dall’Italia chi tornando nel paese di provenienza chi, come molti italiani, emigrando in paesi con maggiori prospettive. Nonostante ciò e grazie anche alle ulteriori limitazioni imposte attraverso i decreti Minniti Orlando prima e Salvini dopo, rivolti ai richiedenti asilo, oggi si calcola che ci siano almeno 650 mila persone presenti in Italia senza averne titolo, esposte allo sfruttamento, a condizioni di vita precarie, a rischio di espulsione, reclusione nei CPR o di finire nel tessuto della microcriminalità senza peraltro poter esigere se non marginalmente del SSN né di altre forme di sostegno.
Persone che non potranno mai essere rimpatriate, come tante volte affermato tanto da leader di centro destra che di centro sinistra ma che sono condannate nell’invisibilità. Delle persone non c’è bisogno, delle loro braccia si. Ed è per questo che già da dicembre si ragionava di forme di regolarizzazioni funzionali al lavoro e che riaffermavano una posizione di dominio verso coloro che sarebbero stati “sanati”. Circola in questi giorni una proposta governativa che limita il campo ai soli lavoratori in agricoltura, pesca e pastorizia, quelli di cui c’è più carenza in questa fase e già il solo fatto che ci si limiti a tali ambiti rende insufficiente e inaccettabile tale proposta.
Il testo, ancora non formalizzato, propone permessi della durata massima di 1 anno, rinnovabili se si trova ulteriore occupazione a cui non si ha accesso, sia per gli imprenditori che intendono regolarizzare che per i lavoratori, in caso di reati (diversi a seconda di chi li abbia commessi) anche se il processo che ne deriva non sia ancora andato in giudicato. Una palese violazione dei diritti costituzionali primo fra tutti la presunzione di innocenza. Se sarà questo il provvedimento che passerà in parlamento (la Lega, al di là di dichiarazioni roboanti e dovendo rispondere anche ai propri elettori non sembra voler mettere troppo i bastoni fra le ruote) potrebbero temporaneamente avere un permesso ed un contratto circa 200 mila persone, soprattutto nel Mezzogiorno, in gran parte uomini. La proposta prevede che chi lavora veda rispettati i propri diritti contrattuali ma, in contesti complessi e privi di controllo come quelli delle campagne, chi potrà vigilare sulla reale applicazione di tali diritti. Si potrà lavorare con le necessarie protezioni sanitarie? Si verrà retribuiti per il numero di ore per cui realmente si lavora? Si contrasteranno realmente le forme strutturali di caporalato? Sarà garantita a chi lavora una abitazione dignitosa e condizioni di vita decenti?
Ma anche se tutte queste condizioni, per miracolo, venissero rispettate, resta il fatto che si tratta di forme di utilizzo temporaneo di manodopera di cui potersi liberare con pochi ostacoli. Fioccheranno i contratti “finti” in cui ad approfittare della necessità di emersione saranno tanto autoctoni quanto immigrati che avranno strumenti per guadagnare sui connazionali.
Ma, soprattutto, resteranno fuori da ogni possibilità tanto coloro che lavoravano, magari al nero, in comparti diversi, (lavoro di cura, logistica, edilizia, turismo ecc..) quanto e soprattutto chi era, come tanti italiani ed italiane in cerca di occupazione. Ad un mercato del lavoro che è negli anni cambiato, con forme contrattuali friabili e soggette a continue modifiche si risponde con provvedimenti che risultavano antiquati e inadeguati, non solo eticamente, già negli anni passati.
Ci vorrebbe il coraggio che questo governo, come i precedenti, non ha. Quello di predisporre, come minimo sindacale, una regolarizzazione generalizzata che contenga, se proprio si vuole restare sul terreno del lavoro, un limite temporaneo per ricerca occupazione non inferiore ai due anni. Si tratterebbe, ad avviso di chi scrive di un obiettivo intelligente e perseguibile che garantirebbe anche quella “sicurezza” di cui entrambi gli schieramenti politici, seppur con modalità diverse, si fanno scudo. Avremmo in Italia 650 mila persone con un documento, una residenza, una prospettiva di inserimento sociale e lavorativo come obiettivo, che porterebbero anche a diminuire la “percezione” di pericolosità alimentata non solo dai mezzi di comunicazione ma dalle condizioni di disagio reale.
Non sarebbe un percorso indolore ma riporterebbe le questioni migratorie sul piano della normalità e questo sarebbe il primo passo, necessario ma non sufficiente, per rivedere l’intero impianto normativo in materia. Ne trarremmo giovamento tutte/i tranne chi sfrutta, chi trae dalla invisibilità guadagni illeciti, chi ha interesse a governare con la paura.