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Processi di pace

di S. Segio,
G. Tognoni

Mai come nell’anno appena trascorso, e in questo 2023 appena iniziato, la questione della pace si è imposta nella sua drammatica attualità e necessità, a partire dalla guerra in Ucraina. Non che in precedenza siano stati assenti, rari o meno cruenti i conflitti armati, anche estremamente estesi e duraturi, con il loro portato di crimini, vulnerazione di diritti, ulteriore erosione di libertà, negazione della democrazia; basti pensare ai vent’anni di guerra in Afghanistan, o alla Siria o allo Yemen, per non dire della Palestina. Ma è indubbio che, a partire dall’ingresso delle truppe russe in Ucraina nel febbraio 2022, una pericolosa involuzione è stata progressivamente, e quasi inavvertitamente, imposta al mondo e prima di tutto all’Europa: a sessant’anni dalla crisi dei missili a Cuba, la guerra nucleare è tornata a essere scenario possibile e la fine del mondo per come lo conosciamo non è più ipotesi inimmaginabile.

Un mondo senza pace e senza giustizia

L’analisi dei nuovi scenari geopolitici e del disordine globale, a partire dalla disamina della guerra in Ucraina e, più in generale, del sistema della guerra, è il filo nero che traversa i contenuti e i capitoli del nuovo Rapporto sui diritti globali.
La polarizzazione dell’attenzione mondiale su di essa ha contribuito però a rimuovere i numerosi altri conflitti – altrettanto sanguinosi, anche se meno suscettibili di incontrollabili escalation – in corso da tempo e, in alcuni casi, persino dal secolo scorso.

Nell’occasione dell’uscita di questo 20° Rapporto, non a caso titolato Senza pace, senza giustizia1, l’Associazione Società INformazione Onlus, che dal 2003 ne cura la redazione, ha organizzato nel dicembre scorso a Venezia un’iniziativa dedicata ad alcuni di questi conflitti e, in specifico, ai relativi processi di pace: realizzati, come quello irlandese; in corso di implementazione, come in Colombia; promossi da una delle parti in causa, ma sabotati dall’altra, come quello tra Kurdistan e Turchia; congelati e dimenticati, come nel Saharawi; negati e rimossi come nei Territori occupati da Israele; unilaterali come quello basco.
L’intenzione è stata quella di dare vita a una terza Conferenza internazionale sui processi di pace nel mondo per dare continuità e sviluppo alle due precedenti tenute, sempre a Venezia, nel 2009 e 2011. Nella prima, presenti rappresentanti baschi, kurdi, irlandesi e il mediatore internazionale di pace sudafricano Brian Currin vi era stata la storica dichiarazione dell’Izquierda Abertzale, la sinistra nazionalista basca, di fare propri i principi di Mitchell e di perseguire solamente per via democratica e pacifica la ricerca della pace. Nella stessa occasione i rappresentanti dei kurdi avevano annunciato la roadmap verso i negoziati che avrebbe condotto pochi mesi dopo ai primi contatti ufficiali del governo turco con il leader incarcerato del PKK, Abdullah Öcalan.
Nella seconda edizione della Conferenza, nel 2011, oltre a una sessione rivolta a fare il punto della situazione dei processi di pace allora in corso (basco e kurdo) ve ne era stata un’altra dedicata al tema della governance locale.

I relatori della Conferenza di Venezia

L’incontro del dicembre 2022 ha visto invitati relatori ed esperti di tutti quei paesi oltre che dell’Iran, dove è in corso una feroce repressione contro la popolazione, e contro le donne in primo luogo, che in pochi mesi ha visto 500 manifestanti uccisi e almeno 16mila arrestati.
Numerosi anche gli interventi previsti di deputati e rappresentanti europei. Tra questi, anche esponenti della ONG Fight Impunity, sino a quel momento da tutti conosciuta come organizzazione attiva sui diritti umani fortemente accreditata nel parlamento europeo e invece rivelatasi coinvolta nello scandalo “Qatargate” esploso proprio alla vigilia della terza Conferenza. Un avvenimento grave e inaspettato, le cui ripercussioni non hanno però impedito di mantenere, pur in forma diversa e limitata, l’incontro previsto con gli altri interlocutori internazionali giunti a Venezia, dando luogo a un proficuo scambio e consentendo di impostare un percorso comune in vista e in preparazione di prossime iniziative.
Nell’incontro infine tenuto sono stati molti i popoli e le organizzazioni rappresentate. La partecipazione dei curdi è stata particolarmente ampia e significativa, oltre che drammatica in alcuni dei resoconti riguardo la repressione in Turchia e la guerra di aggressione nel Rojava, con gli interventi di Asya Abdullah (co-presidenta PYD, Federazione Nord-Est della Siria), Tara Huseyni (co-presidenta Movimento del Popolo kurdo dell’Iraq), Adem Uzun (Congresso Nazionale del Kurdistan), Ebru Gunay (capogruppo parlamentare HDP al parlamento turco) e di Yilmaz Orkan, dell’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia.

Colombia. Il percorso per la “Pace totale”

Nella riflessione e impegno per rilanciare movimenti e processi di pace – che non possono essere disgiunti da quelli di liberazione e per i diritti dei popoli – altrettanto importante, attuale ed egualmente drammatica, è l’esperienza colombiana, con l’Accordo di pace sottoscritto nel 2016 dai guerriglieri delle FARC e dal governo, che finalmente, con la nuova presidenza di Gustavo Petro, sta ora trovando ampliamento agli altri gruppi combattenti e soprattutto implementazione, riscontrando la volontà politica e creando le condizioni per fermare il perdurante massacro: nel solo 2022 sono stati assassinati 42 ex combattenti firmatari dell’Accordo di pace, oltre a 189 leader sociali e difensori dei diritti umani; dalla firma dell’Accordo al 15 gennaio 2023 sono stati, rispettivamente, 348 e 1413. A novembre, dopo il Senato, anche la Camera colombiana ha approvato un disegno di legge denominato “Pace totale”, che estende l’Accordo ad altre organizzazioni guerrigliere e a gruppi armati, per un definitivo e totale cessate il fuoco. È importante che tra le misure previste vi siano forme di redistribuzione delle terre, sottraendole ai latifondisti e al narcotraffico, per assegnarli a ex guerriglieri e piccoli agricoltori. La pace, infatti, per essere stabile e duratura deve accompagnarsi alla giustizia sociale ed è del tutto coerente e atteso che sia un presidente di sinistra come Petro, già partecipante al Movimento 19 aprile, organizzazione armata della sinistra rivoluzionaria nel secolo scorso, a tradurre in realtà questo fondamentale principio.

Sulla situazione in Colombia e sull’attuazione del processo di pace hanno riferito German Gomez, dirigente delle FARC e tra i firmatari dell’Accordo del 2016 e Carlos Beristain, membro della Comisión de la Verdad colombiana. Quest’ultima è stata un’esperienza fondamentale, durata ben quattro anni, che ha coinvolto associazioni, organizzazioni sociali e sindacali, comunità e autorità etnico-territoriali, gruppi di vittime. Il suo Rapporto finale (articolato in 11 tomi e 24 volumi) si chiama C’è un futuro se c’è verità. Un titolo programmatico, come lo stesso nome per esteso della struttura che lo ha redatto: “Commissione per il chiarimento della verità, convivenza e non ripetizione”. Dunque, la ricerca della verità storica diventa tappa di un percorso di giustizia e di riparazione di cui il processo di pace e l’Accordo erano stati la necessaria precondizione. Come già sentenziato dal Tribunale Permanente dei Popoli il 17 giugno 2021, dai documenti emerge come lo Stato colombiano sia colpevole del crimine di genocidio, di crimini di guerra e umanitari portati avanti nel corso di decenni, «con maggiore atrocità durante gli ultimi diciannove governi, con un ruolo centrale assunto dai governi presieduti da Álvaro Uribe Vélez».
Con l’elezione a presidente di Gustavo Petro il 7 agosto 2022 e il suo nuovo governo progressista ora insediato in Colombia, dopo mezzo secolo di sanguinoso conflitto, la pace e la verità sembrano davvero poter ricominciare a camminare, insieme e a passo spedito. È questa una delle non molte buone notizie dell’anno passato e di questi mesi.

La rappresentante del Fronte Polisario, Fatima Mahfud, ha condiviso informazioni riguardo la repressione dei Saharawi, una popolazione costretta a vivere, o meglio a essere repressa e vessata, circondata da un muro di oltre 2.500 km nell’ultima colonia spagnola oggi sotto controllo del Marocco. Le Nazioni Unite hanno da tempo chiuso nel cassetto le proposte di pace e il relativo percorso istruito sin dal 1991, così come la richiesta di un referendum per l’autodeterminazione. Lo stesso ha fatto l’Unione Europea, totalmente distratta e assente dalla questione dei diritti umani nel Saharawi e i cui accordi politici e commerciali a favore del Marocco prescindono dai diritti e rivendicazioni del Sahara Occidentale, che sono ignorati e negati. Forse non a caso, dato che dallo scandalo emerso e in corso di indagine a Bruxelles, che coinvolge il parlamento europeo, è emerso anche un filone lobbistico-corruttivo che riguarderebbe il Marocco.

Stimolanti anche le riflessioni e le proposte venute da rappresentanti baschi, con l’intervento di Aimar Etxeberria, responsabile delle relazioni internazionali di EH Bildu, la coalizione di sinistra sostenitrice del nazionalismo basco, a partire dalla sollecitazione a non limitarsi a condividere le rispettive fotografie della situazione, lavorando anche a costruire spazi utili ai vari movimenti di resistenza e di liberazione. Sottolineature sulla questione dell’autodeterminazione dei popoli sono venute anche dagli interventi di attivisti catalani.

Kurdistan. Il modello del Confederalismo democratico

Contiamo che il lavoro svolto per preparare la Conferenza, lo scambio avuto e gli auspici e disponibilità emerse a Venezia, qui sommariamente riassunti, possano contribuire a rendere maggiormente visibili e dialoganti le organizzazioni che lavorano a processi di pace, le loro esperienze e proposte, allargandosi e coinvolgendo pure altre realtà e movimenti. La positiva esperienza della Colombia e prima dell’Irlanda e, ancora in precedenza, del Sudafrica e di paesi latinoamericani, dimostrano la praticabilità di soluzioni politiche e la possibilità di restituire alla dialettica democratica, nel segno del rispetto dei diritti umani e di una maggiore giustizia sociale, paesi e popolazioni vittime di conflitti armati e violenze talvolta decennali e sempre sanguinose. Naturalmente, ogni processo di pace non può che essere calato nelle rispettive specificità e partire dalle differenti condizioni e peculiarità storiche e sociali. Quel che può essere comune, sinergica e fondante è la volontà di aprire una possibilità di futuro e di superamento, consentita dall’accertamento della verità storica e dalla non ripetizione della tragedia e dell’ingiustizia.
La pace non è solo assenza di guerra: è rispetto della dignità e dei diritti di ogni popolo e di ogni persona. In questo senso, può essere sicuramente produttivo il confronto attorno al modello del Confederalismo democratico avanzato – e praticato – dai kurdi. Una proposta sociale e politica, richiamata anche all’incontro di Venezia, teorizzata da Abdullah Öcalan, tesa a costruire una società basata sull’autogoverno, orientata al consenso, aperta a tutti i gruppi etnici, multiculturale, antimonopolistica, anti-patriarcale, ecologista e fondata su un’economia alternativa.
Proprio Öcalan è un simbolo di come il contrasto dei crimini e dell’ingiustizia di Stato siano il primo passaggio perché la pace diventi un percorso e non rimanga una parola vuota, strumentalizzata e tradita da governi nazionali e sovranazionali. Sepolto vivo dalla Turchia di Erdogan nella prigione di Imrali dal 1999, del leader kurdo non si hanno più notizie da quasi due anni. Né i famigliari né i suoi avvocati hanno potuto visitarlo dal marzo 2020. Lo stesso Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che ha visitato la prigione di Imrali nel settembre 2022, non è stato in grado di incontrare Öcalan.

Una situazione di estrema gravità e preoccupazione che, di nuovo, vede distratte e silenziose le istituzioni sovranazionali e i governi europei, comprovatamente inclini alla pratica ipocrita di un doppio standard sui diritti umani e a cedere ai ricatti di Erdogan, come, da ultimo, nel caso della pretesa di espellere ed estradare i kurdi rifugiatisi in Svezia in cambio del proprio assenso all’ingresso nella NATO di quel paese.

Questa vicenda intollerabile e lesiva di ogni regola del diritto per noi è nuovo stimolo e occasione di impegno, per ribadire che pace, giustizia sociale e difesa diritti umani sono parti complementari di uno stesso discorso. L’iniziativa di Venezia, pur se penalizzata dal concomitante scandalo europeo, è stata una tappa importante di questo percorso, che sarà sviluppato e articolato nei prossimi mesi. A cominciare dalle iniziative previste in febbraio anche a Roma e a Milano, in occasione dell’anniversario dell’arresto di Öcalan, per denunciare le condizioni di tortura in cui è detenuto e l’indecente silenzio al riguardo dei governi e delle istituzioni europee e internazionali.

Sergio Segio (Associazione Società INformazione Onlus)

Gianni Tognoni (Tribunale Permanente dei Popoli)

  1. https://www.dirittiglobali.it/20-rapporto-sui-diritti-globali-2022/.[]
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